Ora che ci penso, Vinicius c’è sempre stato, fin da quando ero bambino, quando il mio mangiadischi rosso suonava la canzone “La casa”. Quando in macchina con mio padre o mia madre ascoltavo Ornella Vanoni. Quando andavo in cerca di dischi a basso prezzo alla Standa, dischi ammucchiati nei cestelli, a 5000 lire ognuno. Roba che si buttava via e dove trovavo le ristampe mediocri di alcune meraviglie, da buttare via, meraviglie in svendita a 5000 lire. C’era quando mi trascinavo a Venezia, impaurito dagli occhi rossi delle pantegane notturne nelle piccole calli verso l’Arsenale. Una notte mi sembrò di vederne diversi, di questi occhi rossi, e un muoversi liquido. Ebbi paura non tanto dell’animale in sé ma di altro, di questa necessità di nascondersi nell’oscurità. C’era Vinicius a Milano, a porta Venezia, uno dei tanti giorni di pioggia, quando mi chiusi in un bar e provai a tradurre il “Sonetto della fedeltà”. Questa traduzione mi ha accompagnato fino ad oggi. Sono passati quasi vent’anni. La traduzione non mi riuscì. La scordai per almeno dieci anni. Un giorno, in uno dei miei diversi traslochi, dall’alto della libreria mi cadde fra le mani la Guida lirica e sentimentale della città di Rio de Janeiro, una delle tante meraviglie di Vinicius, un’altra tentata traduzione mai portata a termine. Come un ricordo lontano, come un rimosso, tornò in superficie la promessa che mi ero fatto quel giorno di pioggia a porta Venezia. Il Sonetto della fedeltà mi inseguiva, direi che mi perseguitava. Come mi perseguitava Vinicius. In questa cosa deve esserci un significato, e non solo l’amore per un compagno di viaggio. O forse solo questo, un omaggio al mio compagno di viaggio. Forse un mese fa ho completato la traduzione. Non posso dire che sia meglio o peggio di altre. Posso dire che è la mia, per Vinicius, e per quanti non sanno in realtà chi sia – e sono molti. Non bastano una o cento poesie per comprendere Vinicius, non bastano le sue canzoni, non basta nemmeno dire che, almeno per me, Vinicius è una “ricetta di poeta”. Ho trovato in rete un film-documentario di Miguel Faria, sottotitolato da Carlinho, che ringrazio per avermi dato l’autorizzazione a pubblicarlo qui. Molto, molto interessante il sito di Carlinho (qui), andate a dargli un’occhiata. Questo film traccia un ritratto di Vinicius e del suo percorso “poetico” di vita attraverso la sua propria vita. Forse potrebbe essere utile per avvicinare qualcuno a quest’uomo, che era poeta perché non riusciva a essere nient’altro, e che dell’idea letteraria della poesia si è liberato per riuscire a fare poesia. Non solo con le parole, cosa che molti possono fare, ma con tutto se stesso. Saravá, Vinicius, meu poetinha!
Soneto da fidelidade
De tudo ao meu amor serei atento
Antes, e com tal zelo, e sempre, e tanto
Que mesmo em face do maior encanto
Dele se encante mais meu pensamento.
Quero vivê-lo em cada vão momento
E em seu louvor hei de espalhar meu canto
E rir meu riso e derramar meu pranto
Ao seu pesar ou seu contentamento
E assim, quando mais tarde me procure
Quem sabe a morte, angústia de quem vive
Quem sabe a solidão, fim de quem ama
Eu possa me dizer do amor (que tive):
Que não seja imortal, posto que é chama
Mas que seja infinito enquanto dure.
Sonetto della fedeltà
Su tutto, al mio amore sarò attento
per primo, e con tal zelo, e sempre, e tanto
che pure di fronte al più grande incanto
di lui sia maggiore l’incantamento.
Voglio viverne ogni vano momento
ed in suo onore spargere il mio canto
ridere il mio riso, versare il pianto
alla sua gioia oppure al suo scontento.
Così, quando mi cercherà la morte,
ansia del vivo, o dalla solitudine,
destino di chi ama, io sia inseguito,
mi dica (dell’amore avuto in sorte):
che non è immortale, poiché è di fiamma,
ma fino a quando dura è infinito.
*
Poema de Natal
Para isso fomos feitos:
para lembrar e ser lembrados
para chorar e fazer chorar
para enterrar os nossos mortos –
por isso temos braços longos para os adeuses
mãos para colher o que foi dado
dedos para cavar a terra.
Assim será nossa vida:
uma tarde sempre a esquecer
uma estrela a se apagar na treva
um caminho entre dois túmulos –
por isso precisamos velar
falar baixo, pisar leve, ver
a noite dormir em silêncio.
Não há muito o que dizer:
uma canção sobre um berço
um verso, talvez de amor
uma prece por quem se vai –
mas que essa hora não esqueça
e por ela os nossos corações
se deixem, graves e simples.
Pois para isso fomos feitos:
para a esperança no milagre
para a participação da poesia
para ver a face da morte –
de repente nunca mais esperaremos…
Hoje a noite é jovem; da morte, apenas
nascemos, imensamente.
Poesia di Natale
Per questo siamo fatti:
per ricordare ed esser ricordati
per piangere e far piangere
per interrare i nostri morti –
per questo abbiamo braccia lunghe per gli addii
mani per cogliere ciò che è dato
dita per scavare la terra.
Così sarà la nostra vita:
una sera sempre a scordare
una stella a spegnersi nella tenebra
un sentiero fra due tumuli –
per questo dobbiamo vegliare
parlar basso, camminare piano, guardare
la notte dormire in silenzio.
Non c’è molto da dire:
una canzone sopra una culla
un verso, a volte di amore
una preghiera per chi se ne va –
ma quell’ora non si scorda
ed è lì che i nostri cuori
si abbandonano, gravi e semplici.
Perché per questo siamo fatti:
per la speranza nel miracolo
per la partecipazione della poesia
per vedere la faccia della morte –
d’improvviso non attenderemo più…
Oggi la notte è giovane; dalla morte appena
siamo nati, immensamente.
*
Poética
De manhã escureço
de dia tardo
de tarde anoiteço
de noite ardo.
A oeste a morte
contra quem vivo
do sul cativo
o este é meu norte.
Outros que contem
passo por passo:
eu morro ontem
nasço amanhã
ando onde há espaço:
– meu tempo é quando.
Poetica
Di mattina scurisco
di giorno tardo
di sera annotto
di notte ardo.
Ad ovest la morte
contro cui vivo
del sud cattivo
l’est è il mio nord.
Che contino altri
passo per passo:
io muoio ieri
nasco domani
vado dove c’è spazio:
– il mio tempo è quando.
*
Balada do mangue
Pobres flores gonocócicas
que à noite despetalais
as vossas pétalas tóxicas!
Pobre de vós, pensas, murchas
orquídeas do despudor
não sois Lœlia tenebrosa
nem sois Vanda tricolor:
sois frágeis, desmilingüidas
dálias cortadas ao pé
corolas descoloridas
enclausuradas sem fé,
ah, jovens putas das tardes
o que vos aconteceu
para assim envenenardes
o pólen que Deus vos deu?
No entanto crispais sorrisos
em vossas jaulas acesas
mostrando o rubro das presas
falando coisas do amor
e às vezes cantais uivando
como cadelas à lua
que em vossa rua sem nome
rola perdida no céu…
Mas que brilho mau de estrela
em vossos olhos lilases
percebo quando, falazes,
fazeis rapazes entrar!
Sinto então nos vossos sexos
formarem-se imediatos
os venenos putrefatos
com que os envenenar
ó misericordiosas!
Glabras, glúteas caftinas
embebidas em jasmim
jogando cantos felizes
em perspectivas sem fim
cantais, maternais hienas
canções de caftinizar
gordas polacas serenas
sempre prestes a chorar.
Como sofreis, que silêncio
não deve gritar em vós
esse imenso, atroz silêncio
dos santos e dos heróis!
E o contraponto de vozes
com que ampliais o mistério
como é semelhante às luzes
votivas de um cemitério
esculpido de memórias!
Pobres, trágicas mulheres
multidimensionais
ponto morto de choferes
passadiço de navais!
Louras mulatas francesas
vestidas de carnaval:
viveis a festa das flores
pelo convés dessas ruas
ancoradas no canal?
Para onde irão vossos cantos
para onde irá vossa nau?
Por que vos deixais imóveis
alérgicas sensitivas
nos jardins desse hospital
etílico e heliotrópico?
Por que não vos trucidais
ó inimigas? ou bem
Não ateais fogo às vestes
e vos lançais como tochas
contra esses homens de nada
nessa terra de ninguém!
Ballata del mangue
Poveri fiori di gonococco
voi che di notte sfogliate
i vostri petali tossici!
Povere voi, pensa, marce
orchidee di spudoratezza
non siete Lelia la tenebrosa
non siete Vanda la tricolore:
siete fragili, e striminzite
dalie recise al gambo
corolle scolorite
cenobitiche senza fede,
ah, giovani puttane delle sere
che cosa vi è successo
che avvelenate così
il polline che Dio v’ha dato?
E così digrignate sorrisi
all’interno di gabbie accese
mostrate il rosso della preda
parlando di cose d’amore
e a volte cantate urlando
come le cagne alla luna
che in questa via senza nome
in cielo rotola perduta…
Più che fulgore malvagio di stella
nei vostri occhi lilla
capisco quando, fallaci,
fate entrare ragazzi!
Sento allora nei vostri seni
formarsi immediati
il veleno putrefatto
con il quale avvelenare
o misericordiose!
Glabre, glutee, pappone
imbevute di gelsomino
scagliando canti felici
in prospettive senza fine
cantate, iene materne
canzoni da tenutarie
grasse polacche serene
sempre pronte a piangere.
Come soffrite, che silenzio
non deve gridarvi dentro
quell’immenso, atroce silenzio
dei santi e degli eroi!
E il vostro contrappunto
con cui ampliate il mistero
come rassomiglia alle luci
votive di un cimitero
scolpito di memorie!
Povere, tragiche donne
multidimensionali
punto morto degli autisti
passerella dei marinai!
Bionde mulatte francesi
vestite da carnevale:
vivete la festa dei fiori
al contrario di queste vie
ancorate al canale?
Dove andranno i vostri canti
dove andrà la vostra nave?
Perché immobili vi adagiate
allergiche sensitive
nei giardini di quest’ospedale
etilico ed eliotropico?
Perché non vi trucidate
o nemiche? o meglio
non date fuoco alle vesti
e vi lanciate come torce
contro quell’uomo da niente
in questa terra di nessuno!
*
O Haver
Resta, acima de tudo, essa capacidade de ternura
essa intimidade perfeita com o silêncio
resta essa voz íntima pedindo perdão por tudo
– Perdoai-os! porque eles não têm culpa de ter nascido…
Resta esse antigo respeito pela noite, esse falar baixo
essa mão que tateia antes de ter, esse medo
de ferir tocando, essa forte mão de homem
cheia de mansidão para com tudo quanto existe.
Resta essa imobilidade, essa economia de gestos
essa inércia cada vez maior diante do Infinito
essa gagueira infantil de quem quer exprimir o inexprimível
essa irredutível recusa à poesia não vivida.
Resta essa comunhão com os sons, esse sentimento
da matéria em repouso, essa angústia da simultaneidade
do tempo, essa lenta decomposição poética
em busca de uma só vida, uma só morte, um só Vinicius.
Resta esse coração queimando como um círio
numa catedral em ruínas, essa tristeza
diante do cotidiano; ou essa súbita alegria
ao ouvir passos na noite que se perdem sem história.
Resta essa vontade de chorar diante da beleza
essa cólera em face da injustiça e o mal-entendido
sssa imensa piedade de si mesmo, essa imensa
piedade de si mesmo e de sua força inútil.
Resta esse sentimento de infância subitamente desentranhado
de pequenos absurdos, essa capacidade
de rir à toa, esse ridículo desejo de ser útil
e essa coragem para comprometer-se sem necessidade.
Resta essa distração, essa disponibilidade, essa vagueza
de quem sabe que tudo já foi como será no vir-a-ser
e ao mesmo tempo essa vontade de servir, essa
contemporaneidade com o amanhã dos que não tiveram ontem nem hoje.
Resta essa faculdade incoercível de sonhar
de transfigurar a realidade, dentro dessa incapacidade
de aceitá-la tal como é, e essa visão
ampla dos acontecimentos, e essa impressionante
e desnecessária presciência, e essa memória anterior
de mundos inexistentes, e esse heroísmo
estático, e essa pequenina luz indecifrável
a que às vezes os poetas dão o nome de esperança.
Resta esse desejo de sentir-se igual a todos
de refletir-se em olhares sem curiosidade e sem memória
resta essa pobreza intrínseca, essa vaidade
de não querer ser príncipe senão do seu reino.
Resta esse diálogo cotidiano com a morte, essa curiosidade
pelo momento a vir, quando, apressada
ela virá me entreabrir a porta como uma velha amante
mas recuará em véus ao ver-me junto à bem-amada…
Resta esse constante esforço para caminhar dentro do labirinto
esse eterno levantar-se depois de cada queda
essa busca de equilíbrio no fio da navalha
essa terrível coragem diante do grande medo, e esse medo
infantil de ter pequenas coragens.
L’Avere
Resta, sopra a tutto, questa capacità di tenerezza
quest’intimità perfetta con il silenzio
resta questa voce intima che chiede perdono per tutto
– Perdonali! perché non hanno la colpa di essere nati…
Resta questo antico rispetto per la notte, questo parlar piano
questa mano che tasta prima di avere, questa paura
di ferire toccando, questa mano forte di uomo
piena di mansuetudine per tuto ciç che esiste.
Resta quest’immobilità, questa economia di gesti
quest’inerzia ogni volta maggiore di fronte all’Infinito
questo balbettio infantile di chi vuole esprimere l’imesprimibile
questa irreducibile rifiuto alla poesia non vissuta.
Resta questa comunione con i suoni, questo sentimento
di materia a riposo, quest’angoscia della simultaneità
del tempo, questa lenta decomposizione poetica
in cerca di una sola vita, una sola morte, un solo Vinicius.
Resta questo cuore che brucia come un cero
in una cattedrale in rovina, questa tristezza
di fronte al quotidiano; o quest’improvvisa allegria
al sentire passi nella notte che si perdono senza storia.
Resta questa volontà di piangere di fronte alla bellezza
questa collera di fronte all’ingiustizia e al malinteso
quest’immensa pietà di se stessi, quest’immensa
pietà di se stessi e della propria inutile forza.
Resta questo sentimento d’infanzia improvvisamente sviscerato
di piccoli assurdi, questa capacità
di ridere per niente, questo ridicolo desiderio d’essere utile
e questo coraggio di compromettersi senza necessità.
Resta questa distrazione, questa disponibilità, questa indeterminatezza
di chi sa che tutto è già come sarà quando sarà
e allo stesso tempo questa volontà di servire, questa
contemporaneità con il domani di chi non ha avuto ieri né oggi.
Resta questa facoltà incoercibile di sognare
di trasfigurare la realtà, dentro questa incapacità
di accettarla per come è, e questa visione
ampia degli avvenimenti, e questa impressionante
e inutile prescienza, e questa memoria anteriore
di mondi inesistenti, e quest’eroismo
statico, e questa luce piccolina e indecifrabile
cui a volte i poeti danno il nome di speranza.
Resta questo desiderio di sentirsi uguale a tutti
di specchiarsi negli sguardi senza curiosità e senza memoria
resta questa povertà intrinseca, questa vanità
di non voler esser principi se non del proprio regno.
Resta questo dialogo quotidiano con la morte, questa curiosità
per l’attimo che viene, quando, affrettato
verrà a socchiudermi la porta come una vecchia amante
ma si ritirerà in veli vedendomi accanto alla mia amata…
Resta questo costante sforzo di proseguire nel labirinto
questo eterno rialzarsi dopo ogni caduta
questa ricerca dell’equilibrio sul filo del rasoio
questo terribile coraggio di fronte alla grande paura, e questa paura
infantile di avere piccoli coraggi.
A Rosa de Hiroxima
Pensem nas crianças
mudas telepáticas
pensem nas meninas
cegas inexatas
pensem nas mulheres
rotas alteradas
pensem nas feridas
como rosas cálidas
mas oh não se esqueçam
da rosa da rosa
da rosa de hiroxima
a rosa hereditária
a rosa radioativa
estúpida e inválida.
A rosa com cirrose
a antirrosa atômica
sem cor sem perfume
sem rosa sem nada.
La rosa di Hiroshima
Pensa a quei bambini
muti telepatici
pensa alle bambine
cieche ed inesatte
pensa a quelle donne
rose alterate
pensa alle ferite
come rose ardenti
ma non ti scordare
della rosa della rosa
la rosa di Hiroshima
la rosa ereditaria
la rosa radioattiva
stupida ed invalida.
La rosa con cirrosi
l’antirosa atomica
né colore né profumo
né rosa né niente.
*
Receita de Mulher
As muito feias que me perdoem
mas beleza é fundamental. É preciso
que haja qualquer coisa de flor em tudo isso
qualquer coisa de dança, qualquer coisa de haute couture
em tudo isso (ou então
que a mulher se socialize elegantemente em azul, como na República Popular Chinesa).
Não há meio-termo possível. É preciso
que tudo isso seja belo. É preciso que súbito
tenha-se a impressão de ver uma garça apenas pousada e que um rosto
adquira de vez em quando essa cor só encontrável no terceiro minuto da aurora.
É preciso que tudo isso seja sem ser, mas que se reflita e desabroche
no olhar dos homens. É preciso, é absolutamente preciso
que seja tudo belo e inesperado. É preciso que umas pálpebras cerradas
lembrem um verso de Éluard e que se acaricie nuns braços
alguma coisa além da carne: que se os toque
como o âmbar de uma tarde. Ah, deixai-me dizer-vos
que é preciso que a mulher que ali está como a corola ante o pássaro
seja bela ou tenha pelo menos um rosto que lembre um templo e
seja leve como um resto de nuvem: mas que seja uma nuvem
com olhos e nádegas. Nádegas é importantíssimo. Olhos, então
nem se fala, que olhem com certa maldade inocente. Uma boca
fresca (nunca úmida!) é também de extrema pertinência.
É preciso que as extremidades sejam magras; que uns ossos
despontem, sobretudo a rótula no cruzar as pernas, e as pontas pélvicas
no enlaçar de uma cintura semovente.
Gravíssimo é porém o problema das saboneteiras: uma mulher sem saboneteiras
é como um rio sem pontes. Indispensável
que haja uma hipótese de barriguinha, e em seguida
a mulher se alteia em cálice, e que seus seios
sejam uma expressão greco-romana, mais que gótica ou barroca
e possam iluminar o escuro com uma capacidade mínima de cinco velas.
Sobremodo pertinaz é estarem a caveira e a coluna vertebral
levemente à mostra; e que exista um grande latifúndio dorsal!
Os membros que terminem como hastes, mas bem haja um certo volume de coxas
e que elas sejam lisas, lisas como a pétala e cobertas de suavíssima penugem
no entanto sensível à carícia em sentido contrário.
É aconselhável na axila uma doce relva com aroma próprio
apenas sensível (um mínimo de produtos farmacêuticos!)
preferíveis sem dúvida os pescoços longos
de forma que a cabeça dê por vezes a impressão
de nada ter a ver com o corpo, e a mulher não lembre
flores sem mistério. Pés e mãos devem conter elementos góticos
discretos. A pele deve ser fresca nas mãos, nos braços, no dorso e na face
mas que as concavidades e reentrâncias tenham uma temperatura nunca inferior
a 37º centígrados, podendo eventualmente provocar queimaduras
do primeiro grau. Os olhos, que sejam de preferência grandes
e de rotação pelo menos tão lenta quanto a da terra; e
que se coloquem sempre para lá de um invisível muro de paixão
que é preciso ultrapassar. Que a mulher seja em princípio alta
qu, caso baixa, que tenha a atitude mental dos altos píncaros.
Ah, que a mulher dê sempre a impressão de que se fechar os olhos
ao abri-los ela não mais estará presente
com seu sorriso e suas tramas. Que ela surja, não venha; parta, não vá
e que possua uma certa capacidade de emudecer subitamente e nos fazer beber
o fel da dúvida. Oh, sobretudo
que ela não perca nunca, não importa em que mundo
não importa em que circunstâncias, a sua infinita volubilidade
de pássaro; e que acariciada no fundo de si mesma
transforme-se em fera sem perder sua graça de ave; e que exale sempre
o impossível perfume; e destile sempre
o embriagante mel; e cante sempre o inaudível canto
da sua combustão; e não deixe de ser nunca a eterna dançarina
do efêmero; e em sua incalculável imperfeição
constitua a coisa mais bela e mais perfeita de toda a criação inumerável.
Ricetta di donna
Le molto brutte mi perdonino
ma la bellezza è fondamentale. Bisogna
ci sia qualcosa di fiore in tutto ciò
qualcosa di danza, qualcosa di haute couture
in tutto ciò (o forse
che la donna socializzi elegantemente in azzurro, come nella Repubblica Popolare Cinese).
Non c’è via di mezzo possibile. Bisogna
che tutto ciò sia bello. Bisogna che subito
si abbia l’impressione di vedere un airone appena posato e che un volto
a volte acquisti quel colore che solo si rivela al terzo minuto dell’aurora
bisogna che tutto ciò sia senza essere, ma che si rifletta e sbocci
nello sguardo dell’uomo. Bisogna, è assolutamente necessario
che sia tutto bello e ispirato. Bisogna che la palpebre serrate
ricordino un verso di Eluard e che sulla braccia si carezzi
qualcosa che vada oltre la carne: che le si tocchi
come l’ambra d’una sera. Ah, lasciate chi vi dica
bisogna che la donna che sta come corolla di fronte all’uccello
sia bella o almeno abbia un volto che ricordi un tempio e
sia lieve come un residuo di nuvola: ma che sia una nuvola
con occhi e natiche. Natiche è importantissimo. Occhi, non
se ne parla, che guardino con una malvagità innocente. Una bocca
fresca (mai umida!) è anch’essa di estrema pertinenza.
Bisogna che le estremità siano magre; che spuntino alcune
ossa, soprattutto la rotula all’incrocio delle gambe, e le punte pelviche
all’allaccio d’una cintura semovente.
Gravissimo è pero il problema della saponiera: una donna senza saponiere
è come un fiume senza ponti. Indispensabile
ci sia un’ipotesi di pancetta, e in seguito
la donna si sviluppi a calice, e che i seni
siano un’espressione greco-romana, più che gotica o barocca
e possano illuminare l’oscurità con una capacità minima ci cinque candele.
Oltremodo necessario che il cranio e la colonna vetebrale siano
lievemente in mostra; e che esista un grande latifondo dorsale!
Che le membra finiscano come aste, ma ci sia anche un certo volume di cosce
e che siano lisce, lisce come petali e coperte di soavissima peluria
sensibile quindi alla carezza in senso contrario.
E’ consigliabile sull’ascella una dolce erba di aroma proprio
appena sensibile (un minimo di prodotti farmaceutici!)
preferibile senz’altro il collo lungo
di modo che la testa dia a volte l’impressione
di non aver nulla a che vedere con il corpo, e la donna non ricordi
fiori senza mistero. Piedi e mani devono contenere elementi gotici
discreti. La pelle dev’essere fresca sulle mani, sulle braccia, sul dorso e sul volto
ma che concavità e rientranze abbiamo una temperatura mai
inferiore a 37° centigradi, così che possano provocare bruciature
di primo grado. Gli occhi, che siano di preferenza grandi
e di rotazione lenta almeno quanto la terra; e
che si pongano sempre aldilà d’un invisibile muro di passione
che si deve oltrepassare. Che la donna sia anzitutto alta
o, se bassa, che abbia l’attitudine mentale delle alte cime.
Ah, che la donna dia sempre l’impressione che se si chiudono gli occhi
quando li riapriremo lei non ci sarà più
col suo sorriso e le sue trame. Che sorga, non venga; parta, non vada
e possegga una certa capacità di ammutolire all’istante e di farci bere
il fiele del dubbio. Oh, soprattutto
che non perda mai, non importa in che mondo
non importa in che circostanza, la sua infinita volubilità
di uccello; e che carezzata nel fondo di se stessa
diventi un fiera senza perdere la grazia di uccello; e che esali sempre
il profumo impossibile; e distilli sempre
il miele inebriante; e canti sempre il canto inaudibile
della sua combustione; e non smetta mai d’essere l’eterna ballerina
dell’effimero; e nella sua incalcolabile imperfezione
costituisca la cosa più bella e più perfetta di tutto l’innumerevole creato.
*
O amor dos homens
Na árvore em frente
eu terei mandado instalar um alto-falante com que os passarinhos
amplifiquem seus alegres cantos para o teu lânguido despertar.
Acordarás feliz sob o lençol de linho antigo
com um raio de sol a brincar no talvegue de teus seios
e me darás a boca em flor; minhas mãos amantes
te buscarão longamente e tu virás de longe, amiga
do fundo do teu ser de sono e plumas
para me receber; nossa fruição
será serena e tarda, repousarei em ti
como o homem sobre o seu túmulo, pois nada
haverá fora de nós. nosso amor será simples e sem tempo.
Depois saudaremos a claridade. Tu dirás
bom dia ao teto que nos abriga
e ao espelho que recolhe a tua rápida nudez.
Em seguida teremos fome: haverá chá-da-índia
para matar a nossa sede e mel
para adoçar o nosso pão. satisfeitos, ficaremos
como dois irmãos que se amam além do sangue
e fumaremos juntos o nosso primeiro cigarro matutino.
Só então nos separaremos. Tu me perguntarás
e eu te responderei, a olhar com ternura as minhas pernas
que o amor pacificou, lembrando-me que elas andaram muitas léguas de mulher
até te descobrir. pensarei que tu és a flor extrema
dessa desesperada minha busca; que em ti
fez-se a unidade. De repente, ficarei triste
e solitário como um homem, vagamente atento
aos ruídos longínquos da cidade, enquanto te atarefas absurda
no teu cotidiano, perdida, ah tão perdida
de mim. Sentirei alguma coisa que se fecha no meu peito
como pesada porta. Terei ciúme
da luz que te configura e de ti mesma
que te deixas viver, quando deveras
seguir comigo como a jovem árvore na corrente de um rio
em demanda do abismo. Vem-me a angústia
do limite que nos antagoniza. Vejo a redoma de ar
que te circunda – o espaço
que separa os nossos tempos. Tua forma
é outra: bela demais, talvez, para poder
ser totalmente minha. Tua respiração
obedece a um ritmo diverso. Tu és mulher.
Tu tens seios, lágrimas e pétalas. À tua volta
o ar se faz aroma. Fora de mim
és pura imagem; em mim
és como um pássaro que eu subjugo, como um pão
que eu mastigo, como uma secreta fonte entreaberta
em que bebo, como um resto de nuvem
sobre que me repouso. Mas nada
consegue arrancar-te à tua obstinação
em ser, fora de mim – e eu sofro, amada
de não me seres mais. Mas tudo é nada.
Olho de súbito tua face, onde há gravada
toda a história da vida, teu corpo
rompendo em flores, teu ventre
fértil. Move-te
uma infinita paciência. Na concha do teu sexo
estou eu, meus poemas, minhas dores
minhas ressurreições. Teus seios
são cântaros de leite com que matas
a fome universal. És mulher
como folha, como flor e como fruto
e eu sou apenas só. Escravizado em ti
despeço-me de mim, sigo caminhando à tua grande
pequenina sombra. Vou ver-te tomar banho
lavar de ti o que restou do nosso amor
enquanto busco em minha mente algo que te dizer
de estupefaciente. Mas tudo é nada.
São teus gestos que falam, a contração
dos lábios de maneira a esticar melhor a pele
para passar o creme, a boca
levemente entreaberta com que mistificar melhor a eterna imagem
no eterno espelho. E então, desesperado
parto de ti, sou caçador de tigres em Bengala
alpinista no Tibet, monje em Cintra, espeleólogo
na Patagônia. Passo três meses
numa jangada em pleno oceano para
provar a origem polinésica dos maias. Alimento-me
de plancto, converso com as gaivotas, deito ao mar poesia engarrafada, acabo
naufragando nas costas de Antofagasta. Time, Life e Paris-Match
dedicam-me enormes reportagens. Fazem-me
o “Homem do Ano” e candidato certo ao Prêmio Nobel.
Mas eis comes um pêssego. Teu lábio
inferior dobra-se sob a polpa, o suco
escorre pelo teu queixo, cai uma gota no teu seio
e tu te ris. Teu riso
desagrega os átomos. O espelho pulveriza-se, funde-se o cano de descarga
quantidades insuspeitadas de estrôncio-90
acumulam-se nas camadas superiores do banheiro
só os genes de meus tataranetos poderão dar prova cabal de tua imensa
radioatividade. Tu te ris, amiga
e me beijas sabendo a pêssego. E eu te amo
de morrer. Interiormente
procuro afastar meus receios: “Não, ela me ama…”
Digo-me, para me convencer, enquanto sinto
teus seios despontarem em minhas rnãos
e se crisparem tuas nádegas. Queres ficar grávida
imediatamente. Há em ti um desejo súbito de alcachofras. Desejarias
fazer o parto-sem-dor à luz da teoria dos reflexos condicionados
de Pavlov. Depois, sorrindo
silencias. Odeio o teu silêncio
que não me pertence, que não é
de ninguém: teu silêncio
povoado de memórias. Esbofeteio-te
e vou correndo cortar o pulso com gilete-azul; meu sangue
flui como um pedido de perdão. Abres tua caixa de costura
e coses com linha amarela o meu pulso abandonado, que é para
combinar bem as cores; em seguida
fazes-me sugar tua carótida, numa longa, lenta
transfusão. Eu convalescente
começas a sair: foste ao cabeleireiro. Perscruto em tua face. Sinto-me
traído, delinqüescente, em ponto de lágrimas. Mas te aproximas
só com o casaco do pijama e pousas
minha mão na tua perna. E então eu canto:
tu és a mulher amada: destrói-me! Tua beleza
corrói minha carne como um ácido! Teu signo
é o da destruição! Nada resta
depois de ti senão ruínas! Tu és o sentimento
de todo o meu inútil, a causa
de minha intolerável permanência! Tu és
uma contrafação da aurora! Amor, amada
abençoada sejas: tu e a tua
impassibilidade. Abençoada sejas
tu que crias a vertigem na calma, a calma
no seio da paixão. Bendita sejas
tu que deixas o homem nu diante de si mesmo, que arrasas
os alicerces do cotidiano. Mágica é tua face
dentro da grande treva da existência. Sim, mágica
é a face da que não quer senão o abismo
do ser amado. Exista ela para desmentir
a falsa mulher, a que se veste de inúteis panos
e inúteis danos. Possa ela, cada dia
renovar o tempo, transformar
uma hora num minuto. Seja ela
a que nega toda a vaidade, a que constrói
todo o silêncio. Caminhe ela
lado a lado do homem em sua antiga, solitária marcha
para o desconhecido – esse eterno par
com que começa e finda o mundo – ela que agora
longe de mim, perto de mim, vivendo
da constante presença da minha saudade
é mais do que nunca a minha amada: a minha amada e a minha amiga
a que me cobre de óleos santos e é portadora dos meus cantos
a minha amiga nunca superável
a minha inseparável inimiga.
L’amore degli uomini
traduzione di Amina di Munno
Sull’albero di fronte
avrò fatto sistemare un altoparlante con cui gli uccellini
amplifichino i loro canti allegri per il tuo languido risveglio.
Ti sveglierai felice sotto il lenzuolo di lino antico
con un raggio di sole che gioca nell’incavo dei tuoi seni
e mi darai la bocca in fiore; le mie mani amanti
ti cercheranno a lungo e tu verrai da lontano, amica
dal fondo del tuo essere di sonno e piume
per accogliermi; il nostro godimento
sarà sereno e lento, riposerò in te
come l’uomo sul suo tumulo, poiché nulla
ci sarà al di fuori di noi. Il nostro amore sarà semplice e senza tempo.
Poi saluteremo il chiarore. Tu dirai
buongiorno al soffitto che ci ripara
e allo specchio che raccoglie la tua rapida nudità.
Dopo avremo fame: ci sarà tè dell’India
per saziare la nostra sete e miele
per raddolcire il nostro pane. Soddisfatti, resteremo
come due fratelli che si amano al di là del sangue
e fumeremo insieme la nostra prima sigaretta del mattino.
Solo allora ci separeremo. Tu mi domanderai
e io ti risponderò, guardando con tenerezza le mie gambe
che l’amore ha placato, ricordandomi che esse hanno camminato molte leghe di donne
fino a scoprirti. Penserò che tu sei l’ultimo fiore
di questa mia disperata ricerca; che in te
si è fatta l’unità. All’improvviso, sarò triste
e solo come un uomo, vagamente attento
ai rumori distanti della città, mentre assurda ti affaccendi
nel tuo quotidiano, smarrita, ah così smarrita
da me. Sentirò qualcosa che si chiude nel mio petto
come una porta pesante. Sarò geloso
della luce che ti configura e di te stessa
che ti lasci vivere, quando dovresti
seguire con me come il giovane albero lungo la corrente di un fiume
in cerca dell’abisso. Mi viene l’angoscia
del limite che ci rende antagonisti. Vedo la calotta d’aria
che ti circonda – lo spazio
che separa i nostri tempi. La tua forma
è un’altra: troppo bella, forse, per poter
essere totalmente mia. Il tuo respiro
ubbidisce a un ritmo diverso. Tu sei donna.
Tu hai seni, lacrime e petali. Intorno a te
l’aria diventa profumo. Fuori di me
sei pura immagine; in me
sei come un uccello che io soggiogo, come il pane
che mastico, come una segreta fontana socchiusa
in cui bevo, come un residuo di nuvola
su cui riposo. Ma nullav riesce a strapparti alla tua ostinazione
di essere, fuori di me – e io soffro, amata
che tu non mi sia di più. Ma tutto è nulla.
Guardo all’improvviso il tuo volto, dov’è incisa
tutta la storia della vita, il tuo corpo
che dirompe in fiori, il tuo ventre
fertile. Ti muove
un’infinita pazienza. Nella nicchia del tuo sesso
ci sono io, le mie poesie, i miei dolori
le mie resurrezioni. I tuoi seni
sono brocche di latte con cui sazi
la fame universale. Sei donna
come foglia, come fiore e come frutto
e io sono semplicemente solo. Schiavo di te
mi accomiato da me, continuo a camminare alla tua grande
piccolina ombra. Ti vedrò fare il bagno
laverò da te ciò che è rimasto del nostro amore
mentre cerco nella mia mente qualcosa da dirti
di stupefacente. Ma tutto è nulla.
Sono i tuoi gesti a parlare, la contrazione
delle labbra in modo da stirare meglio la pelle
per darti la crema, la bocca
lievemente socchiusa con cui mistificare meglio l’eterna immagine
nell’eterno specchio. E allora, disperato
parto da te, sono cacciatore di tigri nel Bengala
alpinista sul Tibet, monaco a Cintra, speleologo
in Patagonia. Passo tre mesi
in una zattera in pieno oceano per
provare l’origine polinesiana dei maia. Mi nutro
di plancton, parlo con i gabbiani, affido al mare poesie in una bottiglia, finisco
per naufragare sulle coste di Antofagasta. Time, Life e Paris Match
mi dedicano grandi servizi. Mi fanno
l’Uomo dell’Anno” e candidato sicuro al Premio Nobel.
Ma ecco che mangi una pesca. Il tuo labbro
inferiore si piega sotto la polpa, il succo
scorre sul tuo mento, cade una goccia sul tuo seno
e tu ridi. Il tuo riso
disgrega gli atomi. Lo specchio si polverizza, il tubo di scarico si fonde
quantità insospettate di stronzio-90
si accumulano negli strati superiori del bagno
solo i geni dei miei pronipoti potranno dare una prova precisa della tua immensa
radioattività. Tu ridi, amica
e mi baci sapendo di pesca. E io ti amo
da morire. Dentro di me
cerco di allontanare le mie paure: “No, lei mi ama…”.
Me lo dico per convincermi, mentre sento
i tuoi seni sbocciare nelle mie mani
e contrarsi le tue natiche. Vuoi rimanere incinta
immediatamente. C’è in te un improvviso desiderio di carciofi. Vorresti
un parto indolore alla luce della teoria dei riflessi condizionati
di Pavlov. Poi, sorridendo
taci. Odio il tuo silenzio
che non mi appartiene, che non è
di nessuno: il tuo silenzio
popolato di ricordi. Ti schiaffeggio
e corro a tagliarmi le vene con una lametta-blu; il mio sangue
sgorga come una richiesta di perdono. Apri la tua scatola del cucito
e cuci col filo giallo il mio polso abbandonato, che è per
associare bene i colori; dopo
mi fai succhiare la tua carotide, in una lunga, lenta
trasfusione. Io convalescente
cominci a uscire: sei stata dal parrucchiere. Scruto il tuo viso. Mi sento
tradito, deliquescente, sul punto di piangere. Ma ti avvicini
solo con la giacca del pigiama e posi
la mia mano sulla tua gamba. E allora io canto:
tu sei la donna amata: distruggimi! La tua bellezza
corrode la mia carne come un acido! Il tuo segno
è quello della distruzione! Nulla resta
dopo di te se non rovine! Tu sei il senso
di tutto il mio inutile, la causa
della mia intollerabile permanenza! Tu sei
una contraffazione dell’aurora! Amore, amata
tu sia benedetta: tu e la tua
impassibilità. Benedetta tu sia
tu che crei la vertigine nella calma, la calma
in seno alla passione. Benedetta tu sia
tu che lasci l’uomo nudo di fronte a se stesso, che abbatti
le fondamenta del quotidiano. Magico è il tuo viso
nella grande oscurità dell’esistenza. Sì, magico
è il viso di colei che non vuole se non l’abisso
dell’essere amato. Ci sia lei per smentire
la falsa donna, colei che si veste di inutili panni
e inutili danni. Lei possa, ogni giorno
rinnovare il tempo, trasformare
un’ora in un minuto. Ella sia
colei che nega ogni vanità, colei che costruisce
tutto il silenzio. Cammini
al fianco dell’uomo nella sua antica, solitaria marcia
verso l’ignoto – questa eterna coppia
con cui comincia e finisce il mondo – lei che ora
lontano da me, vicino a me, mentre vive
della costante presenza della mia nostalgia
è più che mai la mia amata: la mia amata e la mia amica
colei che mi sparge di olio santo ed è la depositaria dei miei canti
la mia amica mai superabile
la mia inseparabile nemica.
Note
Il mangue (in italiano mangrovia) è una formazione vegetale (o forestale), costituita da piante prevalentemente legnose, che si sviluppa sui litorali bassi delle coste marine tropicali, in particolare nella fascia periodicamente sommersa dalla marea. In questo caso, “mangue” potrebbe essere tradotto con palude, poiché la poesia fa riferimento all’area angiportuale, spesso nelle città brasiliane caratterizzata da zone paludose.
La saponiera, che non è possibile tradurre in italiano in altro modo, è quella parte del corpo concava compresa fra il collo e la clavicola.
*
Marcus Vinícius da Cruz de Mello Moraes (Rio de Janeiro, 19 ottobre 1913 – Rio de Janeiro, 9 luglio 1980) è stato un poeta, cantante, compositore, drammaturgo e diplomatico brasiliano, noto più semplicemente come Vinícius de Moraes. Proveniente da famiglia facoltosa, fu addetto d’ambasciata e, come autore di testi, scrisse numerosi classici; da un suo dramma fu inoltre tratto il film Orfeo negro; noto bon vivant, si sposò nove volte e morì a Rio de Janeiro, sua città natale, a 66 anni.
Quest’uomo è pericoloso. I suoi versi sono pericolosissimi.
Ma grazie Griffin.
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Grazie Griffin che scavi in qualcosa che per me è un passato remoto affascinante e mai approfondito per paura. Bentornata Angela.
Francesco
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Devo riconoscere che in questi testi si trova una sensualità infinita, provocatoria!
Grazie, bel lavoro!
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Grazie Max. ❤
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Mi manchi
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la prima volta che ho letto Poetica, sono rimasta ferma, col respiro in difficoltà
l’ho letta e riletta, in italiano, in lingua, di nuovo in italiano, l’ho ‘vista’, poi chiudendo la bocca e riprendendo il respiro ho pensato ”che altro c’è da dire”
domani torno nel silenzio a leggere e ascoltare, ora ci sono altri tiranni..
grazie
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“Resta questo costante sforzo di proseguire nel labirinto
questo eterno rialzarsi dopo ogni caduta
questa ricerca dell’equilibrio sul filo del rasoio
questo terribile coraggio di fronte alla grande paura, e questa paura
infantile di avere piccoli coraggi.”
Mi mancheranno queste incursioni così intense di poesia e vita…
Grazie Griffin
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Torno domani a rileggere. E’ come un profumo troppo inebriante. Devo farlo mio poco a poco. Grazie anche da parte mia.
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Sì, amici, avete ragione. Questo Post di cui ringrazio Massimiliano con tutto il cuore è terribile. Perchè Vinicius è un gigante, non definibile, non etichettabile, costringe a ripensare, almeno a me così è accaduto, a tutte le nostre convinzioni sulla poesia. Ho rispolverato ricordi e materiali della mia giovinezza, ho cercato in rete canzoni e altri testi (pochi, in verità), mi sono chiesto – forse scioccamente – se è stato un poeta, anzi, una “ricetta di poeta”. Perchè Vinicius è stato tutto. Ha scritto testi di una bellezza lancinante, li ha letti, cantati, ha usato tutto, la sua voce, il suo istrionismo e la sua spontaneità, la chitarra e il silenzio, la metrica “tradizionale”, l’estrema cura stilistica ed espressiva, senza alcuna letterarietà, apparentemente senza sforzo. Ha commosso tutti. Ha scritto poesia d’amore e poesia “civile” (ma si può dire così per la “Balada do mangue” o “A Rosa de Hiroxima”, non sono “oltre”, qualcosa di più della poesia civile comunemente intesa?). I testi di Vinicius sono senza dubbio altissime poesie di per se stessi. E quando li canta? Cos’è stato Vinicius? Fabrizio De Andrè rifuggiva dalla pericolosa definizione di “poeta” che spesso hanno tentato di dargli, prefrendosi dire “cantautore”, ed ha fatto bene, aveva ragione. Ma Vinicius scrive in primis poesie, poi le dice, le canta, con la chitarra o senza, con altri o da solo. E allora cos’è? Ripeto, sarà questa una domanda sciocca e inutile, ma ci sto pensando da quando è apparso questo Post. E tuttavia riflettere sulla poesia, quando si hanno davanti versi che ne sono, a mio parere, l’essenza, forse può servire. Anche a farci sentire nani. Ma nani che riconoscono i giganti e tentano di montare sulle loro spalle. Grazie a tutti e un caro saluto
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Bellissima riflessione, Francesco.
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L’ha ribloggato su La lanterna del pescatoree ha commentato:
“Di mattina scurisco
di giorno tardo
di sera annotto
di notte ardo.
Ad ovest la morte
contro cui vivo
del sud cattivo
l’est è il mio nord.
Che contino altri
passo per passo:
io muoio ieri
nasco domani
vado dove c’è spazio:
– il mio tempo è quando.”
Una scoperta.
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Sonetto di separazione
(Vinicius de Moraes)
all’improvviso il riso si fa pianto
silenzioso e bianco come la bruma
e delle bocche unite si fa schiuma
e delle mani aperte disincanto
d’improvviso la calma si fa vento
che degli occhi disfà l’ultima fiamma
la passione si fa presentimento
e il momento immoto si fa dramma
d’improvviso, non più che in un momento
si fa triste colui ch’è stato amante
ed è solo chi prima era contento
si fa l’amico prossimo distante
si fa la vita un’avventura errante
d’improvviso, non più che in un momento
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