Con l’articolo che segue, che è anche l’editoriale dell’Almanacco Punto della Poesia Italiana n. 5/2015, ha inizio anche una collaborazione che impreziosisce Perìgeion: quella con Manuel Cohen, che curerà la sezione North Rim: bussole, mappe, atlanti.
A Manuel va il nostro sincero ringraziamento.
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Il 2014 sarà probabilmente ricordato non tanto per la certificazione di libri fondamentali quanto piuttosto per la ricorrenza del centenario della nascita di Mario Luzi: per molti versi il poeta-emblema, o simbolo, di un quanto mai irripetibile e interessante, emozionante e proteiforme Novecento ormai alle spalle. È stato, nondimeno e tra le affollate ricorrenze, l’anno del ventennale della morte di Franco Fortini, di Franco Scataglini, di Paolo Volponi: tre poeti che, a vario grado, testimoniano tre solchi fecondi: l’avanguardia della tradizione, l’elezione del dialetto a lingua della poesia, e l’oltranza linguistica nella prospettiva utopica. È evidente che il tentativo di archiviazione sommaria dell’esperienza novecentesca nasconda una debolezza, una mancanza di forza sostanziale e priva di umiltà. Quella che permette ponti e legami, nessi e parentele con il tempo e con la storia, con la memoria e l’esperienza della parola: quella che fa sentire parte di una avventura secolare e millenaria, novecentesca e classica. Illudersi di non avere una tradizione, imbellettandosi di parole d’ordine à la page per sentirsi meno provinciali (Glocal Culture, deterritorializzazione culturale) e di fatto, rivelandosi molto più provinciali e colonizzati, o intestardirsi a vivere schiacciati sul presente e dall’esistente, impedisce a tanta poesia in atto la possibilità di una visione prospettica, la continuità fertile di un umanesimo sensibile, problematico, aperto al nuovo e al vero. Se a tanti esordienti, allattati da premurosi mallevadori, venisse fatta più di una obiezione per certi risultati modesti e ingenui, invece di cullarli e di illuderli con pubblicazioni e lusinghe, con molta probabilità non ci ritroveremmo a dover schivare cumuli di libri auto compiaciuti da egotismo minuto e ombelicale. Scoprire poi che molti esordienti ignorano i libri altrui – è quanto si evince da un censimento recentemente patrocinato dalla rivista «Atelier» e dall’Associazione Pordenonelegge – che non leggono i classici come non affrontano i contemporanei, rende evidente il dato di nudità naturalistica di tanta scrittura in versi, e pure di un isolamento autistico di tanti autori; è tuttavia, questo del rifiuto di leggere i contemporanei, un caso non nuovo riscontrabile anche in autori di generazioni precedenti.
Nel ventennale dalle morti di Fortini, Scataglini e Volponi, occorre rimarcare che è calato un silenzio colpevole sulla loro opera, in parte da addebitare a una deriva editoriale propensa a fare cassa producendo o promuovendo scritture e stili semplici, una generica, seriale e generalizzata melassa di fruibile medietà linguistico-tematica buona per l’ora del the. Si tratta di un vuoto ingiustificato, se non con la cronica perdita di memoria che sembra contraddistinguere l’epoca attuale, e di un silenzio politico (di politica culturale, tesa a smantellare posizioni eretiche, prospettive anticonvenzionali) in direzione di un pensiero unico della poesia (araldica, floreale e pulviscolare) ha lasciato nell’ombra anche questi tre Maestri del Novecento: solo in novembre finalmente si è salutata l’uscita di Tutte le poesie di Fortini, mentre per i due grandi marchigiani continuano ad essere introvabili i testi poetici e non si è ancora stampata l’opera omnia. Intanto l’editoria delle major, una carrozzina allegra e sull’orlo di una crisi acutissima, consuma i suoi imbarazzanti riti tribali – una sorta di cortocircuito tra ufficio stampa e famiglie di riferimento, responsabili editoriali in giurie di premi in cui premiare autori usciti nelle collane degli stessi editor, che poi li invitano nei festival che sempre gli stessi dirigono; polemiche balneari montate ad arte, su temi posticci e datati su cui intervengono da tre, quattro decenni sempre gli stessi critici, riproponendo sempre i tre, quattro nomi che conoscono: ‘quali autori portare sull’isola deserta?’, ‘il pubblico della poesia’, ‘le donne in poesia’, ‘perché scrivere in dialetto?’, ‘l’impegno’, ‘la poesia nelle scuole’, ‘la poesia negli stadi’, ‘la poesia e il corpo’, ‘la poesia e lo spirito’ – e nondimeno alla poesia vengono assegnati spazi sempre più modesti, possibilità di interventi sull’esistente sempre più periferici, marginali. Tuttavia, dalla poesia nostrana arrivano attestazioni di fiducia operativa, tentativi non sussiegosi e non imbonitori di decodifica del mondo, della continua ricerca di senso, di significato primo: e mai come nella stagione attuale la scrittura in versi è stata tanto chiara, tanto comprensibile, eppure meno letta, meno considerata. Persino autori solitamente attestati su posizioni elitarie, di estrazione post-moderna e ipercolta, tentano una qualche aggancio, o riciclaggio, con il presente e con i realia: si avventurano in una poesia inattendibilmente engagé che sortisce effetti parodici, come certi film di Moretti, ombelicali e nevrotici, mentre altri, campioni di ieratica autorevolezza, si concedono a toni colloquiali o cedono a qualche avventuretta teatrale. Tuttavia, la poesia tenta un rapporto comunicativo con il mondo, non sempre, non pienamente, riuscendoci. Con qualche affanno e con qualche sfrontatezza velleitaria in pubbliche sortite dai risultati improbabili (dalle formule performative in cui si avventurano indistintamente autori ‘di ricerca’ e autori ‘di tradizione’ o convenzionali; dai Poetry Slam nostrani, spesso ancora ingenui; dal lancio di video poesie fatte in casa che ricordano certi videoclip rivieraschi di popstar anni Ottanta; fino a compiaciute rese teatrali) la poesia continua a farsi anche in regime di tabula rasa, continua a vivere anche nei giovanissimi, spesso convinti che il passato, la memoria e lo stesso Novecento siano da dimenticare, demolire o denigrare: così può capitare a una qualche presentazione di sentire tacciare di ‘serenismo’ – una pratica evidentemente deplorevole, ad onta del buon Sereni – come un tempo si tacciavano le ‘Liale’. Ma una scrittura senza cultura dura lo spazio di una canzone, la poesia senza memoria della poesia ha il fiato corto, come una pratica senza strutturazione ha il passo fragile: capita frequentemente di leggere testi che ambiscono alla novità, ignari che esperienze analoghe siano già state tentate nel passato anche recente: molti versi di oggi riecheggiano senza cognizione di causa modalità futuriste e dadaiste, altri mimano il presente, ignari del neorealismo o di Pasolini, altri vagheggiano orizzonti irrelati, ignari dell’Orfismo, della poesia classica, del Mito; altri ancora inseguono la mitografia dell’io, ma ignari di Nietzsche, danno sfogo a malesseri immaturi, ad acerbità di dettato.
Nella ricorrenza del centenario della nascita di Mario Luzi, poeta-critico e lettore acuto, sempre sollecitato e sollecito al nuovo, ricordiamo la sua parabola esemplare, di fine umanista aperto ai venti di novità (linguistica, culturale, speculativa) e la sua scrittura, sempre umilmente tesa a evolversi, a mutare, a farsi emblema e voce di una metamorfosi incessante che implicava un rinnovarsi continuo nelle morfologie espressive, e un aggiornarsi quotidiano, nella memoria della storia e nella memoria del presente: «È la storia, la storia millenaria / di gioie e di tribolazioni, fonda / quanto è fondo lo sgocciolio e il rimbalzo / dei secoli nei secoli, che usa / parole, di continuo le corrompe / e le rinnova da corrotte sante / sulle labbra di non importa chi, / fossi anche io che segno queste note / trattenendo il respiro, ad ora tarda.» (M. Luzi, Di notte, un paese, in Dal fondo delle campagne, 1969)
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Sembrerebbe tutto perduto, ma se siamo ancora qui a scrivere e a leggerci è perchè ha ragione Mario Luzi. La storia millenaria non si ferma. Speriamo, dunque, anche solo un poco!
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la cosa importante è che questi massimi nomi della storia poetica vivano da protagonisti intramontabili nelle nostre librerie pencolanti o nelle casse a panche in legno massiccio dove tutta la loro forza attende solo che mani curiose e affamate di bellezza ritornino a sfogliarli con grazia …
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ringrazio F. T per la cura del post e tutta Perigeion per l’accoglienza calorosa. Torno sul web dopo quasi un anno di silenzio, ed è un piacere.
segnalo per i lettori alcuni piccoli refusi (da addebitare a chi scrive)
ALLA FINE DEL PRIMO PERIODO: “un caso non nuovo anche in autori di generazioni precedenti” manca il verbo: “un caso non nuovo riscontrabile anche in autori di generazioni precedenti”.
m.
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Scusa per il refuso, che ho corretto. Mi era sfuggito.
Grazie a te della tua partecipazione, ne siamo felicissimi.
Francesco
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ringrazio per i commenti 1) Fiammetta (scrivimi privatamente appena puoi)
e 2) Carla Bariffi:
1) sembra sempre tutto perduto, ma vale il monito di Fortini: “Nulla è sicuro, ma scrivi”.
2) è vero, basta che li portiamo con noi, nella nostra quotidianità.
grazie, m.
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magari dico una sciocchezza.. ma, forse, quando si sarà esaurito il ciclo del ‘tutti dappertutto’ che non porta a nulla e quando, magari, finirà il voler per forza arrivare da qualche parte, si ricominceranno a stratificare sentieri, dopo averli percorsi e ripercorsi, di terra nuova e brillante.. e allora, il destino della poesia potrebbe cambiare..
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Grazie Viola,
è un buon auspicio.
m.
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