di Francesco Tomada
Quello che stupisce maggiormente, nella scrittura di Viola Amarelli, è l’ormai completa padronanza che l’autrice ha maturato nei confronti della parola. La parola in sé, la parola come strumento espressivo, nei versi de L’Ambasciatrice si piega e si declina in modo multiforme, camaleontico eppure sempre finalizzato a ciò che deve intendere: diventa verso brevissimo disperso nella pagina bianca, ironia, sarcasmo, dolcezza, si allunga nel poemetto che dà il titolo all’intera raccolta. Se questo all’inizio può apparire spiazzante, una lettura attenta rivela invece la profondità della scrittura di Viola Amarelli, il modo originalissimo che le sue poesie hanno di costituire un unico corpo nella loro apparente frammentarietà.
Si tratta di una poesia moderna nel senso letterale del termine, e non soltanto per le scelte lessicali, quanto perché accoglie gli spigoli del mondo attuale, li amplifica, smonta il giocattolo con una schiettezza in alcuni momenti davvero brutale. Certamente non è una scrittura che si pone come obiettivo quello di essere accattivante: anzi è una poesia che nega se stessa ed il proprio valore, pare volersi defilare ed in questo gesto riafferma la propria presenza ed il proprio significato.
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Io ho questa lingua, ereditata. La torco, la smonto la brucio. Rimbalza, reingoia, la lingua gia amara. La spezzo, si spezza, paterna, conata. Il mondo e parole, a cambiarle, il mondo si cambia. Una rosa e una rosa e una rosa. roseggia. L’ortica orticheggia. e risana.
Ecco, “il mondo e parole, a cambiarle, il mondo si cambia”, in questo cortocircuito mi sembra di cogliere il senso forse più profondo de L’ambasciatrice, un libro dove la parola non insegna ma “aderisce” ed è già tantissimo, anche quando finisce per farsi amara constatazione del tempo che passa veloce o delle sconfitte.
non abbiamo niente niente da dire
neanche una tragedia, solo balbuzie di
morte, piccoli tremori
e la sconfitta, senza alcun onore
Non a caso, inoltre, una sezione del libro (Io scrivo te) è dedicata ai rapporti spesso formali e utilitaristici che germinano all’interno del mondo della poesia. Qui l’aspra ironia raggiunge forse il suo culmine ed è un culmine necessario per raccontare cose che tutti pensano, ma nessuno dice. Altrove, invece, l’ironia rimane tagliente ma tende a farsi spesso meno acuminata, lasciando il posto alla crudezza o, più raramente, ad una dolcezza mostrata quasi con pudore:
selfie
Kiev brucia, qui un amico
agonizza, in rete selfie di nutrizione parentale
dopo quattro operazioni che posso dire
m’auguro che mai vi capiti
l’ironia non salva.
affetti
dolce, affettuoso. e spaventato.
il nome-forma che era mio padre.
Più in generale, però, il lavoro di Viola Amarelli si concentra su un dire acuminato, spesso frammentario, che sembra voler portare a termine un lavoro di sottrazione: via il superfluo, il non-necessario, via la convinzione che ci sia un ordine da seguire, forse – come la parola – il gesto più umano che ci è dato di fare è quello di aderire al reale, farne parte senza la pretesa di raccontarlo fino in fondo. Soltanto così sembra di poter entrare a far parte di un tempo che è ciclico e si rinnova anche attraverso di noi, e continuerà a farlo senza di noi. Mi sembra di cogliere una estrema umiltà nella visione di Viola Amarelli, non una resa ma la consapevolezza che stare nel mondo è un atto di coraggio quando diventa rispetto nei confronti del mondo stesso. “Tutto dovrebbe essere / alberi ed erbe”, la vita è una veglia in cui l’uomo non è uno spettatore privilegiato ma una parte del tutto, spesso una parte troppo ingombrante. E la poesia de L’ambasciatrice compie il piccolo grande miracolo di dire che non c’è niente da dire se non ciò che avviene, e forse solo questo può permettere di coglierne – se esiste – una forma di speranza:
non c’è altro
non c’è altro da capire.
non c’è altro da sapere
– questa luce
Infine, è bene rilevare la bellezza dell’edizione del volume: autoprodotto e rilegato a mano da SartoriaUtopia, il libro è un oggetto notevolissimo in sé e una dichiarazione di indipendenza di Viola Amarelli, che anche in questo si dimostra coerente nelle scelte come nella scrittura.
***
Difficile
– Troppo difficile da dire
– E tu non dire.
Un riccio rosso, rosari di sabbia
Le vene, l’arterie
L’avviene.
tre cose
tre cose mai capite:
me, la matematica e gli umani
reporter
ci sono sempre morti all’ingrosso,
piccoli vortici, di nessun conto
fluidificano processi
olii correnti, dolori privatissimi
collette a bisognosi – diamo ai
superstiti. Racconta, scatta
ferma l’immagine
il fotogramma è già un’altra nascita.
anni di piombo
eravamo così giovani, e creduli, sciocchi
ovviamente, d’ardore, non tutti – alcuni quatti in silenzio s’erano fatti
i conti, le carriere, i cursus honorum
sopra di lato i morti, i nostri e i loro
eravamo impacciati e guerrieri di gran colpi
a vuoto, soprattutto
e ingenui e problematici e infelici e pien d’amore ormoni,
eravamo giovani, molti però già vecchi, già
allora. come ora.
Vecchiaia
Nell’equo vaglio dei propri interessi,
a giusto discapito dei fessi, la misurata
tua via alla mediazione è culminata
nell’apoteosi dell’equilibrio con l’emiparesi.
Ne è consolante riprova la tua mano
che, ancorché sola e tremolante,
ancora tocca il culo alla badante.
di te
E che dirò di te
fiore del mio deserto,
cactus tra sabbie scure,
riarso a poca acqua.
dirò che non cosi, dirò che non volevo, dirò che non so amare.
***
Scoperta!
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L’ha ribloggato su maurizioalbertomolinarie ha commentato:
Condivido come oggetti preziosi.. 🙂 Incantato!
Maurizio Alberto
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Basta leggere una poesia di Viola e subito ti ci fidanzi .
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un grazie di cuore a Francesco peer lan sua attenta lettura e a Perigeion per l’ospitalità,Viola
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L’ha ribloggato su Roberto R. Corsie ha commentato:
Francesco Tomada dice bene: L’ambasciatrice di Viola Amarelli è un libro bellissimo che meriterebbe una diffusione più capillare di quella (pur amorevole e “sartoriale”). Ribloggo volentieri la sua lettura su Perigeion, in attesa di trovare parole mie, se ne scaturiranno di adeguate.
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