perìgeion

un atto di poesia

La poesia è una forma di resistenza, intervista a Francesco Marotta

 

Marotta

 a cura di Evangelia Polymou

 

“να γράφεις είναι μια μοίρα που τρέφεται από τον ίσκιο των ωρών
το ερωτικό αγκάθι όποιου δεν αφήνει τίποτα πίσω του
για να ʼναι στάχτη, στοιχείο του ανέμου
είναι χαραγμένο πάντα με γράμματα φωτιάς
μες στις ίριδες των σημαδιών που σέρνει”

 

Signor Marotta, Le do il benvenuto nel sito di “Poiein“. Che cosa è la poesia per Lei e quale ruolo gioca nella Sua vita?

Innanzitutto grazie per l’attenzione e l’invito, è veramente un onore e un piacere essere ospiti sulle pagine di Poiein”.
La poesia, dunque. Essenzialmente essa è per me, alla luce di quanto sono venuto maturando nel corso degli anni, durante i quali ho sempre mantenuto in spazi contigui, fino a renderli quasi inseparabili, lo studio e la riflessione insieme alla pratica testuale, una tra le più alte forme espressive di resistenza, in primo luogo al potere, ai suoi emblemi, ai suoi simulacri, alle sue maschere e ai suoi rituali: insomma, opposizione a tutto ciò che da sempre nega l’umano in ogni sua manifestazione e diversità.
Il poeta, se tale, deve farsi portatore cosciente di “tempesta” e “sovversione”, per citare il pensiero di un autore che mi è particolarmente caro, René Char; deve utilizzare il linguaggio per scardinare, insieme agli assetti precostituiti del reale, anche la resa del linguaggio stesso alle logiche che concorrono alla definizione di quegli assetti e di quel reale: ma, perché ciò sia effettivamente possibile, egli deve essere capace di stabilire un singolare e duraturo rapporto etico con la parola, senza il quale l’esercizio della scrittura diventa puro calligrafismo, un “ricamo sulla pelle del nulla”.
L’eticità, in questo caso, non vuole sottendere unicamente un richiamo al messaggio del testo e alle sue implicite o esplicite valenze inter-relazionali, quanto piuttosto un riconoscimento della libertà, della necessità di esistenza dell’altro, vale a dire della parola in quanto tale: non più unicamente uno strumento, ma un essere, nelle cui profondità sedimentano e dimorano istanze inconciliabili con la pura rappresentazione del dato: la metamorfosi e l’oltranza, dunque, contro l’ipostasi, cioè la negazione di tutto ciò che, inarrestabile, trascorre oltre le gabbie statiche, rigidamente violente ed escludenti, della visione dominante.
Sì, la poesia ha un ruolo sicuramente rilevante nella mia vita, ma non la esaurisce, questo no, anche se è da essa che prende le mosse e fluisce, non fosse altro perché è proprio il radicamento dialettico nelle contraddizioni della realtà socio-economica nella quale sono nato, unitamente alla sostanza etico-politica dei valori nei quali sono cresciuto, ad alimentare, anche se in forme tutte mie, quella ricerca, quell’incessante experimentum mundi attraverso e dentro la parola al quale ormai non saprei in nessun modo rinunciare.

 

La poesia, a Suo parere, coinvolge in primo luogo la conoscenza o il sentimento?

Credo che la parola poetica possa dire tutto, e che in questo tutto si esprima un’assoluta libertà senza ragione, un’incessante scoperta di sensi altri, di suoni-voci-volti che aggiungono, ad ogni tappa della ricerca, nuove note e nuovi tasselli alla partitura e al mosaico interminabili dell’esistenza umana.
E’ un cammino di ordine sostanzialmente gnoseologico, se si vuole, ma tracciato su una mappa affatto inconsueta, fuori controllo e fuori dall’ordine di rotte predefinite, che ha come estremi skèpsis e hairesis, e nessun’altra finalità che non sia l’ascolto di quanto, insieme a noi, tracima in altre forme, senza certezze in merito a presunte verità assolute, date o da scoprire: un percorso alimentato e sorretto unicamente dall’eco dei passi, dall’eco che si fa fuoco di segni sulla pagina, dal fuoco che è il cuore pulsante di una interrogazione senza inizio e senza fine.
Il sentimento, allora, come qualsiasi altra istanza (emozionale, istintuale, intellettuale, sociale, politica, civile) non può essere estraneo a questo peregrinare, ma non può costituirne l’unica ragion d’essere: nel senso che se una poesia nasce intenzionalmente per commuovere, per dare libero sfogo a un bisogno, per convincere, per sostenere una tesi o quant’altro, essa semplicemente non-è-più in quanto tale: sarà un manufatto, un oggetto, una produzione, un testo apprezzabile per tanti versi e in tanti ambiti, ed anche di egregia sostanza, ideazione e struttura, perché no, ma non più poesia, in quanto l’intenzione, proprio quella espressa e non un’altra, escludendo il molteplice che è la totalità della sua natura plurale, le nega ogni statuto di esistenza.

 

Nella poesia Fino all’ultima sillaba dei giorni, si rappresenta la passione della scrittura come una necessità dell’esistenza umana, un destino mandato dal cielo: “scrivere è un destino covato dall’ombra delle ore / scrivere è un’ora covata dal destino”. Poeti quindi si nasce o si diventa attraverso la pratica quotidiana?

Sono nato, e ho vissuto per parecchi anni, in un mondo contadino sperduto alle periferie dell’esistenza e della storia, invisibile e inascoltato, un mondo le cui profondità e i cui silenzi mi si sono stratificati addosso, giorno dopo giorno, fino a costituire quasi una seconda pelle, una seconda natura diventata col tempo praticamente indistinguibile, in atti e pensieri, da tutto quello che ero e sono, che potevo essere e che sono diventato.
E’ questa la matrice originaria, la fonte primaria del mio poetare: un destino che non è un mandato celeste (un’idea del genere mi risulta totalmente incomprensibile), ma un lascito, un compito partorito da una vicenda e da una condizione esistenziale e sociale concreta, dall’ombra delle ore passate a scrutare e a cercare di interpretare le figure e le lettere di una comunicazione, potente come le zolle e viva come la dignità del sudore che le fa fiorire, fatta unicamente di gesti e di sguardi, a decodificare e a memorizzare quell’alfabeto immaginale di silenzi. Ecco perché la trama allegorica che la mia scrittura viene tessendo di testo in testo è sempre costellata di metafore di ordine naturalistico – metafore che più che il frutto di elaborazione retorica o stilistica sono elementari visioni vissute nell’infanzia e nell’adolescenza e riaffiorate sulla pagina quasi in forza di un moto proprio, che dice soltanto quanto esse siano tutt’uno col carico di esperienze che mi porto addosso e con il linguaggio che utilizzo per dargli voce.
La poesia non è un dono innato, ma un esercizio continuo, quotidiano, fatto di attenzione, volontà di superamento e coraggio: il coraggio che serve per inseguire i segni di una vicenda tutta iscritta nell’orizzonte vertiginoso della nostra finitudine, la traccia che resta del nostro svanire all’ approdo.

 

L’ Italia è afflitta, anche se a più bassa intensità che in Grecia, da problemi economici e socio-politici. Ritiene che questi problemi abbiano posto nella tematica della poesia moderna, o Lei condivide l’opinione che l’ispirazione poetica è il frutto dell’isolamento del poeta? Qual è il ruolo e il contributo dell’arte poetica nella società contemporanea?

Nessuna poesia, anche quella apparentemente più lontana da queste problematiche, può esserne immune, rimanere estranea alle vicende del mondo in cui nasce e al quale, in forme e con fini i più diversificati, comunque si rivolge e risponde.
Non credo nell’isolamento e nell’ispirazione: sono termini che ho sempre visto con profondo sospetto perché ingenerano l’idea di una nascita quasi divina, mistica, del fare poetico – che ne esce circonfuso da un’aura di sacralità e di inviolabilità, di separatezza e inaccessibilità, mentre invece il “poiein” è la più terrestre e la più elementare delle attività umane: una perenne creazione di forme che, sottratte alle destinazioni d’uso delle categorie dell’utile, si pongono per la loro stessa natura in opposizione costante verso ciò che tende a ridurre l’esistenza nell’alveo soffocante di quelle stesse categorie elevate a sistema. La poesia è sempre, da questo punto di vista, un fatto eminentemente politico.
Quindi, si può fare, anzi si deve fare, una poesia di opposizione, eretica, dissenziente, radicale, politica, e tante modalità, in questa direzione, sono state ampiamente esplorate, esperite, praticate. Rimane, però, un malinteso sostanziale, un nodo teorico non risolto nella maggioranza di queste enunciazioni, che, a mio parere, condiziona non poco le intenzioni e la pratica scrittoria di tanti pur validissimi poeti, frettolosamente etichettati, in particolare in Italia, come “civili”: e cioè che la denuncia passa invariabilmente attraverso la riproposizione, a parametri rovesciati, di quello stesso reale reificato contro cui ci si pone, dando luogo a delle rappresentazioni che utilizzano, sul piano della comunicazione, quello stesso linguaggio che genera e veicola il degrado, la mercificazione, l’ipostatizzazione dell’esistente. Il risultato è, nella migliore delle ipotesi, una poesia “consolatoria”, d’occasione, da santini laici, che ha la stessa inconsistenza, su un piano solo presuntivamente alternativo, di tutte le poetiche impastate di aneliti estatici al sovrasensibile e accensioni spirituali variamente assortite.
Io provo, nei limiti del possibile, a fare, o almeno a ipotizzare, un percorso diverso, rischiando l’oscurità più totale, l’erranza perpetua del senso, pur di sfuggire a queste logiche auto-assolutorie che normalizzano, loro sì, la mercificazione omologante delle belle forme e delle belle anime.
Cos’è, in buona sostanza, che permette al potere di perpetuarsi attraverso il controllo, la rimozione delle diversità, il seppellimento ancora in vita di ogni forma di alterità, nell’arte come nella vita concreta di tutti i giorni, qui e ora?  Nient’altro che il “linguaggio”, le forme canonizzate ed etero-dirette della comunicazione, una parola priva di vita, che non nomina e non ricrea il mondo ma lo ingabbia nell’oggettualità senza sguardi e senza voce dei simulacri da cui siamo soffocati. Ed è qui che va speso almeno un tentativo, prefigurata almeno una possibilità di alternativa: riandare a una parola primigenia, essenziale, disincrostata; restituire alla parola la sua libertà, quella di “essere”, prima di “significare”; farle parlare la lingua delle cose al loro primo apparire, prima che il circuito della rappresentazione/significazione la rinchiuda, attraverso i meccanismi tipici della tradizione museificata e della complicità accademica officiante, nel tritacarne delle etichette, degli schemi, delle omologanti artificiali pulsioni alla visibilità senza suono e senza sostanza.
Mi interessa chi si espone, giorno dopo giorno, nelle strade, nei luoghi dove si cova il conflitto, la dialettica; chi si immerge nelle contraddizioni e nelle lacerazioni e le vive sulla sua pelle; chi si ritrova parte, e ha coscienza di esserlo, della stessa umanità emarginata e senza voce; non mi interessa minimamente chi crede di avere assolto il suo compito etico, civile, sociale, affermando una distanza solo presunta dai luoghi del domino che genera emarginazione e dolore, facendo il suo bel compitino in versi e, in questo modo, mettendo a tacere, anestetizzandola di buoni proponimenti, la sua coscienza.
Se mi è cara la condizione degli ultimi, io con gli ultimi ci vivo e ci consumo la mia esistenza, non gli offro una poesia, sia pure ben scritta e politicamente corretta, che dica “ecco, è per voi”: se sono poeta, e lo sono a partire da quella scelta radicale, io metto i miei strumenti a disposizione di un progetto consapevole di scardinamento delle strutture su cui il potere si regge, cioè delle strutture della comunicazione che perpetuano il controllo. L’eresia, il dissenso, l’opposizione sono qui: perché la poesia, quella vera, quella che chiede alla parola di essere, nasce come “vocazione sovversiva”: sovversione dell’ordine di segni attraverso il quale il potere perpetua da seimila anni controllo e dominio.
René Char, tanto per fare un esempio che forse può spiegare meglio il mio pensiero, “non” ha scritto pagine “belle” o “utili” sulla resistenza, ma la resistenza l’ha “fatta”, in armi: e mentre combatteva per restituire all’umano (cioè in primo luogo a se stesso) la sua dignità ferita e umiliata, da poeta scavava fin nelle viscere delle parole, fino a disperderne il senso, contrapponendo oscurità a oscurità, alla ricerca di quegli “squarci di esistenza inafferrabili” dove la vita riscopre “l’abisso e la cima”, “il furore e il mistero”: l’irripetibile finitudine delle sue radici e dei suoi rami.
Le sue pagine sulla Maddalena del lumino di Georges de la Tour sono fatte di parole levate per l’eternità contro ogni forma di totalitarismo e di oppressione; così come l’oscurità del mandorlo di Celan splenderà per sempre, come un monito a futura memoria, contro ogni forma di violenza e di negazione della vita e delle sue diversità.
La poesia “politica” è questa: un corpo di parole che parla di speranza e futuro ma lo fa, come ogni arte che sia tale, con strumenti che sono solo i suoi, quelli che la distinguono da ogni altra forma dell’operare umano. Chi crede che le poesie cambieranno il mondo, sta semplicemente ingannando se stesso e coloro che lo leggono: il mondo si cambia, l’esistente reificato si rovescia e si abbatte solo con la forza della volontà e delle idee e con l’azione concreta dell’impegno quotidiano e della lotta: le poesie possono solo ricordarci, quando cercheremo di ricostruirlo, il mondo, quali sono i mattoni che non possiamo assolutamente fare a meno di utilizzare, quali quelli da scartare per evitare che domani tutto crolli di nuovo.

 

Per Lei la Grecia è…

Detto senza nessuna retorica: la terra delle mie radici. La scoperta, a sedici anni, del grande patrimonio rappresentato dalla poesia tragica, in particolare dell’opera di Sofocle, ha indirizzato irreversibilmente la mia esistenza e il mio sguardo sul mondo. E’ una grande madre alla quale, da allora, non smetto di fare ritorno e dalla quale continuo ad attingere a piene mani voci e suggestioni.

 

È vero che le buone traduzioni sono piuttosto scarse. Consapevole del rischio che comporta la traduzione della poesia, ho deciso che vale la pena di prendere il rischio e tradurre in greco alcune sue poesie. Anche Lei è un traduttore. Pensa che sia facile riportare lo spirito di un poeta in un’altra lingua?

Un discorso sulla traduzione, che è e rimane un’arte sempre in fieri, sarebbe difficile da esaurire in poche righe senza correre il rischio di banalizzarlo oltremodo, soprattutto oggi quando le opzioni teoriche alle quali attingiamo sono immediatamente fruibili e non più patrimonio esclusivo degli specialisti in materia. E’ impossibile, allora, immaginare di poter dire qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a quanto il dibattito specifico dell’ultimo mezzo secolo non abbia già messo ampiamente in luce.
Penso, comunque, che almeno l’esistenza di una metodica di riferimento, se non di una teorica vera e propria, sia un problema che non può essere mai eluso da parte di chi accetta il rischio di trasporre un testo o un’intera opera in un’altra lingua. In caso contrario, si sta facendo qualcosa d’altro – magari affascinante e commovente, ma siamo comunque fuori dall’orizzonte traduttologico, che impone rigore ed esclude a priori ogni forma di improvvisazione.
Allora, dato per scontato (almeno per me) che una traduzione “perfetta” non esiste e non potrà mai esistere, e che una traduzione “letterale” è sempre poca cosa, a voler essere buoni, quando non si risolve in una vera e propria aberrazione lessicale e sintattica, credo che il rigore filologico e l’interpretazione del testo in questione (operazioni che non possono in alcun modo fare a meno della conoscenza preventiva della poetica dell’autore) siano conditio sine qua di ogni possibile procedura. Va da sé che il fine di ogni lavoro del genere, fosse anche di ordine meramente divulgativo, non può prescindere dalla coscienza che si tratta, alla resa dei conti, di approssimazioni, di tentativi, di forzature, di piccoli continui smottamenti verso un centro che non si dà, perché, semplicemente, è sempre un passo oltre il risultato raggiunto.

 

Le indagini in Grecia e in Europa mostrano che gli studenti si annoiano a leggere delle poesie. Come Insegnante di Filosofia e Storia nelle scuole d’Istruzione Secondaria, ritiene che sia responsabile il modo d’insegnare? A suo parere, si insegna la poesia?

La pratica e la divulgazione della poesia sono stati miei obiettivi primari da insegnante di letteratura, nel tentativo, spesso riuscito, di avvicinare i ragazzi al cuore vivo e pulsante, sempre attuale e contemporaneo, di quella che è l’arte sicuramente più antica: dire il mondo in forma di canto.
Anche oggi, da docente di Filosofia, utilizzo abbondantemente il testo poetico nelle mie lezioni, non fosse altro che per veicolare e rendere accessibili concetti altrimenti astrusi, destinati a rimanere, il più delle volte, nel campo delle formulazioni fini a se stesse, completamente inutilizzabili, da parte del giovane, nel processo di elaborazione del proprio immaginario e della propria crescita umana e culturale. Tanto per fare un esempio: molte volte, per avvicinare gli studenti alla complessità del progetto gnoseologico kantiano della Critica della Ragion Pura, parto dalla lettura-analisi-discussione de L’infinito di Giacomo Leopardi…
Resta il fatto, comunque, che, pur prendendo atto di eventuali successi individuali, e nonostante la buona volontà di tanti docenti capaci di innovare all’interno di percorsi didattici definiti dall’alto, la scuola, soprattutto in Italia, è uno dei maggiori responsabili dell’allontanamento dei giovani dalla poesia e dalla letteratura in genere: essa è al centro di un progetto politico di restaurazione, di consapevole destabilizzazione, distruzione ed emarginazione di tutto ciò che si richiama a pratiche di sapere critico, all’autonomia del soggetto discente, al riconoscimento della sua specificità in quanto portatore di bisogni culturali altri rispetto all’esistente, bisogni ai quali occorerebbe dare voce.
La poesia non si insegna: si possono insegnare le tecniche, le retoriche, le forme, i generi, le convenzioni, se ne può seguire lo sviluppo storico, l’interazione con altri campi espressivi, la teorizzazione estetica, il susseguirsi di poetiche: ma solo a posteriori, perché questo armamentario si riduce a puro deposito di nozioni senza vita, se prima non si desta lo stupore, se prima non avviene l’incontro con questo sguardo altro sul mondo e sulle cose che tutti, inconsapevolmente, ci portiamo dentro e che nessuna architettura teorica potrebbe mai esprimere senza che ci si imbatta, vi si precipiti e se ne sia avvinti, nel vivo della pagina che ci parla.

 

Quali poeti, italiani o stranieri, e quali libri preferiti, vorrebbe suggerire ai lettori greci?

Per rispondere a questa domanda dovrei ripercorrere l’intera galleria dei tantissimi autori incontrati negli anni sul mio cammino, perché tutti, a vario titolo e in varia misura, hanno contribuito a definire il perimetro all’interno del quale ho avuto modo di riconoscere la mia voce e la sua estensione, le sue possibilità e le sue derive. Mi limito per ovvi motivi di spazio al solo panorama italiano (ma un paio di nomi di poeti stranieri irrinunciabili credo comunque di averli fatti), segnatamente all’ultimo secolo, non senza premettere che, tranne pochissime eccezioni, non ho mai amato particolarmente la letteratura canonizzata e museificata in antologie e repertori, perché ho sempre creduto (e oggi più che mai lo penso) che ogni operazione del genere muove dalla rimozione consapevole, da parte di certa critica accademica, delle voci più refrattarie, più difficilmente inquadrabili, più inaccessibili e appartate ma, per me e per mia formazione, assolutamente indispensabili, fonti inesauribili di un confronto che continua ininterrotto da ormai qualche decennio. Parlo di poeti alla cui opera sono visceralmente legato, come Emilio Villa, Amelia Rosselli, Patrizia Vicinelli, Corrado Costa, Lorenzo Calogero; e, venendo a tempi a noi più vicini, Nanni Cagnone, Giuliano Mesa, Flavio Ermini, Cristina Annino, Luigi Di Ruscio, Ida Travi, Mariella Bettarini, Biagio Cepollaro – a mio parere le punte più alte della produzione poetica italiana dell’ultimo trentennio. Ci aggiungerei una decina di autori più giovani, tutti di ottimo livello, ma preferisco non fare nomi per evitare qualche imperdonabile dimenticanza del momento. Molti, comunque, sono ampiamente presenti sulle pagine del mio blog.

 

Qual è il posto dell’amore nella poesia e nella Sua vita?

Se la poesia è l’atto di una parola che si offre nella gratuità del suo darsi e in essa trova la radice primaria del suo essere libertà e destino di libertà, quell’atto è essenzialmente amore, cioè apertura e sguardo, e le forme in cui il circuito di questo dono si attiva sono infinite, e interminabilmente incodificabili, esattamente come le forme in cui si presenta la vita.
Quale che sia la “forma” in cui si manifesta e si declina, quale che sia l’oggetto su cui si indirizza, per assorbirlo e/o lasciarsene assorbire, la parola amore mi ha sempre richiamato una suggestione maturata nella prima giovinezza, leggendo e rileggendo il Decameron, la madre di tutte le narrazioni (perché l’amore è racconto, récit, poème, teatro, dialogo, incontro): che si tratti di una forza metamorfica che fa tutt’uno con l’esistenza nella sua pienezza, di un movimento incessante che si manifesta in un sentire, sintomatico o strutturato, desiderante, che sottende una tensione interminata verso l’altro, verso quella diversità che sola dice il nostro nome, ci definisce come volti e voci, crea l’alfabeto e la mappa dell’interrogazione che ci dimora.
Non può amare, anche riempiendosene la bocca e sbandierandone le intenzioni ai quattro venti, e quindi non vive, chi ha cancellato l’alterità dalla visuale dei suoi giorni, chi non riconosce quell’assenza come uno spazio del suo essere, fisico e psichico, da colmare, da abitare – lasciandosene contemporaneamente colmare e abitare.

 

Lei è il fondatore di un’importantissima iniziativa per l’avanzamento della poesia su internet, della rivista elettronica “RebStein”. Infine, qual è il rapporto tra poesia e internet?

Sono sicuramente soddisfatto del lavoro svolto con “RebStein”, soprattutto per ciò che riguarda la diffusione di voci e di esperienze altrimenti destinate a rimanere ai margini del dibattito poetico. Eppure, negli ultimi tempi, guardando al panorama dei lit-blog italiani e alle autentiche derive in senso identitario-autoritario che stanno travolgendo un po’ tutti, in particolare i maggiori, sono abbastanza perplesso e ragionevolmente scettico sul futuro dell’interazione poesia-rete.
In tutta sincerità, penso che il “respiro” attuale della rete letteraria sia diventato consustanziale, e ho paura che il processo sia ormai irreversibile, al clima artificiale che alimenta l’iperfetazione bulimica delle merci-libro sugli scaffali dei centri commerciali: pile sterminate di paccottiglia in bit e files in concorrenza con pile di cianfrusaglie in pagine a stampa. Fino a un paio d’anni fa, ero fermamente convinto che il web potesse davvero rappresentare un punto di svolta “rivoluzionario”, capace di far saltare gli equilibri esistenti, prefigurare la possibilità di una mappatura “dal basso” delle esperienze più dinamiche e innovative, creare le premesse per una fruizione intelligente e critica della scrittura poetica, proporre percorsi di approfondimento, favorire il piacere della scoperta e della condivisione, infrangere le logiche e le protervie degli arroccamenti accademici, gettare le basi per un’alternativa al sistema editoriale e culturale dominante. Oggi, invece, ci credo molto meno, quasi niente e mi accorgo, con profondo rammarico e disagio, di essere stato vittima, in questa che si sta rivelando, alla prova dei fatti, una vera “illusione”, della mia stessa “passione” e del mio stesso “fervore”. L’avvento dei social networks, della comunicazione “mordi e fuggi”, del disimpegno, ha nutrito fino all’esplosione incontrollata e ipertrofica la “tendenza latente all’apparire”, all’esserci a tutti i costi, alla ricerca del posto in prima fila alla sacra rappresentazione dell’effimero e dell’inconsistenza, assunti in brevissimo tempo a criteri di valutazione insormontabili e ineludibili dell’esistente.

 

La Sua ultima raccolta di poesie porta il titolo «Esilio di voce». Qual è la storia della loro scrittura?

Esilio di voce” (2011) viene a chiudere un percorso iniziato nel 2006 con “Per soglie d’increato” e proseguito nel 2008 con “Impronte sull’acqua”. L’opera ha natura e struttura poematica, esattamente come le altre due, perché è questa la dimensione che credo più congeniale al mio sentire e più funzionale a rendere ragione della mia ricerca sia teorica che creativa.
L’ossessione che anima e domina questo trittico è la stessa che da sempre guida i miei passi nella scrittura: esplorare lo spazio interminato che si distende tra pensiero e canto, osservare il soggetto svanire tra i segni del mondo e, contemporaneamente, costringere la parola a dirsi indipendentemente dallo sguardo che ordina le cose e invariabilmente le indirizza verso la categoria dell’utile, costringerla a mostrarsi nella sua nudità fatta di immagini e suoni, a rivelare i suoi alfabeti refrattari alle logiche e alle coordinate categoriali della pura rappresentazione, che sono da sempre quelle che il potere utilizza per espletare le sue pratiche di dominio e di controllo.
Per soglie d’increato” definiva l’istanza concettuale e la calava nel magma di un mondo al suo primo apparire, nello specchio della prima nominazione – inglobando in questa “descensio albale” il soggetto e la sua pupilla; “Impronte sull’acqua” recuperava in qualche modo il “soggetto”, ma solo per farne un “medium” di attraversamento, un canale linfatico attraverso il quale la “parola” si dice nella sua dissolvenza; “Esilio di voce” si cala in quel “bianco” e chiede alla traccia segnica di parlare dall’ultimo margine – là dove l’assenza si fa respiro, vento, libertà di essere e passare in uno con la terrestre finitudine degli esseri.

 

Quale o quali versi si desidera dedicare ai lettori greci?

Non mi viene in mente nient’altro all’infuori di questi versi che traggo da un testo di molti anni fa, Testimoni silenziosi, confluito poi nella raccolta Hairesis (ΑΙΡΕΣΗ).

“intorno al collo
portavano fieri il fazzoletto nero
che li consacra per sempre
compagni di ogni pena
gli orli fasciati di rosso
per costruire legami
nel colore che annulla le distanze”

Ve li dedico in forma di saluto, di auspicio e di speranza: che l’utopia che quegli uomini liberi coltivavano nei loro cuori e nelle loro menti, continui a bussare alle porte delle nostre vite, riprenda il posto che le abbiamo negato per farsi ancora linfa di futuro.

17 commenti su “La poesia è una forma di resistenza, intervista a Francesco Marotta

  1. amara
    24/02/2015

    ” ..perché questo armamentario si riduce a puro deposito di nozioni senza vita, se prima non si desta lo stupore, se prima non avviene l’incontro con questo sguardo altro sul mondo e sulle cose che tutti, inconsapevolmente, ci portiamo dentro e che nessuna architettura teorica potrebbe mai esprimere senza che ci si imbatta, vi si precipiti e se ne sia avvinti, nel vivo della pagina che ci parla.”

    ecco.. 🙂

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  2. Carla
    24/02/2015

    sarebbe interessante averne una più recente, potrebbe nel frattempo essere cambiato qualcosa …
    mi piace in particolare la seconda domanda poichè la risposta attesta ancora una volta l’importanza della libertà nella parola poetica.
    Libertà e indomabilità, mi viene da dire …

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  3. leragionidellacqua
    24/02/2015

    Parole potenti. Grazie Francesco e Evangelia

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  4. francescotomada
    24/02/2015

    Per me Francesco è un maestro, uno dei pochi.
    Il perché si può comprendere (anche) da queste parole.
    Gli sono profondamente riconoscente.

    Francesco t.

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  5. ninoiacovella
    24/02/2015

    “La poesia non è un dono innato, ma un esercizio continuo, quotidiano, fatto di attenzione, volontà di superamento e coraggio: il coraggio che serve per inseguire i segni di una vicenda tutta iscritta nell’orizzonte vertiginoso della nostra finitudine, la traccia che resta del nostro svanire all’ approdo.”

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  6. Evangelia Polymou
    24/02/2015

    Francesco Marotta è un poeta autentico a cui voglio bene…

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  7. angela palmitesta
    25/02/2015

    Caro Francesco Marotta, ho letto la tua intervista quattro volte, per me sono poche, dovrò rileggerla. Mi sono sentita, all’improvviso, di nuovo, sedicenne, catapultata in aula, nell’ora di filosofia, l’ora in cui nessuno si distraeva, neppure quello della terza fila che disegnava fumetti ed era sempre arrabbiato col mondo perché voleva fare il liceo artistico e non classico.
    In questa intervista ritorna per due volte, sottolineata, la parola “finitudine”: sento che non è un caso.
    Caro Francesco Marotta, questa è una bottiglietta gettata nel mare, vuota, senza nessun messaggio e senza un destinatario.
    Caro Francesco Marotta, mi permetto di riassumere, ad uso personale, questa densa intervista : CORAGGIO, STUPORE, FINITUDINE, ALTERITA’.

    Ai perigeionisti un grazie di cuore.( Questo, sì, è un messaggio).

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    • ninoiacovella
      25/02/2015

      Cara Angela, so che Marotta ha spesso usato testi poetici nelle sue lezioni di filosofia (lui insegna questa materia in un liceo).
      Lo ha fatto per dare profondità emotiva a ciò che ha una natura concettuale. Solo i maestri sanno fare queste cose.
      N.I.

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  8. Francesco DEVE tornare. vorremmo la sua parola-luce (lucentelucida)ancora nella Dimora. grazie a Evangelia e a perigeioni per diffonderla,
    annamaria ferramosca

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  9. marco ercolani
    25/02/2015

    Grazie veramente per riproporre la parola sempre attuale e inattuale di Francesco. Lui sa su quanti amici può veramente contare. E sono molti. Come scrive il suo amato Char. “Partecipate allo slancio. Non al festino, suo epilogo”. E’ di questo slancio che continuiamo a parlare, grazie anche all’opera visibile e invisibile di Francesco.

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  10. enrico de lea
    28/02/2015

    L’ha ribloggato su carteggi letterarie ha commentato:
    cari amici, questa riflessione (altissima e interessantissima), del caro Francesco Marotta, credo sia assolutamente da condividere

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  11. maurizio manzo
    02/03/2015

    L’ha ribloggato su ilcollomozzoe ha commentato:
    Mi interessa chi si espone, giorno dopo giorno, nelle strade, nei luoghi dove si cova il conflitto, la dialettica; chi si immerge nelle contraddizioni e nelle lacerazioni e le vive sulla sua pelle; chi si ritrova parte, e ha coscienza di esserlo, della stessa umanità emarginata e senza voce; non mi interessa minimamente chi crede di avere assolto il suo compito etico, civile, sociale, affermando una distanza solo presunta dai luoghi del domino che genera emarginazione e dolore, facendo il suo bel compitino in versi e, in questo modo, mettendo a tacere, anestetizzandola di buoni proponimenti, la sua coscienza.

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  12. ida travi
    02/03/2015

    un caro saluto a Francesco, alla forza della sua scrittura e al suo modo d’essere

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  13. Amina Narimi
    03/03/2015

    L’ha ribloggato su amina narimi.

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  14. mauro pierno
    07/03/2015

    L’ha ribloggato su RIDONDANZE.

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  15. almerighi
    06/05/2015

    sicuramente la poesia non è un armamentario voluttuario, libera com’è di essere come vuole

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  16. Pingback: Marotta tradotto da Polymou | La dimora del tempo sospeso

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