a cura di Antonio Devicienti
Questo “post” nasce in un modo che mi va di raccontare anche per sottolineare quanto piacere possa dare l’apparentemente semplice attività di impaginare e programmare un articolo: avevo chiesto a Giampaolo De Pietro (persona schiva e molto riservata) suoi testi da pubblicare su Perìgeion ed egli, in fasi successive, me li ha fatti avere; siccome Giampaolo ed io ci sentiamo spesso e sono un frequentatore del suo blog, non mi sono accontentato e gli ho chiesto di spedirmi anche alcune immagini tra quelle cui è più affezionato o che hanno per lui un valore; alla fine, grazie alla sua generosità, ho avuto la possibilità di montare testi ed immagini a mio piacimento, per cui questo “post” è il risultato di mie manipolazioni su materiale di Giampaolo che ringrazio per la disponibilità e la fiducia: che i lettori lo considerino un collage o un montaggio, dunque, che essi stessi possono smontare e rimontare a proprio piacimento (A. D.)
I pantaloni comodi
Pantaloni comodi, sin dal materiale, colore e dal rapporto con le scarpe, sottintesa la taglia, una un po’ più adatta e grande; due gambe da indossarli, che non stringano tanto le plausibili corse, e le temperature di queste, adattabili alla strada da percorrere, da e verso casa. Per il viaggio, delle scarpe, e nella stagione estiva, quella che promette più o meno, nonostante la voce del caldo sia sempre la peggiore avvertenza per il respiro coperto, tra le avvenute avvertenze, le avventure tutte e quelle mezze. Ma, a uscire allo scoperto, sarebbe almeno, e di certo, la possibilità di non arrivare fradici alle mete prescelte, se non zuppi di sudore e affanno. Ma i pantaloni dovranno essere comodi, e magari non strisciare tanto al pavimento, più o meno grezzo che percorreranno i piedi del viaggiatore, camminatore imperituro dell’istante.
Le fessure a mezzogiorno
È di vento, che parleremmo. Quando il sole precipita a capofitto, corpoforte su tutto. Che neanche la voce, che soffia verso le penombra (vedi là palpebre) più sibilline di dentro, può pronunciarlo, sia pure “caldo”, l’aggettivo suo. Così, come quando non proferiamo parola sul nome di qualcuno, anzi proprio il nome non ci è dato di dirlo, perché ci si consumi già la poca aria, e l’immotivatezza, di esserci pronunciati a riguardo. Così, e per dirlo, perché liberamente noi potremmo dire e non dire, ma anche ridire, poi c’è sempre chi aggiungerà “a sproposito”, ma il consumo dell’aria non è stato richiesto alla voce stessa, sia pure fra due silenzi? Effetto di luce, che si nasconde, l’effetto, e non la luce. Quando riedifica una pochissima parte che non si sa equidistante dal grande infiammato oggetto qualsivoglia messo a fuoco. Eppure, le chiamino o no fessure, sono suggeritrici di oceano.
A pronunciare (equa riluttanza, un’)
Dell’amicizia so ascoltare i battiti, gelosi e permalosi; non so affrettarne i passi, pazienti e presenti, e palpiti futuri, con gli astri sempre accesi dagli occhi di un passato esigente, e necessario. Lungimiranti divinità, forse, ne regolano i versi. Non so rifiutarne i rimproveri, i più impropri e lucidi. Il serio sorridere di tutto e sul ridere per mantenere le distanze di e da ogni senso del possesso. Passione ariosa, che spinge il fuoco non a spegnersi, ma a stare, brace certa per il dopo-estate.
La testa dietro la bottiglia
Che una poesia di Antonio Porta risuoni tra una bottiglia e una testa: è una fotografia un poco perplessa, praticamente una finestra affacciata eterna. Un bere che abbevera tutte le piante, siano pure quelle dei piedi che voglio, e lo debbono, camminare. Imparare la rincorsa. Un concorso privo di scadenza. Aperto a tutti i flutti possibili, a tutte le immaginazioni fertili, come orti, orti curati da poeti colti di misura e verso, umano umanissimo. Come più dentro, la battaglia. I fiammiferi aperti, e le scatole bucate, le nuvole infiammabili, e le scelte prossime.
Palpebra di un’ora è così diversa da lì
L’ora (maschile) di ieri è
palpebra devota
già, non del
ricordo, ma e
piuttosto di
baritoni e casuali
altri committenti
musicali. Suonati.
L’ora (femminile) è poi
la mano
palpebra che può
dire, il futuro
conta, un filo e
un film da
custodire al
verbo cucire
custode
lavoratore dice,
lavorare al dire è
ricucire il colore,
o cucinare estensioni
dell’orto del sesso
e volevo fare senso
ascoltatore fuori
della rete.
Cavalca via
Per tutto il viale, mi sono ancorata l’anima senza dir altro che passo e non posso morire se vado così come mi viene l’aria il pacifico sbadiglio del cane, ancor meno passeggero di me su questa strada del cemento e del sole che vi atterra e ruota in quota potente a quest’ora, lenta pressante rotta. I passi stanno bene. Ho visto passare appena le palme, forse guarite, sopra un camion tutte insieme. Ci rassomiglieremo fino in fondo. Non avendolo mai lasciato al caso, il caso di essere uniti. Perché ogni slancio è un destino, e ogni cammino molti.
Pas de description communiquée par le vendeur
Era l’ora di farsi paura da soli, paure di sì, l’ora di farsi avanti come a eclissarcisi, in un tuttuno di parola e paura, volto che non vedi e sole che ne chiede tutti i tratti: aria, acqua, terra, naso e bocca. Gli occhi al proprio ruolo. Osservatori, esploratori. Lavoratori, per natura loro, instancabili, sino e oltre il sonno.
era, golfino viola, una figura tra le foglie, e delle foglie, ora. Il gatto lo aveva scorto da una fessura tra l’imposta e lo specchio, fermo sulla tavola, lo aspettava, forse. Qualcuno, nell’altra stanza, starnutiva. La sedia aveva lo schienale laterale, e le spalle, un poco curve, libere senza appoggio, facevano un tratto di scrittura, una svolta di parola. Aperta la porta, il gatto sbadigliava. Bianco come l’ora. La luna ondeggiava, verde chiara.
Una pausa intratteneva la stanza. L’imperfetto si scioglieva nell’ora. Il gatto ricomparve. Da sotto il tavolo. Più silenzioso di tutto. In prospettiva. è il fenomeno dell’ora che passa, di ciò che fa questa circolarità perpetua, ciò che potrebbe e dovrà farsi fotografare sempre come il più prodigioso degli scherzi, o dei sogni – ma più semplicemente, ciò che ha una faccia, certo tonda e mai statica, mai, imperscrutabilmente sfaccettata, che si chiama realtà.
Cacchio. Come fa adesso la luce della lampada ad accendere il colore della frutta dentro al vassoio bianco, così faceva fino a – chissà quanto poco o infinito tempo fa – la luce “di fuori” – quella che poi è come lo specchio, multicolore, “di dentro”. E’ evidente, è ancora la faccia della realtà, è così imperscrutabilmente evidente. Ogni secondo ha l’aspetto di un punto interrogativo e di un altro che esclama insieme, poi un punto e una scala, la virgola contigua, il punto che sospira, e noi, fino al corpo.
(La) specie del buiopesto
Sono animali sotto le porte.
Ci sono loro a fare la posta alla notte.
Noi non usciamo,
non imbracciamo una soglia, quasi mai.
Ma loro hanno un’arte speciale,
che chiameremo veglia.
Intanto che ci auguriamo la buonanotte,
loro hanno sibili per respiri e occhi notturni
che cantano spontanei alla buonasorte.
***
Serve pigliare il
sonno e non
necessariamente
il pesce alla
propria area in
mare. Pigiare,
fare breccia in
una lingua un po’
segreta, e un po’
bestiale. Avere
sempre colonne
sonore, magari
non verbali,
bianco nero e
colori. Non
sempre togliere
l’ultima vocale ai
verbi infiniti, sol-
tanto alla fine, magari.
A precipitar e
non cascare
sempre in una
delle trappole su
un treppiedi non
del tutto normale,
per la nostra specie.
Prevedere
sagome di fame
da prendere al
mercato e alla lettera
senza fine del tempo
che rimane, sempre
un fiore qualcuno a
conservare tra una
rasta e la mano, spazio
mucchio, da
inneggiare
***
Mi allontano da
un posto un
momento ma
non mi domando
no non domando
allo stesso tempo
di riportarmi
indietro allo
stesso luogo, nodo
***
In questa casa il pane
profuma di pane,
le porte hanno il ruolo
di porte, quasi sempre
aperte. Le facce, quasi
tutte bambine, e anche
le altre sono
dalle espressioni ben
disposte, in posa per
gli ospiti e gli sconosciuti,
considerati tutti
vivi e morti allo stesso
tempo, frutti del
medesimo orto, fiori
degli stessi posti,
diversi porti ad attenderli,
stazioni e aeroporti
equidistanti dall’amore
per sempre. E attese
giganti, quanto il presente.
Animali in cortile,
occhi di boschi,
amor
trasparente tra
le forme e il destino
di un desiderio a
traccia di albero
***
Paglia tempora
Finisci con la reputazione, poi parliamo.
Occhio nudo in mare, è questo suono,
spoglio verde di giardino
quando l’aria è un poco avida di sole, stan-
do solo d’occhio, a macchie verdi ovunque.
Questa voce, cruda come il tronco ancora dell’inverno.
Questa pioggia dei vetri, che dai vetri non ti vedi, né la vedi,
cede solo ai sensi del piovere, cade solo lì, dove tu sai, e piovi,
ci piovi assieme, della medesima orchestra, lei basso tu grancassa,
lei strada tu passo. E il bosco fitto così tanto nudo da non poter
spaventare alcuno, paventa di verdi e basta, muschia il suo respiro
nel nostro, e solo occhi, ancora nella rapsodia di verde duro, dura suona
A scacchiera (modi di volere bene)
Le nuvole lo sono, modi di volere bene:
di un dato giorno puoi ricordare solo le sue nuvole?
Non modi di giocare a dama, e neppure tattiche da scacchi:
da bambino sapevo giocarci a dama, da grande, neppure adesso so giocare a scacchi.
Modi di stare nei discorsi, di entrare e/a starci:
i due punti significano che sai come andare avanti, da dove parti e cosa stai per chiarire.
Le mani possono anche esserlo, modi di volere bene:
e non c’entra il fatto che si possano versare carezze o schiaffoni, pugni o solletico, dita chiuse o aperte singole punteggiature, suoni tasti cieli che si toccano calchi che si lasciano, impronte e suole digitali, pizzicotti alfabeto morse segnaletiche gesticolazioni richieste e tacite conferme di ciò che non si può dire.
I verbi hanno anche l’aria di esserlo, modi di volere bene:
e non facciamo che elencarne, non facciamo che abusarne, non facciamo che fare i loro nomi, senza agire più volte senza riuscire a toccare le persone verso cui li usiamo, li utilizziamo poco, e ne abusiamo, a modo.
La paglia è un modo di portare calma, di dire calma, di scaldare calma, ma anche di bruciare tutto, senza due punti, stavolta, né coda né fuoco, ma tempo probabilmente.
Tra il passeggero e il bosco
ascoltare la lingua
catalogando foglie
a scortare la lingua
***
Un foglio bianco – è una mano distratta?
Una luce esterna – è l’inverno in piena?
Una sillaba esatta – trema di punteggiatura.
Su quante superfici si fa giorno,
su quelle stratificazioni illuminate
i colori si dispongono e sottraggono
e i gradi hanno la meglio, decidono
liberamente, intelligentemente, se così è
che lo si intende il rigoglio, la distribuzione
degli equilibri con lo stato circostante, un piede
e un altro, la base che fa proseguire (progredendo) poi, gradino
a gradino, verso una porta contemporaneamente
chiusa e aperta – una porta-finestra – una stanza
a giorno – o giardino d’inverno – un esterno-interno
come linea arredata della mano tra le linee conquistate
dal terreno, e a non volerlo immaginare, neanche il mare
conferma le ipotesi di smarrimento o del mantenimento di
una somma certa di stacco e compresenza dell’elemento x
laddove y arrivi prima ancora di z e il risultato sia zero :
prima e dopo – la voce, durante, il tracciato, anche esagerato
il risultato silenzio l’arpeggiato scroscio delle carte, il mazzo
di strade distratte e la direttiva in dirittura di stagione, autunno
polacco, inarco il ciuffo e il movimento del polo desideroso d’est
roso da questo centro augusto riprovato da tarda estate solo adesso
pronunciata vi si traccia e ripercorre una retta, non da un punto, ma
fino a un trattino – continuo fino a dentro l’inverno, il cuore del nord
al centro i due a cosa staranno lavorando sotto una lampada-lampione,
sospesi a mezzaria – tracciando geografie su un quaderno poggiato sul
tavolo del tetto – o sui mattoni ed il riflesso di una concentrazione pura
Li hanno visti
l’hanno visto
litigare col cane,
attraversare la strada
mettersi all’insù in
trasperenza facendosi
semaforo
bloccando le persone
lasciandole passare
vestirsi d’arancione (per)
e non sapere che fare,
farsi marciapiede
equilibrio per
cadere e per
ritrovare la
strada di casa,
lontano come
sotto una palpebra.
li hanno visti
fissare il viavai
alternato di auto
e passanti,
sorridere al
largo dei vespri,
senza sapere
neppure niente (neanche del)
(sul)l’esistenza del
verbo sogghignare,
né del remare contro,
o forse il suono o sibilo
al suo orecchio non lo hanno
potuto sentire, chissà cosa
avrà cosa e dove ha sentito
o visto, figura dei perché
figura che non c’è, o chissà
un accompagnamento di archi e
tenzoni con la credulità, l’in-
crudeltà del suo cammino, senza realtà
***
dedicata a a.m.
ha un fiore bianco
-abbinato a un occhio-
al petto -iniziale A –
orecchini in I –
(un cognome in M, come
consonante tolta in rima
a ore, ora
polsi altrove – dove sa –
non in copertina – ma, me,
no, ni – e provando con
un saluto, lei mi ricambia
da una copertina, dall’in-
tera sua poesia – e in fumo
***
se la luna è candida,
io sono il sole
se la vista è limpida
io sono in vetro
se la terra è liscia
io vivo disteso.
se il cielo è gravido
io non mi spi(a)no,
e se il fiore è in abito (costume)
io sono una tavola, ma
se il mare è fisico (piano)
io sto in cambusa per l’al-
ternativa vita. se tu
sei libero io
mi avvicino, mi spiano, in libro.
***
se penso che è
il centro delle
vostre età, questo
il trentesimo qua,
se credo di essere
a un altro punto
di difficoltà dal
vostro disappunto
per questo qua, è
chiaro che ogni via
ha vita sua propria
utopia e debito, e
mancanze per metà
del tempo che cadrà
a picco e a pennello
colà
***
Due
Due barche, una che fa
Di nome Virginia e che
Sembra una foglia, qui
Un pochino di sbieco sul
Ramo dei piedi e sull’orlo della
Figura e sul volto un poco perplesso
Dell’uomo
Alla sua destra, forse il fratello
Una barca di fianco anch’essa
Di sbieco – o forse era il vento,
il tempo, l’ora, il mare del secolo ?
Il sito di Giampaolo De Pietro è: inni in vani
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Indice delle immagini:
Note domestiche con nuvole e foglia (Giampaolo De Pietro);
Las tres formas de volar (Brand Silva);
Quattro elementi fuga (Giampaolo De Pietro);
Foglio d’aria e ombre (Maria Giovanna De Fino);
Taccuino con un’illustrazione inedita di Francesco Balsamo;
Una foto di Kansuke Yamamoto;
Note per un collage di velluto dei fili del viso (Giampaolo De Pietro);
Foresta nella montagna di Degas;
Illustrazione di Lucrecia Troncoso;
Tarkovskij / Andrej Rublev (foto di Giampaolo De Pietro);
Foglie d’acero di Friedrich Olivier;
Un acquerello di Libby Raynham;
Una foto dello studio di Alberto Giacometti;
L’idea e l’amore (foto di Giampaolo De Pietro);
Libby Raynham in una scuola sull’isola di Samotracia;
Una vecchia foto di proprietà di Giampaolo De Pietro;
Una foto di Giampaolo De Pietro.
Tutto il piacere del montaggio e della tua creatività ci arriva Antonio. E sono davvero felice di leggere su Perigeion questi inediti tanto belli di un artista e persona speciale come Giampaolo che stimo e ammiro tanto. Christian
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La poesia di Giampaolo merita attenzione e diffusione.
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L’ha ribloggato su inni in vanie ha commentato:
Un collage di miei fogli-e-immaginazioni – un lavoro di Antonio Devicienti su mio “materiale” più e meno recente (materiale scritto, materiale osservato, e anche fotografato)
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Ahh questo me lo godo con calma al lavoro, fingendo di lavorare!
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Ah ah ah, bravo, ottimo 😉
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Non ribloggo nulla, invece 🙂 e, come appena scritto/fatto a e con Antonio e Christian in mail, ringrazio tutti voi per ospitarmi – ho proprio la sensazione dell’accoglienza e del sentirmi a mio agio – prima con Antonio, stavo anche esagerando con l’invio del materiale!, il suo montaggio e la manipolazione sue: per me è davvero un onore! E non è per dire formalmente la parola onore che utilizzo, che a volte sembra quasi di offendere qualcuno quando si dicono le cose come si sentono, non sono solo onorato, ma proprio contento di aver lavorato con te, Antonio, e di poter continuare a farlo. E Christian, e perìgeion, grazie per questo spazio così sinceramente aperto. Saluti, anche a chi “ruba” del tempo al proprio lavoro per leggere – mi pare proprio azzeccato (grazie Tommaso)!
Giampaoloo
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Ottima scoperta, in tutti i sensi
e poi mi piacciono le folgorazioni brevi, l’abbinamento artistico …
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Arioso e felice, da percorrere nuvolosamente, tra immagini e versi e prose, un ottimo cahier d’amitié, qui c’è proprio dell’aria felicemente rubata…
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Bella esperienza quella di “scoprire” la poesia di De Pietro quando lui ebbe la grande gentilezza di inviarmi il suo libro. Un po’ di tempo fa. Adesso qui-in questo bellissimo post creato da Antonio- ho la conferma del notevole valore artistico di Giampaolo, della sua cifra personalissima. Grazie.
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Ri-passo, ringraziando anche Marco e Lucetta, e risalutandovi tutti. Giampaolo
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e Carla, grazie 🙂
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arie, dentro perturbazioni di lettere eteriche, io respiro, ispirata dal tuo fiato 🙂
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo commento di CRISTINA ANNINO che ringraziamo con calore:
“Affascinanti composizioni, prosa- poesia, composte appunto con una musicalità spontanea di un corpo che si fa “spirito” e che soltanto Giampaolo può trasmetterci “così”! Acchiappa talmente tutto intorno a sé, che un qualunque pensare neanche si avverte, l’azione si fa leggerissima. Eppure quanto pensiero c’è in questo dinoccolato, disarticolato, funambolico modo di sistemare nel mondo il proprio modo di vivere. Si ha l’idea che il pensiero si formi quando non pensiamo a lui. Solo allora, infatti, non si comprime in “regola” diventando il pensiero che pensa noi.Cristina”
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