perìgeion

un atto di poesia

Destini minori: gli esseri silenziosi

 

 

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di Marco Ercolani

 

Elisa Cairo

Figlia di sordomuti, Elisa Cairo non ha mai ascoltato nessun suono all’interno della sua casa. Il mondo esterno le è apparso subito, fin dalla prima infanzia, fragoroso e violento, se confrontato al silenzio della sua casa. Alla fine, però, anche la mancanza delle voci dei genitori le fu impossibile da sopportare, come una violenza.
Scrive in un foglietto, che lascia nella loro stanza: «Parto». Fa i bagagli, lascia casa a notte alta. Arriva a Milano, trova lavoro come archivista, affitta una stanza, inizia una vita tranquilla. Ma i rumori cominciano a infastidirla, o quando è in strada nelle ore di punta o quando lavora, turbata dal fruscìo delle pagine e dai rumori dei volumi. Ogni volta torna nella sua stanza con sempre maggiore sollievo. Ma, se ascolta delle voci venire dagli appartamenti vicini, le sembra di diventare pazza, come se assistesse a un rito diabolico.
Inizia a scrivere un diario delle sue sensazioni. Dà un titolo ai diversi capitoli: Primo silenzio, Secondo silenzio, Terzo silenzio. Scrive a notte alta, quando tutti, uomini e donne, dormono. Alla fine del libro riesce a tollerare che voci umane risuonino nelle case accanto ma si augura sempre che siano leggère, quasi inudibili. Non litiga con nessuno, per timore dei suoni aspri di una lite. Nonostante abbia una voce bellissima, si limita a parlare piano e a non rispondere a chi inizia una conversazione con lei. Muore molto vecchia, rammentando le facce sorridenti e mute dei genitori. Gli amici scopriranno che il grande libro, a cui aveva lavorato con testardo accanimento per oltre vent’anni, aveva milleseicentododici pagine, era diviso in dodici capitoli ed era composto da lunghe righe bianche, intervallate da poche e incomprensibili parole che assomigliavano a note musicali.

 

 

Paul Foran

Dall’età di sedici anni Paul Foran riflette sul «rumore di fondo» della percezione. Pensa a lungo, notte e giorno, finché arriva a una conclusione: nessuna percezione è priva di questo rumore. Per ogni cosa c’è una vibrazione che riguarda quella cosa ma anche migliaia di altre che, pur non esistendo, la determinano.
Scrive nel 2001, a ventisei anni, un libro, La settima verità, in cui teorizza che nessuna verità è univoca ma si compone di almeno sette strati, come una faglia geologica. Ma in tutto il libro non spiega con esattezza queste sette fasi. Non gli sembra interessante farlo: è certo che il libro, in quanto esiste ed è fatto di parole e di pensieri, spieghi già tutto.
A cinquantadue anni Paul Foran si sposa e ha un figlio. Dopo quattro anni, il bimbo muore in un incidente. Mentre la moglie lo piange disperata, Foran resta indifferente e riferisce a medici ed amici che quella morte è solo una finzione a cui ha deciso di accondiscendere per evitare penosi conflitti. Evita l’intervento degli psichiatri simulando di accettare la realtà. Ma, al funerale del bambino, Foran sorride in silenzio e intona, a voce bassissima, il tema della canzone Into the arms. Batte leggermente le dita sul legno di una panchina. Tutte le persone che lo circondano gli sembrano stupidi fantasmi. Sa che suo figlio non è chiuso in quella bara ma corre spensierato, consapevole del suono esatto del suo corpo, ben lontano da loro, deciso a non comunicare più con certi imbecilli, risoluto a rifiutare anche la compagnia del padre. A sessantadue anni, presso una tipografia di Tolone, pubblica in sette copie un saggio sull’infanzia, Gli esseri silenziosi.

 

 

Sergej Sousa

Nonostante fosse un celebre professore di filologia del linguaggio, non pubblicò mai un articolo su riviste specializzate ma scrisse sempre clandestinamente, rifiutandosi di completare un libro intero con tutti i suoi appunti: mille pagine di estetica sulle ombre dell’immaginazione, settecento pagine di filosofia sulle anomalie della logica, cinquemila pagine di diario senza alcun cenno biografico. Fu alla fine della sua vita che, dopo aver gettato via l’ennesimo foglio, Sergej Sousa scese in strada, prostrato, sapendo, con atroce chiarezza, di avere sprecato la sua vita. Aveva già settantadue anni. Una bambina che non conosceva, smettendo di giocare con le amiche, gli si avvicinò, gli prese la mano, lo fissò con i suoi occhi celesti e gli disse: «Sei grande, tu». Il vecchio sorrise e capì che, nello sguardo di lei, erano passate tutte le sue opere, reali o presunte, sognate o immaginate, come un soffio. Allora sorrise, si tranquillizzò. Si allontanò fischiettando, con aria allegra.
Fedor, un ex-allievo di Sousa, richiamò sua figlia e le carezzò la fronte.
«Brava, Sofia». Lei gli gettò le braccia al collo. «Era così che dovevo fare, papà?». «Proprio così».
Tre giorni dopo un infarto uccise, nel sonno, un vecchio e sereno Sergej Sousa.

 

 

Anton Whistler

Nel suo libro intitolato I nomi superflui accusava senza mezze misure nomi importanti del capitalismo tedesco di corruzione e di furto. Creò un’associazione in cui si dichiarava che solo i derelitti e gli assassini possiedono il segreto dell’esistenza. Anton Whistler non ebbe mai alcun rispetto né per le autorità giudiziarie né per i proclami sull’antisemitismo. Scrisse alcune poesie mediocri, delle ballate, e un romanzo storico su Gilles de Rais. Ironizzò su Hitler, prima che salisse al potere, e nei suoi articoli lo invitò a leggere le cronache antiche dei massacri politici invece di accanirsi a inventare moderni genocidi. I suoi studenti universitari lo minacciarono di morte perché aveva asserito che il Movimento della Gioventù era solo un alibi per giustificare azioni criminali. In esilio a Marienbad nel 1933, due giovani nazisti di diciannove anni lo uccisero mentre, al tavolo da lavoro, stava scrivendo un trattato sulla modernità dell’anarchia.
Rileggendo l’inizio di quel trattato, conservato nella biblioteca di Hannover, si resta colpiti da una frase molto semplice, che Anton Whistler scrisse nella prima riga del terzo capitolo: «Se l’uomo non fosse esistito…».

 

 

Vasilj Gavrilenko

Scrisse diversi libri: Il verde delle parallele, un trattato alchemico; L’impossibile concetto, un dialogo filosofico; un pamphlet intitolato I poeti che non ebbero la testa, e diversi romanzi, fra cui Cabaret cosmo, I cani azzurri, Il solito temporale, Manifesto di un dormiglione. Fu nullista, transmentale, costruttivista, futurista. Si misurò con tutte le avanguardie, accumulando parole con pazienza. Ma restò sempre nel suo paese di nascita, a Tiflis.
Quando compì settantanove anni, volle partire, in aereo, per conoscere New York. Viaggiò con i pugni contratti, per timore di un incidente. Le nuvole scorrevano veloci sulla carlinga del jet. Ma, arrivato all’aeroporto, mentre stava posando il piede sulla scaletta sognando di intravedere i primi grattacieli, Vasilij sentì un dolore acuto al petto. Fu soccorso e curato subito: i medici diagnosticarono una forma lieve di angina ma proibirono a Gavrilenko di continuare il suo viaggio. Restò immobile nella hall dell’aeroporto, con quel dolore fisso al torace, stringendo due compresse sotto la lingua. Ritornò a Mosca con l’aereo delle otto e trenta del 3 luglio 1952. Dall’aeroporto fu accompagnato, traballante, verso l’autobus per Tiflis: il male gli aveva paralizzato quasi tutto il braccio sinistro. Prese posto in uno degli ultimi sedili. Pensava al romanzo che avrebbe potuto scrivere in America: «Un diario di libertà» era il titolo che sognava. Per tre giorni fu vegliato dalla moglie Irina nella sua stanza, dove erano ammassati i dattiloscritti che aveva redatto con ostinazione nel corso di quarantasei anni. Poi spirò.

 

 

Sigmund Rajzek

Non amava sgomitare nel mondo dei letterati. Disgustato dalla letteratura, che gli sembrava fastidiosa come una nevralgia, fu uno scrittore eccezionale, unico nel suo genere. In un racconto del 1956, Lettera, parla di lettere dell’alfabeto che disertano la scena e lasciano la carta bianca. A questo punto c’è un dialogo fra un io e un tu. Una voce chiede: «C’è speranza?». L’altra risponde: «Nessuna». La prima bisbiglia: «Eppure…». Il racconto finisce così. In un aforisma del 1957 scrive: «Ogni testo non è mai tuo. È l’altro, che lo scrive. Se poi quello vuole parlare di te, sei fortunato. Ecco come nasce il diario». Uno dei suoi personaggi più celebri, Katalaki, imbrogliato dai troppi sensi della lingua, si costruisce un cappio di parole e cerca inutilmente un albero a cui impiccarsi. Un altro personaggio, Velusaki, si cala dentro un pozzo e, invece di trovare il buio che cerca, scopre un’abbagliante distesa di neve sulla quale, in tutte le lingue del mondo, con foglie, inchiostro, carbone, piedi umani, è tracciata la parola buio. In un celebre racconto postumo, Le origini, un pianista, a luci spente, appoggia le dita sulla tastiera e non suona nulla. La platea, attorno a lui, lo applaude freneticamente.
In un articolo sulla Revue des songes viene paragonato a Poe e Gogol, gli scrittori che ammirava di più.
Ovviamente, Rajzek non si sposò mai e non condusse una vita regolare. Visse sempre poverissimo. Non pubblicò niente in vita, a parte un articolo scientifico sulle deformità del linguaggio. Morì ubriaco in un giorno d’estate del 1987, tormentato da una strana amnesia: non ricordava che fosse mai esistito nessun alfabeto e a chi gli chiedeva di scrivere il suo nome replicava tracciando uno scarabocchio su un pezzo di carta. Ma, se gli chiedevano come si chimava, allora si alzava in piedi, chiudeva gli occhi e sillabava, con voce rigida e chiara: «Sigmund Rajzek».

 

 

Marius Helbronn

Per ritrovare il significato dei suoi desideri, Marius Helbronn aveva studiato con attenzione le opere di Evariste Galois che, a ventiquattro anni, nella notte precedente al duello in cui sarebbe stato ucciso, scrisse sessanta pagine di algebra pura. Helbronn lo imitò e scrisse con accanimento, nello spazio di una notte, centinaia di pagine. Ma il giorno dopo era ancora vivo, sparse sul tavolo annotazioni filosofiche, poesie, abbozzi di racconti, equazioni algebriche, numeri magici, formule propiziatorie.
Studiò ancora. Lesse Trakl, ascoltò Chopin, imitò Picasso. Scrisse cose ineguagliabili sulle emozioni che lo avevano attraversato, ma il mattino dopo era ancora lì, al suo tavolo, a rileggere da solo la sua opera. Nessuna morte tragica confermava il suo genio.
Una sera Helbronn decise di riposare. Accese la TV, vide un volto di donna, sentì una voce che parlava. Da quanto tempo non ascoltava notizie dal mondo! Non pensò più né alla morte né alla gloria. Non visse, da allora, che per quella voce. Un leggero tramestìo di parole: cronache, spettacoli, eventi mondani e mondiali. Accese la televisione ogni giorno alla stessa ora. Marius Helbronn aveva trovato il suo destino. Ascoltò e continuò ad ascoltare, finché sprofondò pigramente nel ronzio del video vuoto, sognando la propria mente come una pagina bianca.

 

 

Pavel Dubek

Non sopportava di scrivere se non con penne che avessero una punta molto sottile. Scriveva a lettere minuscole, in modo da nascondere, dietro la calligrafia microscopica, le verità che si affannava a trascrivere foglio dopo foglio, le sue più intime confessioni autobiografiche: le frasi erano così minute e perfette, carattere per carattere, da essere indecifrabili. Solo attraverso quell’indecifrabilità Pavel Dubek poteva confidarsi alla scrittura e dire liberamente tutto di sé, vagabondare liberamente e felicemente con la fantasia e con la memoria. Sentiva che essere letto, anche per sbaglio, anche per un solo istante, sarebbe stato orribile, come se qualcuno avesse voluto uccidere un malato nel sonno.

 

 

Roberta Simone

Amava scrivere lettere a persone sconosciute, che trovava sull’elenco del telefono, e lo faceva con parole chiare, precise, che distillava pacatamente sul foglio. Erano, di solito, lettere di supplica, che cominciavano con la formula: «La prego, signore, di venire qui». «Non stia così lontano da me». Ne accumulò 507, di una lunghezza che andava dalle sei pagine alle quattordici. Quando si chiedeva perché ne scrivesse tante e senza un messaggio preciso, rispondeva a se stessa che così aveva la sensazione che il mondo fosse meno vasto e buio e gli interlocutori, commossi dalle sue parole, potessero risponderle con altre parole: solo così sarebbe nata una conversazione armoniosa, stupenda, irripetibile.
Roberta Simone spediva le lettere senza precisare gli indirizzi, ma soltanto le città. «Voglio non essere così sicura che arrivino tutte – diceva. Esigeva che fossero lettere vere, scritte su carta, indirizzate agli abbonati di diverse città italiane. Odiava i computer e la posta elettronica. Non voleva parole dentro gli schermi. Voleva la scrittura delle mani, le parole da toccare, le sillabe da gustare. Voleva che l’altro, leggendo, sentisse la voce di chi aveva scritto. Aspettava sempre, con estrema fiducia. Anche se per mesi non arrivò nessuna risposta, sapeva che le prime lettere non avrebbero tardato. Ma non era né curiosa né impaziente: a cinquantasei anni viveva l’imminenza del loro arrivo come se godesse di quell’attesa, che anticipava la gioia della futura lettura. Sapeva che, se si supplica qualcuno di venire, qualcuno certamente arriverà. Gli uomini sono curiosi di conoscere l’ignoto. Chi viene lusingato con messaggi misteriosi prima o poi risponderà, solo per il piacere di sentirsi importante.

 

 

Louis Juano

Scrisse più di mille pagine, meditando parola dopo parola, scena dopo scena, tenendo la penna sempre bene aderente alla carta, annodando le frasi con calligrafia semplice e regolare. Non aveva nessun dubbio su quello che sarebbe accaduto. Quando terminò l’ultima pagina, quando sentì che il suo romanzo era finito, Louis Juano fu consapevole che tutti i fogli, uno per uno, si sarebbero autocancellati, tornando perfettamente bianchi. Per anticipare la futile tragedia, comprò un barattolo di vernice. Prese una spatola e spalmò il bianco su ogni foglio scritto, senza nessun rimorso. Non pensò neppure per un attimo ai dieci anni che aveva impiegato per scrivere la sua opera favolosa sul Mondo delle Anime Incerte e provò il senso di sollievo che provano i suicidi quando si tolgono la vita per esorcizzarne l’apatia. Spenta l’ultima scintilla ritmica, non ha più senso scrivere ancora o rileggere il già scritto. Che tutto torni come all’inizio.

 

 

Osvaldo Nerio

Figlio di un carpentiere e di una casalinga, viene picchiato a sedici anni da una banda di teppisti. Alla testa e al torace, nove volte. Riporta un’emorragia cerebrale e la frattura di alcune costole. Immobilizzato a letto, comincia ad avere paura degli altri. Un semplice rumore lo scoraggia. La vista gli cala progressivamente. Racconta, a sua madre, di isole dalle lunghe ombre. «Non so raffigurarle» dice «non riesco a disegnarle con la matita, forse posso scriverne». La madre lo incoraggia. Osvaldo Nerio comincia a scrivere versi che descrivono arcipelaghi remoti e coste verdi e animali felici. C’è una musica nell’aria che non sa definire, dice che gli sembra composta da note sempre uguali. Vede barche che approdano sulla spiaggia, senza remi. Sulle isole fiorisce una vegetazione lussureggiante, gli alberi sono maestosi e perfetti, con grandi radici, caverne azzurre, pozzi scuri. Nell’aria si alza un profumo d’acqua e di fiori. Le ombre non si allungano mai sulle foglie. Il mondo esterno, che Nerio ha cessato di frequentare da molti anni, diventa nebbioso, incomprensibile, inesistente. Continua a scrivere poesie sulle isole. L’ultima dice: «Là / dove rosso e oro, / irraggiungibili…». Il petto continua a fargli male. Sa che tutta la realtà, l’intera realtà, sono i fogli in cui, con pacata lentezza, descrive isole fantastiche. A ogni tramonto ne è sempre più certo. Muore per pneumotorace spontaneo, alle tre di una notte di luglio, a ventinove anni.

 

 

Felicien Meaulnes

Sapeva bene che non avrebbe scritto neppure una riga sui paesaggi che vedeva ma, a ogni nuovo viaggio che faceva insieme agli amici, il suo taccuino si infittiva di appunti, scarabocchi, numeri, enigmi, allusioni. Il giorno dopo, si sbarazzava di quel taccuino e ne iniziava uno nuovo. Ai suoi compagni, che notavano le pagine di nuovo bianche e lo interrogavano a proposito, rispondeva che aveva trascritto solo l’essenziale. Loro lo guardavano, con finta invidia, e ridevano. Anche Felicien Meaulnes rideva, ma di nascosto, mentre non lo guardavano, e continuamente prendeva appunti, l’aria assorta, quasi severa, su un taccuino sempre nuovo.

 

 

Alfredo Rossani

Nasce in campagna, nei dintorni di Perugia. Il suo pensiero prevalente, fin dall’infanzia, è scrivere diari, scrivere che si slaccerà dalle corde e fuggirà, dovunque sia prigioniero, dovesse scorticarsi l’ultimo centimetro di pelle. Fin da piccolo amici e genitori sono interessati a leggere i suoi diari, ma Alfredo Rossani trova quell’interesse insolente. Un mattino prende la mamma a calci mentre gli spia le pagine che ha scritto il giorno prima. Interrogato da uno psichiatra, subisce la prima diagnosi: «Disturbo di personalità». Si ribella. «Io non ho nessun disturbo. Leggono i miei diari. Non ho il diritto di difendermi?».
A ventisei anni viene interdetto, e madre e padre provvedono alla pubblicazione dei diari in libro. L’editore è prestigioso. Alfredo si ribella ancora e viene ricoverato in reparto psichiatrico: l’evento assicura alla pubblicazione un successo di scandalo. Nei suoi taccuini, brevi e ossessivi, parla di stupri e di delitti possibili. Alfredo viene considerato un caso clinico di «arte violenta». Continua a vivere in una comunità psichiatrica e scrive quotidianamente il suo diario, che il direttore gli sottrae dai suoi cassetti ogni domenica sera, mentre sta dormendo, autorizzandone la stampa su una rivista locale. Sedato dalla terapia, Alfredo Rossani non protesta più ma ruba un accendino. Aspetta che il furto venga scoperto. Vuole che lo sia. Che il direttore lo chiami da lui per ammonirlo, per castigarlo. Pregusta il momento in cui chiederà i suoi diari (non gli potranno essere negati) e con un gesto fulmineo darà fuoco alle pagine, sorprendendo quel criminale travestito da psichiatra.

 

 

Stephen Has

Viaggia in città diverse dell’Europa e dell’Asia, da Amsterdam e Pechino, da Lisbona a Istanbul, entrando in cinema, metropolitane, caffè, musei, a tutte le ore del giorno e della notte, approfittando con gioia della sua insonnia. Gli sembra di essere un privilegiato dal destino per poter vivere e vedere e godere il doppio del tempo che è concesso agli altri. Ma, un mattino, svegliandosi davanti allo specchio di una stanza d’albergo, non si vede riflesso nel vetro. Osserva lo specchio come osserverebbe un muro che si oppone allo sguardo, come la parete di una fortezza. La presenza di quella fortezza gli fa provare un lungo brivido di sollievo, un profondo senso di pace. Prova a stendersi nel letto, sentendo, dopo anni, la voglia di dormire. Chiude gli occhi e il sonno arriva subito. Viene trovato, tre giorni dopo, mentre dorme ancora. Ricoverato in ospedale, Stephen Has entra in coma.
Il terzo giorno un infermiere, di nome Alfred, nota una vibrazione nella sua mano sinistra. Gli stringe l’indice e il medio: le dita rispondono. Allora, istintivamente, gli posa sul palmo della mano un foglietto, che il malato stringe. Poi trova un mozzicone di matita e Has stringe anche quello. Comincia a tracciare prima un segno, poi due. Alla fine diventa quasi un diario quotidiano. Alfred è attento a sostituire i foglietti che Stephen, a sorprendente velocità, riempie di una scrittura indecifrabile, con altri foglietti bianchi. Qualche medico parla di “arte estrema”. Il fratello Bernard si incarica di conservare i taccuini mentre vengono scritti. A un critico d’arte sembra di notare una scrittura anfibia e ambigua, dove a segni alfabetici incomprensibili si alternano schizzi di animali mitici in agguato, grifoni o chimere. A uno storico appare come la scrittura di un popolo mitico che adora le divinità dell’inferno e le ossa degli animali. Per una medium è la confessione di un torbido delitto. Per un grafologo qualcosa di estraneo alle regole della calligrafia, una nebulosa di segni che nessuna mano viva avrebbe potuto tracciare. Un architetto, amico di Has da sedici anni, vi legge i segni di una città onirica, visibile solo a notte alta, di quelle che appaiono nei miraggi di deserti lontani, con strade grandi, torri alte immerse nel silenzio e la statua del tuffatore al centro del tempio.

 

 

16 commenti su “Destini minori: gli esseri silenziosi

  1. marco ercolani
    27/12/2015

    A Perìgeion la mia affettuosa riconoscenza. Ringrazio anche per i giocatori di scacchi i cui gesti sono certamente ispirati dalla scacchiera.

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  2. Gianni Priano
    27/12/2015

    Ho letto, per ora, obliquamente. L’odore però è di capolavoro( parola che uso il meno possobile ma, qui, non me ne viene un’altra). Gianni Priano

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  3. Questi racconti di Marco hanno l’ incanto delle voci imprendibili e tutto il mistero di vite così vicine al “senso” che si sottrae a noi cosiddetti ” normali”. Non mi stancherò di dirgli grazie per aprirci queste porte, che almeno contempliamo con infinito stupore.
    Un augurio caro a tutti voi di Perigeion

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    • christiantito
      27/12/2015

      Grazie Annamaria, sono d’accordo su tutto. Per noi è un privilegio poter mostrare queste vite attraverso l’arte e la testimonianza di Marco Ercolani.
      Tanti auguri a tutti. Christian

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  4. marco ercolani
    27/12/2015

    Annamaria, grazie. I nomi sono di invenzione ma le storie sono vere, anche se montate e ricomposte a mio modo. Un augurio caro.

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  5. tramedipensieri
    27/12/2015

    Grazie, una lettura interessante. Storie di “vite” al di là del reale, quasi…alle quali mi sono fatta trascinare

    Auguri
    .marta

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  6. anna
    27/12/2015

    … le città invisibili… le vite silenziose… la voce che narra

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  7. francescotomada
    28/12/2015

    bellissime queste istantanee. Grazie.

    Francesco

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  8. ninoiacovella
    28/12/2015

    Leggando Marco Ercolani si percepisce, nella sua scrittura, il retrogusto della grande letteratura e dei suoi grandi maestri. Ma l’impasto, la resa al palato nella lettura, sa sempre di qualcosa di assolutamente nuovo, di proprio e originale. Soprattutto perché ci mette dentro l’autenticità della sua esperienza umana.
    Grazie per i tuoi contributi Marco.
    Nino

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  9. italoromero
    29/12/2015

    degno sequel – se posso dire – de La sinagoga degli iconoclasti

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  10. marco ercolani
    30/12/2015

    Tutte le voci che mi rispondono sono entrate nello spirito del libro. L’accenno a Wilcock è alla Sinagoga egli iconoclasti è molto centrato.
    Un caro saluto a Nino e a tutti gli amici intervenuti.

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  11. Alessandro Ghignoli
    03/01/2016

    c’è molta più realtà in queste prose che in molta scrittura chiamata ‘realista’.
    l’individuo è portatore di eventi, di passaggi su impronte, di richiami alle percezioni minime dei propri intorni.
    come sempre, molto belle.

    un abbraccio

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  12. Giorgio Galli
    03/01/2016

    L’ha ribloggato su La lanterna del pescatore.

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  13. Marco Furia
    07/01/2016

    Sì, davvero “Gli uomini sono curiosi di conoscere l’ignoto” e, in genere, gli scrittori sono particolarmente interessati a questa caratteristica tipicamente umana (si pensi all’Ulisse di Dante).
    Altrove verso cui l’uomo tende, l’ignoto può essere fisico ma anche mentale e ,forse, gli psichiatri sono “soltanto” individui curiosi …

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  14. Pingback: I “destini minori” secondo Marco Ercolani | perìgeion

  15. pagale63alessandra
    14/06/2016

    Verità come incubo sottile della realtà…queste “anime strane” , per citare un altro titolo di Ercolani, non sono che sfumature a perdita d’occhio delle possibilità. Trovo una grande vitalità nell’immaginare, quasi per via di calcolo infinitesimale, che questo mondo non sia il peggiore né il più complicato dei mondi possibili. Rappresentandoli li si invera, inverandoli ci si distrae. E c’è sottesa la passione dell’apocrifo, quella che ha fatto scrivere a Ercolani pagine mirabili come le ultime lettere di Walser al suo psichiatra…gli psichiatri, guardie o ladri? Scrittori, alcuni, fra i più grandi.

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Questa voce è stata pubblicata il 27/12/2015 da in ospiti, prosa, scritture con tag , , , .