perìgeion

un atto di poesia

Buganvillea (19, 20, 21)

Buganvillea

 

 

romanzo a puntate di Angela Palmitesta
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19

 

Le barche davanti al porto ciondolavano pigre al sole del mattino. Attuffato nel ghiaccio tritato, il pesce inerme, sdraiato dentro umide cassette di legno, mandava un odore intenso di alghe e salsedine.

I pescatori gridavano e incitavano i passanti all’acquisto della loro mercanzia. Alcuni fumavano, pigramente appoggiati alle sartie; altri erano affaccendati a radunare le reti e a rattoppare le maglie slabbrate.

I loro visi erano scavati da rughe profonde. Dalle palpebre spesse e socchiuse si intravedevano occhi intensi e malinconici, abituati a sopportare, umili, il sole aspro. Le loro mani avevano dita  storte, gonfiate dalle notti umide trascorse in mare. Eppure si muovevano sicure e veloci tra le cime aggrovigliate, gettate sul molo.

Passeggiavo distratto e i pensieri galleggiavano nella mia testa senza una meta. Mi godevo la vita che si muoveva intorno a me e che mi ignorava. Aspiravo l’aria pulita del mattino attraverso la sigaretta accesa. Sentivo, ad ogni boccata, una pressione calda scorrere con forza nelle vene incatramate.

In mezzo a quella macchia densa di ruvidi corpi abbrustoliti dal sole, vidi guizzare una maglietta rosa che reggeva fra le piccole braccia una grande cassetta ricolma di gamberetti.

Dietro la cassetta sbucò la faccia lentigginosa  di una ragazzina che, barcollando, cercava di portare in salvo la pescata, senza rovesciarla.

– Forza, prendimela e appoggiamela sul panchetto, mi disse con la voce tesa dallo sforzo.
Obbedii senza replicare, come fossi arrivato lì, in quel momento, apposta per eseguire i suoi ordini.
Mi girai e guardai incerto sulla strada il panchetto rudimentale, dove erano state sistemate altre cassette, inclinate per facilitare l’uscita dell’acqua.
– Sì, appoggialo lì. E poi vieni su che ripartiamo subito. Andiamo a spugne!, mi gridò, mettendo le mani ad imbuto sulla bocca, per farsi sentire meglio.

Quella mattina l’aria era azzurra ed immobile. Il mare, appena increspato da lucide scaglie turchesi, sonnecchiava tranquillo. All’orizzonte il cielo svaporava dentro una linea bianca.
Appoggiai un piede sulla predella e con un salto fui dentro il caicco. Per un attimo barcollai. Il motore fu avviato.
La ragazza mi indicò un angolo dove sedermi. Cercai di dire qualcosa ma le parole divennero un sottofondo indistinto, coperte dal rumore  della catena dell’ancora che veniva ritirata.
Eravamo partiti, stavamo uscendo in mare. Mi sistemai più comodo per assaporare l’odore di sale che sentivo quando l’onda mi spruzzava il viso.
Vedevo il porto rimpicciolire e sbiadire. I suoni della città diminuirono e poi  cessarono di esistere. Potevo ancora scorgere la costa che non  era più terra ma un colore: uomini, case, alberi  erano scomparsi. La costa era diventata una sfumatura cangiante.
Ero in mezzo al mare e il mare mi circondava. Il motore aveva un ritmo cadenzato  e io cercavo di accordarmi a questo ritmo. Anche la brezza del mare aveva un suo ritmo ma era più difficile da seguire.

Di colpo il cuore della barca cessò di battere. Il motore si spense. La brezza marina scivolò via, come una seta morbida e il sole appoggiò la sua lama sul mio viso: scottava.
Guardai smarrito verso la cabina del capitano. Eravamo in mezzo al mare, il mare ci circondava ovunque. Sentivo il tonfo sordo delle onde che battevano sulla chiglia. Sentivo ogni onda che andava a spezzarsi sulla fiancata della barca.

Ogni volta, tra un silenzio e l’altro, l’onda che arrivava era come lo strappo violento di una fodera. Io ero in mezzo al mare. Intorno a me c’era solo il mare ed il silenzio: entrambi sconosciuti fino ad allora, entrambi immensi.
– Gioia si è già tuffata. Con la scusa delle spugne, si allena a scendere.
Il capitano mi parlò sorridendo mentre mi porgeva un piatto con delle verdure che non avevo mai visto, incoraggiandomi ad assaggiarle. Non avevo fame e comunque non sarei riuscito a mangiare nulla in quel momento.
– Scendere dove?, chiesi, cercando una sigaretta in tasca.
– Da nessuna parte. Semplicemente scendere  più in basso, verso il fondale. Mia figlia ha questo pallino, da quando è nata. Sarà che è l’unica femmina che ho, sarà che è l’ultima arrivata, la nostra piccolina di casa. Insomma, non riesco a dirle di no. Ma questa storia non mi piace. Noi siamo pescatori. Gettiamo le reti in acqua e aspettiamo, sulla barca. Portiamo a casa quello che la sorte e il buon Dio ci concedono e preghiamo per il buon tempo.-
– Verso il fondale… ma come scende?, chiesi incuriosito.
– Una maschera e due pinne. Poi butta la testa giù, come un delfino e chi si è visto si è visto. Dopo un po’ risale, dice lei. Sì, quando mi sta per scoppiare il cuore dalla paura, allora risale. Alza la maschera, mi fa un sorriso, mi mostra una conchiglia o una spugna e poi si rituffa. Scompare sotto per interi secondi: ma se sei un padre, lo sai, quei secondi diventano anni.-
– Ma se ci sta così male perché la lascia fare, scusi?, gli dissi mentre cercavo di accendermi una sigaretta, anche se il vento me lo impediva.
– Perché è felice, perché questo la fa felice. A noi il mare ci dà da mangiare. Se c’è cattivo tempo sappiamo che non avremo pesce da vendere, se c’è bel tempo e luna piena sappiamo che faremo una buona pescata. Il mare è il nostro lavoro. Per Gioia ancora non è così e forse non lo sarà mai. Il suo mare è qualcosa d’altro. Il mare lei ce l’ha dentro. Noi dentro abbiamo i polmoni per il bisogno di respirare, lei ha il mare dentro e lo respira.
– Papà guarda cosa ho trovato!, gridò Gioia dal fianco della barca. Un attimo dopo era già salita col suo trofeo e saltarellava felice sgocciolandosi i capelli al sole. Mi sorrideva con la sua faccetta lentigginosa e mi mostrava, tutta fiduciosa, la sua conchiglia, girandola con prudenza fra le dita.
– Se te l’avvicini all’orecchio potrai sentire il mare, le dissi, pronunciando le parole lentamente, come se volessi svelarle una magia .
Gioia scoppiò a ridere e poi guardandomi seria, scendendo in fondo ai miei occhi, mi rispose: – Ma cosa dici? Il mare è silenzio. Io lo so.-
Al ritorno nessuno parlava più perché il mare è fatto così, dice il papà di Gioia. Il mare ti lascia solo le parole che servono.
Nessuno parlava ma il mare parlava per noi. Allora cercavo di ascoltare le parole che risalivano in superficie e si mescolavano con le onde.

Arrivato al porto, ancora stringevo in mano una lettera stretta e lunga, con la ceralacca rossa, che Gioia mi aveva consegnato.
– Scusami se te l’ho un po’ spiegazzata.

 20

I grilli tacevano. L’aria della sera era morbida e si inebriava del profumo degli oleandri. Il cielo era un tiepido lenzuolo stropicciato di stelle. La luna un’unghia sottile, impigliata tra i rami d’ulivo. Il mio cuore era tranquillo.
Camminavo sul sentiero di terra rossa a passi leggeri. Le piante le avevo imparate a memoria. Anche nella semioscurità della notte sapevo quando chinare la testa o dove mettere un piede per non inciampare in una radice che affiorava dal terreno.
Le carnose foglie dei limoni mi accarezzavano il viso senza impedirmi di proseguire. Nel giardino regnava il silenzio rassicurante del buio. Una civetta passò sopra la mia testa frusciando le ali e scomparve nel  fitto di un pungitopo.

Avevo raggiunto l’angolo estremo del giardino. Mi vennero incontro due ulivi che gettavano ai miei piedi l’ombra intrecciata dei loro rami. Mi avvicinavo lentamente, assaporando il fresco notturno che alitava dai tronchi degli alberi.
– Ti aspettavo, mi disse Dora, immobile davanti agli ulivi.
– Ti aspetto da quando mi osservavi davanti alla finestra e io mi lasciavo catturare dalla tua matita. Ogni movimento delle tue dita sul foglio sono state carezze che io ti rubavo per assaporarle, poi, di nascosto. Ti aspettavo anche quando uscivi dal portone del tuo ufficio e buttavi l’occhio a cercarmi tra i tavolini del caffè. Mi tremava il braccio quando appoggiavo un tazzina sul tavolino, perché sentivo che mi stavi guardando. Mettevo grembiulini dai colori assurdi e ogni colore era una frase che ti inviavo. Giallo: sono qui, per te. Azzurro: vederti mi rende felice. Rosa: potrei abbracciarti per ore. Blu: il resto del mondo è muto se tu non mi parli. Verde: un giorno ti rivedrò, fra i miei ulivi. Rosso: ti aspettavo da sempre.

Mi avvicinai di qualche passo. La guardai attraverso le ombre della notte, attentamente, studiando le linee del suo esile corpo.
Stava immobile, di fronte a me. Sicura e dolce. Mi guardava il viso, mi frugava negli occhi, paziente. Io pure la guardavo in viso.
La guardavo in viso e mi avvicinavo. Guardavo dentro i suoi occhi che avevano il colore della notte. E mi avvicinavo di qualche passo. Scoprivo dentro i suoi occhi una sfumatura di cobalto, che non avevo mai visto.
E mi avvicinavo di un altro passo. I suoi occhi erano meravigliosi, il sole ci nasceva dentro. E non ci furono più passi tra me e lei. La guardai di nuovo: Dora era nuda, azzurra, luminosa.

L’abbracciai tutta intera e la sentii, sentii il sole che nasceva nel suo corpo: il sole era ovunque, era dentro di lei. “Mia piccola Filli” pensai, stringendola delicatamente.
Passai gran parte della notte all’ombra degli ulivi. La bocca di Dora sfiorava il mio braccio. Io la respiravo timoroso e ammiravo le sue ciglia tremolanti.

Il silenzio inghiottiva il mio respiro mentre il cielo sbiancava, spegnendo le ultime stelle.

 

21

Un bimbo con il secchiello

Aurora entrò nella stanza in punta di piedi e cercò di non fare troppo rumore  mentre tentava di aprire gli scuri. Poi il legno la tradì,  cigolando lamentoso. I miei occhi, feriti dalla luce del primo  pomeriggio, si aprirono, sorpresi.  Una mano   ancora  stringeva, nel sogno,  i fiori di buganvillea.

Dunque avevo dormito: ora  le dita scivolavano  incerte sopra  un lenzuolo azzurro che profumava di bucato asciugato  al sole.
Aurora mi sorrideva  comprensiva dicendomi:

-Sarebbe una bellissima giornata per andare a nuotare.

Nella sua voce sentii  però una nota  incerta. Uscì con discrezione, senza aspettare una risposta e lasciò la  porta completamente  spalancata. Dal viottolo di terra rossa, trillavano di luce i gerani,  allegri.  Le cicale, stonate e   cocciute, modulavano  l’ora calda e pesante.

Osservavo la riva del mare, non mi interessava sapere da quanto tempo: forse un paio di minuti, forse qualche ora. L’aria   increspava le onde, le  arricciava, quasi volesse scherzarci. Passava leggera per  strizzare un buffetto affettuoso sulle rughe assonnate  del mare. Come per scherzo anche  il mio viso veniva  accarezzato, premuto con dolcezza dalla frescura dell’ombra. Ma era solo un caso, poiché la brezza era ovunque.

  C’era quiete e silenzio, una terra immobile che riposava. Lontano  stava accovacciato, sulla riva del mare, un bimbo. Raccoglieva diligente la sabbia bagnata  e poi la lasciava  cadere dentro  un secchiello di plastica  giallo. I suoi gesti, intorbiditi dalla calura, scandivano il mio respiro. Piccoli gesti ovattati, coscienziosi. Sollevava  le mani ricolme di sabbia sgocciolante e io insieme a lui sollevavo il petto carico  di aria calda.

La caletta che avevo scelto era deserta a quell’ora del giorno. I sassi sulla spiaggia, inermi, abbarbagliati dal sole, avevano un certo crudele biancore. Mi sentivo smarrito e galleggiavo dentro la   necessità di essere solo.
Di malavoglia mi sdraiai. I ciottoli della spiaggia erano stati levigati   dall’acqua salata, ma non a sufficienza. Premevano contro  la schiena, si spingevano nel canale vertebrale e insistevano per   contare le mie scarne  ossa.

Dunque ho ripensato a mia madre. Al giorno in cui la trovai morta. Semisdraiata, come una madonna addolorata. Ma anziché abbracciare un cristo morto, lei si era aggrappata alla ceramica bianca della tazza del gabinetto. I suoi capelli, lunghissimi,  galleggiavano in parte dentro l’acqua.
Ho ricordato il gesto brusco di un uomo alto, vestito di nero,  che mi spinse lontano dall’odore pungente di urina che usciva dai capelli di mia madre.
Ho rammentato la prima sigaretta che fumai, proprio quel giorno, per cancellarmi dalla testa l’odore di piscio stantio nei capelli di mia madre.

Ho ripensato ad una donna, sconosciuta, che mi  parlava lentamente. Non ricordo le sue parole. Stavo di spalle,  tenevo lo sguardo sulla finestra chiusa, affamato d’aria. Il cielo aveva  un  livore spossato. Era tardi, ormai. Restavo voltato di schiena  alla donna,  con ostinazione. Ma la donna continuava a parlarmi, senza fretta. Non ricordo  il volto che aveva. La sua voce però aveva un ritmo che mi cullava. Poi appoggiò le mani sulle mie spalle. Erano mani leggere e calde. Calde abbastanza da farmi tornare a respirare.

Quando mi staccai dai sassi spigolosi raggiunsi a passi incerti la riva e cercai il mare. Camminavo lento nell’acqua. Era gelida e trasparente. Mentre il  sole obliquo scaldava la parte del corpo che ancora si trovava fuori dall’acqua, sentivo salire dal basso una corrente fredda che circondava le gambe.

Lasciai cadere nell’acqua le braccia, senza alzare schizzi inutili. Scesi lento mentre il mare lentamente mi avvolgeva. Scendevo lento e la corrente col suo alito freddo mi raggiungeva, senza fretta. Ci fu un colpo di tosse e il sapore che brucia dell’acqua salata. Forse  adesso sono solo.

Poi vidi  il sole obliquo diventare  azzurro, lentamente, senza  fretta.

Un  bimbo, curioso, correndo sulla spiaggia col suo secchiello giallo inciampò su un grande quaderno abbandonato sui sassi. Aveva pagine e pagine bianche. Ma a metà quaderno trovò un disegno: una finestra spalancata. Oltre la finestra c’era  una pianta strana, enorme, con tanti fiori fucsia, o forse rosa.

Il sole ormai era scomparso, dentro un angolo silenzioso dell’orizzonte. La notte  scendeva  e strappava con indifferenza  i colori dal quaderno: sul disegno sarebbero scomparsi tutti, senza fretta.

Strizzando gli occhi e  socchiudendo le labbra, il bimbo lesse sottovoce le parole scritte a margine del grande foglio: Dora in piedi che legge il tramonto.

Informazioni su massimiliano 最後花 damaggio

5 commenti su “Buganvillea (19, 20, 21)

  1. angela palmitesta
    27/04/2015

    Cari lettori- se siete arrivati fin qui posso azzardarmi pure a dire “cari amici lettori”- dunque Buganvillea è finita, tiriamo giù la saracinesca e non pensiamoci più.
    Mentre mettevo il lucchetto, chinato quasi a terra, ho sentito due che parlavano a voce alta, fuori, sul marciapiede.
    Il primo diceva: “ Che ti devo dire? Come puoi chiamare questo “romanzo a puntate”? Non ci sono più i romanzi di una volta, il romanzo è morto. ”
    Il secondo, di rimando: “Non hai tutti i torti. Infine qual è la storia ?
    Un uomo parte in aereo per raggiungere un’isola sulla quale si trova una casa che sta ereditando dal nonno . Arrivato, scopre che potrà diventarne proprietario solo dopo aver letto sei lettere che il nonno ha lasciato in consegna a sei figure femminili. Prima va dalla notaia e poi, in circostanze ogni volta inaspettate e casuali, conosce gli altri personaggi. Visita un faro, una biblioteca, una taverna , fa un giro in barca, si tiene in casa un cane e una domestica, si legge le lettere, prova a dipingere e pensa alla relazione difficile a casa. Tutto qui.”
    Allora il primo, a sorpresa, ribatte: “Eugenio è un minchione, fa il viaggio per noia ; si scopa una barista ma non vuole scoprire quello che c’è oltre il suo corpo stupendo; frigna perché la sua fidanzata imbastisce una quotidianità per lui troppo banale. Trova in biblioteca colei che potrebbe rilanciargli il dado ma lui, minchione, osa solo sognare di amarla. Si lamenta perché non riesce ad emulare Vermeer, però neppure si sforza di dipingere con modestia. Pensa di essere inadeguato alla vita. Infine si merita di crepare, in fondo al mare, lì di sicuro non deve far fatica e neppure sudare.”
    Così dicendo costui tira fuori il suo inseparabile pacchetto di sigarette bianco e blu e se ne va insieme all’amico, senza rendersi conto che dalla tasca sono caduti alcuni fiori fucsia ( o forse rosa).

    Un ringraziamento profondo e sincero a Perìgeion tutta, per tutto il tempo che mi ha dedicato: ringrazio i presenti, gli assenti ma soprattutto gli invisibili.

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  2. Angela Pisano
    27/04/2015

    Bello dall’inizio alla fine, peccato che sia finito. Ringrazio di cuore la scrittrice Angela Palmitesta per averci regalato dei momenti di serenità 😊.

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  3. Angela Pisano
    27/04/2015

    Bello dall’inizio alla fine, peccato che sia finito. Ringrazio di cuore la scrittrice Angela Palmitesta per averci regalato dei momenti di serenità .

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  4. amara
    29/04/2015

    sono entrata molto in questa storia, nel modo in cui è raccontata.. ho visto, sentito, immaginato.. e alla fine, anche se non mi aspettavo questa conclusione, non ne ho sofferto più di tanto, perché ho provato la sensazione che un cerchio si fosse chiuso in modo naturale.. e lo dice un’appassionata di happy end…
    c’è una leggerezza che si fa strada lentamente e riesce a sussistere anche nel peggio..

    ammiro chi sa inventare storie, mi complimento e ti ringrazio per questa condivisione..

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  5. francescotomada
    29/04/2015

    Un libro molto bello, molto.
    Mi piacerebbe vederlo su carta.

    Francesco t.

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Questa voce è stata pubblicata il 27/04/2015 da in feuilleton, prosa, scritture con tag , .