di Nino Iacovella
La 17a giornata del campionato di serie B, 1939-40
a A. B., in risposta
È vero, è nevicato, ma una torna
di spalatori ha liberato il campo
e la temperatura, scesa a a meno
dieci la notte scorsa, ora indurisce
il terreno di gioco che risuona
sotto i tacchetti delle scarpe come
un vaso vuoto. I due portieri sembrano
neri corvi che saltano tra i pali.
Le squadre si riscaldano, sciamando.
Soffia sopra le dita intirizzite
il mediano Calanchi, poi disperso
nelle steppe ucraine, e in insieme agli altri
corre incontro alla sorte anche Gaiani,
– il più giovane – lo ritroveranno
fra le macerie di un bombardamento.
Ma adesso tutti fissano il pallone
immobile: la folla tace, mentre
Lupi va a battere il calcio d’inizio.
*
Rapporto del 4 ottobre 1943
Stamani, verso le ore sette e trenta,
al Cantalupo, lungo il terrapieno
erboso o che divide le risaie
lucide d’acqua dall’alveo del Lòrgana,
nascosto dentro il folto delle canne
piumate, i pescatori hanno trovato
il corpo morto di un uomo. Avrà circa
trent’anni, niente documenti, solo
un fiore scarlatto di proiettile
dischiuso sopra la camicia. Forse
lo hanno ucciso i fascisti, oppure è una
vendetta d’interesse od un oscuro
delitto passionale, e poiché qui
nessuno lo conosce, informeremo
la prefettura. Dicono che quando
hanno steso il cadavere sul ciglio
del sentiero, gli svolavano intorno
le libellule, attratte dall’odore
dolce del sangue, e non si allontanavano.
*
La madre di un caduto al fronte nel 1941
Incù a i ho avert la porta dla tô stanzia,
a i ho toit vi al tlarè da la lumira,
la pòlvar dal cumò, a i ho antè i vidar,
a i ho arsintè i linzù, vultè la cuérta
c i tamaràz, pighè la tô camisa
(quèla col sulén dur) c al Itièri blu
ch’al pèr anch nov, a i ho lustrè l’amdaia
e la curnìs dia tô fotografi,
e pò am sòn méssa a sédar dnanz a l’os
dla cusìna, in ca òn, par mod ch’a psés
vèdar la strè ch’la vén da la zitè
e, a l’impruvìs, a i ho l’è i ucc’, cardand
ch’at foss turnè dabòn, ch’at foss anch vivo
Oggi ho aperto lo porta della tua stanza, / ho tolto le ragnatele dalla lampada, / la polvere dal comò, ho pulito i vetri, / ho sciacquato le lenzuola, rivolto lo coperta/ e i materassi, piegato la tua camicia / (quella con il colletto duro) e il vestito blu / che sembra ancora nuovo, ho lucidato la medaglia / e la cornice della tua fotografia, / e poi mi sono messa a sedere davanti all’uscio / della cucina, socchiuso, in modo che potessi / vedere lo strada che tiene della città / e, all’improvviso, ho chiuso gli occhi, credendo / che tu fossi tornato davvero, che fossi ancora vivo./
*
Nella Bassa
Già la stazione spariva, dietro gli argini, e nel treno affocato, guardavo dal finestrino la campagna verde e umida, i piccoli canali d’acqua affioranti dai campi. Gli argini del Reno ci seguivano ancora, come muri di terra a toccare il cielo d’estate. Il treno correva. Passavano le prime case di Molinella.
(Giuseppe Raimondi, La valigia delle Indie)
*
Un temporale estivo del 1880
All’Albarein a jé una gran casouna
presso una strada rettilinea dove,
ospiti del dottor Ferrari, sono
arrivati i poeti da Bologna
per la festa dell’ultima domenica
d’agosto. Sulla tavola imbandita
di fagiani e frutta di stagione
scorrono madrigali e molto vino.
La notte, insonni per il temporale,
rimangono in ascolto degli scrosci
di pioggia sulle livide vetrate,
e lo schianto dei tuoni quando fanno
tremare i travi del soffitto. All’alba
silenziosi contemplano due pioppi
squassati da un fulmine alla base
del tronco, che protendono le chiome
grigie oltre la sponda del canale.
Per quelle fronde riverse nell’acqua,
per i nidi distrutti delle alzàvole,
per le morti precoci, per l’ignoto
dolore di coloro che verranno,
ora la Zena geme un lungo pianto.
*
Epigrafe per il pittore Gino Marzocchi,
nato l’8 febbraio 1895
che il ricordo di chi volle dipingere
con antico talento non conforme
ai modi del suo tempo la serena
bellezza dei paesaggi e delle donne
almeno non scompaia dalla casa
di pietra rossa dove venne al mondo
*
Durante lo sciopero agrario del 1897
Sui manifesti che hanno affisso ai muri
nei pressi del palazzo comunale
è scritto che, con effetto immediato,
devono terminare le adunanze
di folla e, sotto pena dell’arresto,
si intima inoltre ai lavoratori
di far ritorno ai fondi per riprendere
la roncatura del riso interrotta.
Ma i contadini analfabeti, avvolti
nelle mantelle nere, duri i visi
di cuoio e gli occhi fiammei per le febbri
malariche e il vino inacidito,
rimangono impassibili davanti
allo squadrone di cavalleria
chiamato qui dal commissario regio
per mantenere l’ordine. Schierati
come formiche brulicanti lungo
lo stradone che taglia l’abitato,
non alzano la voce. Solamente
cani randagi abbaiano ai gendarmi,
quando ad un tratto sguainano le sciabole
corrusche contro il sole meridiano,
e proprio nell’istante che precede
la carica, qualcuno al sommo della
torre sventola, rossa, una bandiera.
*
Notizia dell’alluvione del 1902
Riversata dagli argini dell’Idice,
l’acqua che adesso inonda le campagne
autunnali continua a tracimare
da savenelle e gore, e piano smotta
zolle arate e scoline, sommergendo
gli alberi radi e i pali del telegrafo,
desolati ancoraggi per le barche
che vanno lente alla deriva in mezzo
ai casolari, riaffioranti dallo
specchio cavo del cielo come isole
attorno a una laguna. Nelle corti
rurali o sopra i botri dove il flusso
più ristagna, si allungano i ragazzi
e a mani nude afferrano le anguille
e le carpe fangose, imprigionate
tra le buche ricolme e le barriere
dei canneti schiomati. Scivolando
nella corrente, dirigono verso
la piazza del paese – che ora sembra
una baia in bonaccia – larghe zattere
caricate di stie e di masserizie,
mentre, simili a uccelli di palude,
braccianti torvi e silenziosi, dritti
a bordo di leggeri sandolini,
si sostengono ai remi. C’è con loro
Giuseppe, l’uomo dalla barba rossa.
*
Buffalo Bill a Bologna nell’aprile 1906
La figura a grandezza naturale
dal cartellone osserva gli abitanti
del villaggio: in sella ad un cavallo
bianco, porta un cappello a falda larga,
un fucile a tracolla e baffi e barba
color argento. Intorno a lui altri uomini
stanno obliqui nell’aria, a torso nudo,
con il volto dipinto e copricapi
di penne variegate. C’è anche scritto
che hanno alzato le tende appena fuori
dalla città, ai prati di Caprara.
Ma di notte, nei sogni dei bambini,
discendono furtivi giù dai muri
per correre al galoppo lungo i greppi
e le andane falciate, in mezzo agli olmi
e ai campi di granturco, senza sproni
né redini, finché senza più forma
tra le gaggìe scompaiono nel nulla.
*
La chiamata alle armi del 1916
Molti di quei ragazzi senza scarpe,
prole riottosa di mezzadri, i corpi
anfibi ricoperti dallo smalto
delle lenticchie d’acqua, divenuti
coscritti, in fretta devono lasciare
il tepore di fienili e stallatici,
i gracili vigneti da irrorare
col solfato di rame, i canapai
odorosi di pollini, le semine,
le trebbiature. Adesso anche Francesco,
padre futuro a numerosi figli
tra cui mia madre, ostenta baffi a punta
e mollettiere strette alle caviglie,
e ha le mostrine verdinere
dell’artiglieria da montagna. Più in alto
saliranno i soldati contadini,
traversando all’addiaccio cenge e forre,
portando a spalla o sul dorso dei muli
pezzi d’obice da 75
e mitraglie smontate fino alla
prima linea. Nel buio, accovacciati
simili a serpi dentro le trincee,
nascoste le sigarette nel palmo
calloso delle mani, guarderanno
le righe sibilanti degli shrapnel
fendere il cielo illune, come fanno
i fulmini d’estate giù in pianura.
*
L’organico della banda municipale nel 1921
(e’ bà de mi bà)
Intanto, in un paese non lontano
della Romagna finitima eppure
di sentimento differente, Enrico,
figlio di un fabbricante di cordami,
detto “Ricóni” per l’alta statura,
famoso per le burle e qualche vaga
simpatia socialista, anche lui reduce
dal fronte, in quell’ansioso dopoguerra
entra a far parte della banda come
clarinetto soprano in Si bemolle.
Frequenta dunque il maestro di musica
Domenico M. e la famiglia che abita
un’ampia casa signorile lungo
la spessa cinta delle mura antiche –
vi fu sepolta, dice una leggenda,
una pentola piena di marenghi
d’oro –, e in modo discreto ma deciso
ne corteggia la figlia occhimelata
e trepida, cui il padre diede il nome
di un’eroina d’opera e soltanto
tra le pareti domestiche suona
il pianoforte. Nelle stanze ingombre
di cimeli e spartiti alla rinfusa,
lei sottovoce gli racconta di avi
garibaldini e di un coltello a scatto
dal manico di corno, appartenuto
al bandito Pelloni. Ma nel vano
di una finestra aperta, all’improvviso,
ondeggiante sul prato dove un tempo
era il fossato del castello, appare
un labirinto di lenzuola stese
ad asciugare, sbiancate nel ranno,
vele gonfie di vento, abbacinanti
schegge di luce nel meriggio estivo.
Introduzione (a posteriori)
Ho incontrato Claudio Pasi leggendo il primo numero della rivista di poesia “Il Monte Analogo” (febbraio 2004), nel quale tra gli autori proposti già spiccava Pierluigi Cappello. Erano gli anni cruciali della mia formazione “culturale” nel controverso mondo della poesia italiana. Claudio Pasi, poeta tra i più appartati in assoluto, per me ha rappresentato il punto di svolta (o di fuga, e quindi di salvezza) per uscire dal pantano dove ero rimasto da tempo immobile e confuso. La pluralità dei canoni, troppo spesso in conflitto tra loro, gli eccessi narcisistici e contraddittori di molti autori mi avevano quasi fatto gettare la spugna: meglio lasciar perdere e dedicarsi alla lettura di generi letterari dove la sobrietà, la consapevolezza di mantenere una pur minima comunicatività, fossero ontologicamente strutturati nella stesura del testo. Meglio le forme narrative allora, possibilmente dei maestri, e al diavolo la poesia. Ma Claudio Pasi, con la bellezza limpida dei suoi versi, mi ha dimostrato che una strada nuova, che tenesse in equilibrio perfetto contenuti, forma ed etica (si, anche questa) nello scrivere poesia, era possibile. Con alcune velature cariche di evocazioni dense di nostalgia, in alcuni tratti così vicine allo stile di un maestro come Giampiero Neri, i suoi testi scardinano le ultime velleità dei barocchismi e delle oscurità postmoderni. Dimostrano che le “forzature” retoriche non sono affatto necessarie per scrivere “alta” poesia. E indirettamente ci proietta in un filone etico del “fare poetico”, che si mette al servizio dei temi di grande significanza collettiva. Così come, attraverso l’uso umile della sola lingua parlata e dall’assoluta fede del poeta a rimanere lontano dalla luce dei riflettori, si possa sgombrare il campo da quella particolare attrazione , esistente ancora in Italia, che si ha verso la poesia come “bene posizionale” utile alla soddisfazione di bisogni legati a gerarchie di casta. Personalmente mi sono sempre opposto alla considerazione della poesia come atto letterario elitario. Altrimenti sarebbe giusto che qualcuno dica una cruciale verità: aboliamo lo studio della poesia dai percorsi scolastici, visto che non è per tutti. Anzi, forse sarebbe proprio questa la cosa più giusta da fare. Considerare la poesia come qualcosa che non può appartenere al campo della formazione istituzionale, quanto piuttosto qualcosa di proibito, di scandaloso. Un atto di pura sovversione (o resistenza) umana.
Nino Iacovella
biografia
Claudio Pasi è nato a Molinella (Bologna) nel 1958. Vive e lavora a Camposampiero, in provincia di Padova. Ha esordito con la raccolta In linea d’ombra, Bologna, 1982. Nel 1993, presso Book Editore, è uscito il volume di versi La casa che brucia. Ha inoltre pubblicato l’edizione d’arte Periplo, una breve silloge di poesie in latino con nove disegni di Luca Caccioni (Modena, 1994). Altre poesie sono apparse su varie riviste e nell’edizione bolognese della «Repubblica». Ha collaborato a “Poesia” con traduzioni da Ponge, da Ovidio (Halieutica), dall’Antologia Palatina e dai Carmina Latina Epigraphica, mentre versioni da Mallarmé sono state pubblicate in “Testo a fronte”. Sul versante critico, si è occupato di poesia contemporanea e di lirici minori dell’Ottocento. Segue da qualche anno il lavoro di alcuni giovani pittori, per i quali ha curato mostre e scritto testi di presentazione.
Fotografia di Giorgio Galeotti
Note
Le terre della Bassa bolognese, assediate da nebbie e calure, generose ed inospiti insieme, hanno spesso costituito lo scenario in cui vissero ed operarono numerose figure di ribelli, divenute talora leggende di popolo e patrimonio collettivo di storia civile. Le vicende qui riportate – tradotte in versi – fanno riferimento non soltanto a rivoluzionari autentici, quali furono i promotori delle prime lotte sociali o i tenaci avversari del totalitarismo, ma anche ad oppositori inconsapevoli, come certi artisti minori, marginali ed emarginati, che mai risultarono al passo con il proprio tempo. E soprattutto vogliono ricordare i volti e le voci, famigliari o anonime, di tanti uomini comuni: braccianti, bambini, musicisti dilettanti, soldati mandati ad uccidere e a morire; ognuno dei quali alimentò forse, fuori e dentro di sé, una sua “involontaria rivolta”.
Un temporale estivo del 1880
All’Alberino, nella casa paterna di Severino Ferrari, filologo, poeta e discepolo prediletto del Carducci, convenivano ogni estate gli amici letterati; l’episodio cui si fa riferimento è menzionato in G. Carducci, Lettere. Vol. XIII. 1880-1882, Ediz. Naz., Bologna, Zanichelli 1951 (5ª ed.) pp. 173-174; il primo verso (in dialetto) e l’ultimo sono del Ferrari (cfr. S. Ferrari, Tutte le poesie, a cura di F. Felcini, Bologna, Cappelli 1966); Zena è il nome di un canale.
Int’ la Basa
Ovvero, appunto, “nella Bassa”; è un inventario ritmato di toponimi dialettali, a tutt’oggi in uso.
Epigrafe per il pittore Gino Marzocchi, nato l’8 febbraio 1895
Pittore figurativo e caricaturista, nato a Molinella e morto a Bologna nel 1981.
Notizia dell’alluvione del 1902
L’Idice è affluente di destra del Reno; “l’uomo dalla barba rossa” è Giuseppe Massarenti, pioniere del socialismo emiliano e animatore delle lotte agrarie d’inizio secolo.
La chiamata alle armi del 1916
A p. 179 del volume di Mario Mariani, Sott’ la naja. Vita e guerra d’alpini, Milano, Sonzogno, 1916, appartenuto a mio nonno, leggo: “Sui biancori sconfinati, traverso le nebbie impenetrabili passava solo, a quando a quando, la riga sibilante d’uno shrapnel”.
L’organico della banda municipale nel 1921
In esergo, la perifrasi e’ bà de mi bà, consueta nel dialetto romagnolo, significa “il padre di mio padre”; il “paese non lontano” è, per la precisione, Solarolo, in provincia di Ravenna.
Rapporto del 4 ottobre 1923
I toponimi Cantalupo e Lòrgana indicano, rispettivamente, una località e un canale.
Grandissimo Poeta!!
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bellissime. grazie
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Versi splendidi. E una splendida “introduzione a posteriori”, che sottoscrivo in toto. Grazie.
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Trovo splendide queste corrispondenze.
Spero che un giorno, questo poeta, possa “ritrovarsi” nella lettura di questo articolo.
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mi chiedevo se questo rivolgersi ad anni non vissuti faccia parte di una raccolta o se sia il suo modo di raccontare.. comunque sia, mi ha molto colpito, una scrittura che non indulge a nulla di superfluo e sa regalare immagini e pensieri.. il sentimento che ne ricavo mi ha riacceso di Pavese 🙂
parlando della post introduzione, spero che nella scuola la poesia sia sempre presente, perché chissà, se così non fosse stato, se l’avrei incontrata come ho fatto..
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Bellissime poesie, e centrato in tutto il commenti di Nino.
Grazie.
Francesco
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Meraviglia Nino, grazie per avermi/ci fatto scoprire un poeta straordinario. E grazie delle tue parole che condivido profondamente. Christian
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Amara, si sa pochissimo di questo autore.
Proprio per questo, per me, è un autore di culto.
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Ottima scelta Nino! Una scoperta interessante 🙂
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Grazie alla segnalazione di Amara ho corretto due refusi
nel primo testo.
Nino
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Pingback: Claudio Pasi, A cuore aperto | perìgeion
piccoli racconti cesellati mirabilmente dove la poesia è data dalla loro semplicità, dalla limpidezza con la quale l’autore osserva eventi, storia e storie tanto comuni quanto straordinarie e allo stesso modo ce offre.
grazie (c’è sempre modo di gioire della bellezza).
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Severino Ferrari, il “Severino ” di “Romagna” grande amico e compagno di studi di GIOVANNI PASCOLI. Severino Ferrari, Giovanni Pascoli e Andrea Costa dal 1874 al 1882 furono a Bologna uniti da stretta amicizia
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