di Pericle Camuffo
La “ricerca costante di un rapporto dialettico con la realtà, o forse meglio, con la vita” e “la profonda ricognizione sulla società contemporanea e la riflessione sull’uomo, sull’essenza dell’essere uomo” sono, secondo quanto scrive Lisa Gasparotto nel suo contributo ad un recente volume dedicato ai rapporti di Leonardo Sciascia con la Jugoslavia, i “temi privilegiati” della poesia di Luciano Morandini. A questo aggiunge, come costante di fondo che rimane immutata nei confronti dei “contraccolpi della storia” a cui il poeta friulano è sottoposto, “la vivace tensione con l’esterno, con l’altro da sé, alimentata dalla vibratile e acuta attenzione per l’uomo, come parte del micro e macrocosmo sociale”. Riprendo queste considerazioni perché ritengo che definiscano in maniera chiara ed esaustiva anche la cifra poetica di Maurizio Mattiuzza. E non è un caso che sia così. Mattiuzza è infatti l’erede più diretto, se non l’unico certo il più strutturato e consapevole, di quella straordinaria stagione di vivacità intellettuale e creativa che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, ha avuto come centro di lavoro e propulsione il Friuli. Durante quegli anni, attraverso la collaborazione di poeti, scrittori, artisti figurativi e fotografi, i friulani hanno marcato una propria e riconoscibile impronta prima all’interno e poi nella crisi del neorealismo italiano, “qualificandosi – scrive ancora la Gasparotto – come riposta della provincia […] al processo di accentramento generato dall’organizzazione neocapitalistica dei fatti di cultura”. Dalla fine degli anni Cinquanta, Morandini assume una posizione centrale all’interno del movimento culturale friulano, ne diventa anima e punto di riferimento anche per le generazioni più giovani. Ad una di queste generazioni, nato nel 1965, appartiene appunto Mattiuzza che di Morandini diventa amico e dal quale, come testimoniato dalla carte conservate nel prezioso archivio degli eredi Morandini, riceve suggerimenti e stimoli per lo sviluppo ed il perfezionamento della sua poesia ma anche indicazioni fondamentali per orientare il suo sguardo sul e nel mondo che lo circonda. Facile, dunque, ipotizzare una sorta di passaggio di testimone. Ma come lavora, all’interno della sua poesia, questo “realismo libero dalle forme stereotipate e da convenzioni ideologiche” che Mattiuzza riceve in eredità?
Nel suo ultimo libro, La donna del chiosco sul Po (Milano, La Vita Felice, 2015, pp. 95, Euro 13), che gli è valso il Premio Colline di Torino nel 2014, il “realismo” lavora nel senso dello svelamento che avviene, elemento costante in molte di queste sue pagine, per sottrazione, cioè attraverso un movimento che apre spazi di possibilità violata, tradita, divenuta ricordo di qualcosa che se n’è andato troppo presto, troppo tardi o che non c’è mai stato, vita sottratta dalla vita, storia sottratta dalla storia che è sempre, nei libri di Mattiuzza, personale e sociale, individuale e collettiva, “una piena più larga / di quella del Po”.
Sottrazione come intuito della mancanza, poco importa se voluta o subita o cercata, che rimane sempre lì, in questo libro, a dare testimonianza di sé, a mostrarsi per quello che è, passaggio di tempo tra le dita della vita.
Ecco allora l’emigrato di Qualcosa di Sud, sottratto alla casa, alla terra ed agli affetti e, di rimbalzo, la sua sottrazione pulsare nello spazio vuoto che la sua partenza lascia in chi rimane senza “nessuno accanto”; le case d’Istria, in Piemonte d’Istria, sottratte al loro ruolo dalla partenza degli esuli, alle cui tavole si siede ormai solo “la famiglia delle foglie”. Ecco la terra, gli alberi, i boschi, l’erba, che sono sia materia di natura che materia d’esistenza, essere di volta in volta prede o predatori nell’inarrestabile andirivieni della vita in una provincia ormai disossata. A volte scacciati, sottratti, da un progresso senza nome che livella strade e mette in fila atone villette a schiera e sogni di lavoro infranti dalla delocalizzazione delle fabbriche. A volte, invece, protagonisti di un recupero passivo del territorio abbandonato da chi non ci ha più creduto ed ha strappato la propria presenza, lasciando un buco di fango, un fosso ai bordi di una tangenziale. Ecco la sottrazione volontaria di Edi Rondine, di chi si toglie da se stesso appendendosi alla trave di un garage. Ecco le sottrazioni degli anni, della giovinezza, dell’amicizia, delle occasioni, degli incontri, del lavoro, della speranza, del sogno.
La sfilata di personaggi, che sono altrettante storie, che Mattiuzza mette in fila ed incrocia in questo libro vengono raccontate e si raccontano – passando, come nel libro precedente, dall’italiano al friulano al dialetto dalla Valsugana – nella prospettiva di una perdita, che non diventa però motivo o strumento di facile e lacrimosa nostalgia, mai rassegnato piagnisteo o lamento, bensì marcatura di una vita vissuta fino nel fondo delle sue aperture più minime, interstiziali, perché è proprio in quegli spazi di quiete, in quegli spazi in cui la sottrazione ha installato il silenzio, spesso il dolore, che il ricordo diviene attività vivificatrice di testimonianza di sé al mondo ma soprattutto di sé a se stessi.
Lo svelamento per sottrazione che Mattiuzza fa agire in queste sue nuove poesie, perché “al mondo piace il gioco dell’allontanare”, non ci vuole ridurre al silenzio, ad un fatalismo disperato, all’abitudine ammutolente dell’andare, dello scorrere di noi e della vita, di noi nella vita, ma ci invita, invece, alla messa in pratica, certo rischiosa, di una fiducia preventiva, di una possibilità di stupore quasi infantile; ci invita a lasciare “la chiave / sulla toppa della vita”, a rendere praticabile, con una gioia e profondità che ognuno di noi ha il compito di inventarsi, “il senso provvisorio delle cose” e, in fin dei conti, anche di noi stessi.
Il volume è chiuso da una sezione di traduzioni delle poesie di Mattiuzza – estratte dal suo libro precedente, Gli alberi di Argan – in sloveno (Jolka Milič), in asturiano (Lòpez Vega) ed in greco, che rendono ragione dei contatti, delle frequentazioni e dei confronti che Mattiuzza tiene aperti con altre parti d’Europa, ma che avrebbero forse trovato collocazione più appropriata in un’antologia, magari plurilingue, ancora tutta da costruire.
***
La donna del chiosco sul Po
Devo decidermi dico
lasciar passare e non temere l’urto,
i sassi, scorrere giù la vita quasi fosse
di nuovo il tempo di perdere approdi
per rivedermi piccolo verso il ‘70
in quella gita al mare passando per Ariano
come mi sembrava strano
il ponte stretto sulla foce
il giallo della luce, io, di montagna
non c’ero abituato
tutto quel fango, i canneti,
le urla dei camionisti,
la donna che vendeva angurie
alla fretta dei turisti, ma intanto
sognava di lasciare i campi
per la fabbrica lì accanto
e non capiva
gli operai col posto fisso
a scioperare da dietro quel portone
impaurita dall’acqua, dentro ai suoi
stivali in gomma, alle rughe
di tutta una vita da contadina
lei, come me, allora non poteva
non riusciva a immaginarsi
portata via
da una piena più larga
di quella del Po
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Ballata per Dušan Alifasa Ifkovič
Nel mazzo degli amici di mio padre
lassù a Zurigo
ecco Dušan Alifasa Ifkovič
fresatore meccanico emigrato
diplomato alla scuola militare
di qualche posto in Bosnia
un pezzo d’uomo con la voce da ragazzo
gli occhi azzurri come il mare
che correggono i fotografi nelle cartoline
dopo la cena a casa
gioco con mio fratello di tre anni
rovescio per sbaglio
la fioriera di mia madre
e c’era terra scura ovunque
una polvere grossa, feroce,
che colava dai vasi e seppelliva il mondo
per scusarsi ci vendette la sua macchina
a un prezzo troppo buono
sul sedile dietro ci lascio
una bottiglia di slivovica in vetro smerigliato
rotonda e grossa fatta a melograno
nel portaoggetti ci trovammo la foto
di due vecchi seduti sotto un albero di noce
vestiti come usava qui da noi negli anni trenta
lo invitammo ancora una volta
era malato oppure fece finta
poi non sapemmo mai più
dov’era andato
cosi tutti lo ricordiamo
mentre si rialza impreparato
chiede scusa con un sorriso
per quei vasi rotti e quella sera
in cui si rovescio da solo
dentro a tutta quella
terra nera
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Maurizio Mattiuzza, vincitore nel 2014 della sezione Poesia di «InediTO – Premio Colline di Torino» è una delle voci più note del movimento culturale friulano contemporaneo. Ha pubblicato le raccolte La cjase su l’ôr (1997) e L’inutile necessitâ(t) (KV, 2004) con note critiche di Luciano Morandini e postfazione del cantautore Claudio Lolli, nonché il volume Gli alberi di argan . Attivo da anni come come spoken poet e paroliere, ha realizzato col folksinger Lino Straulino l’album Tiere nere e diverse altre canzoni. Nel 2009 gli è stato assegnato il Premio nazionale «Laurentum» per la poesia. Coautore con Renzo Stefanutti una delle canzoni finaliste del Festival di Poesia di Genova e recentemente inserito nella terzina del Premio nazionale di poesia «Mario Soldati» conta traduzioni in inglese, sloveno, greco e altre lingue europee. Ha di recente pubblicato assieme ai Luna e un Quarto “Oggi è sabato sera”, una ballata che fa da trait d’union a un concerto-recital imperniato sulla figura del pugile friulano Primo Carnera. E’ il direttore artistico di Sunsûrs, sezione letteratura del festival internazionale di arti performative Suns Europe. Scrive in lingua italiana, friulana e nel dialetto della bassa Valsugana.
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Il “qui ed ora” e l’attenzione all’Altro , al Mondo , in felice mix con una modalità espressiva antiletteraria preoccupata di dire e non di apparire .
Maurizio è probabilmente uno dei poeti più interessanti ( e più in progress ) della sua generazione .
Grazie .
leopoldo attolico –
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