di Pericle Camuffo
L’ultima raccolta di poesie di Giovanni Fierro, è un libro che richiede coraggio, sia dal punto di vista dell’autore, per come è scritto, sia da quello del lettore, per come deve essere letto. Il riparo che non ho (Bologna, Le Voci della Luna, pp. 73, Euro 10.00) è percorso, nelle quattro sezioni che lo compongono, da un processo di denudamento, di esposizione totale. La poesia che apre il volume, Carnevale, contiene un verso che, in questo senso, è già indicazione importante: “Può succedere un vento e mi perdo”. Ipotizzare che possa “succedere” una perdita è disporsi nella dimensione dell’accettazione iniziale di un cedimento, di uno scarto all’interno della propria ed usuale concezione della soggettività, di cui si mette in previsione la frattura, appunto, la perdita. La scena che si apre fin dall’inizio è allora quella di una sorta di “indebolimento” di sé, direbbe una certa filosofia contemporanea, dove del soggetto forte, ordinatore e possessore di se stesso e del mondo, se ne constata il definitivo tramonto. Condizione, questa, che è praticata da Fierro come continuo esercizio di liberazione da ogni “riparo”, come azione che procura un’apertura la cui ampiezza, però, fa vacillare, in quanto ha a che fare con l’abbandono di ogni fissità conoscitiva e sociale: si diventa “coriandolo lanciato in aria / dalla mano della notte”. Si tratta di farsi leggeri, dunque, ma di una leggerezza che non viene subita ma continuamente ricercata, che diventa cifra del proprio esistere: la fede che vuole mettere al dito della propria donna, in Uno più uno, è una conchiglia che porta con sé, tutt’attorno, l’ampiezza del mare, lo spazio della possibile perdita e non un anello di metallo che salda e soffoca nella propria sicurezza, nel proprio essere “riparo”.
Anche le numerose immagini del cielo, del volo, ma soprattutto delle nuvole che ritornato spesso in queste poesie, non hanno nulla di metafisicamente fondante, non consentono un approdo sicuro, sono fatte di tutto e di niente; le nuvole, non tornano mai indietro, forse danno solo un’inconsistente protezione, “ammorbidiscono l’impatto” di una caduta che rimane comunque inevitabile: non sono altro che ulteriori zone di mutevolezza, di spaesamento, di esposizione che devono essere conservate tali in quanto in esse ne va della nostra esistenza.
In questo senso vanno lette anche le poesie, scritte tra Germania, Bulgaria e Repubblica Ceca, raccolte nella sezione L’andare che non ritorna, che non sono poesie di viaggio, che chiudono nella loro composizione un’istantanea di paesaggio o di emozione, ma sono poesie in viaggio, che conservano al loro interno la dimensione dell’ascolto, dell’ospitalità, che sono erranza, non itinerario, possibilità sempre aperta dell’incontro, del dialogo che richiede, per essere veramente tale, che ognuno mostri la propria frattura, che sia disposto a lasciarsi attraversare, che sia, appunto, “senza ripari”.
Il processo di denudamento che è, come ho detto all’inizio, il ritmo pulsante e vivo dell’intera raccolta, Fierro lo applica, e non poteva essere altrimenti, anche alla sua scrittura sul cui senso e significato riflette in più occasioni. Quella di Fierro è una parola che si spezza “sotto il peso / di tutto l’inchiostro”, che ammette e richiede, come per il soggetto che ne fa uso, una frattura, un’esposizione che la sottragga dalla condizione di “riparo”; è parola che non esaurisce in sé ogni suo significato ma che trova la sua verità nel non detto che conserva, nel silenzio che custodisce; parola che non chiude, che non difende, dietro alla quale non ci si può nascondere, in cui, come ne La squadra di calcio, “non c’è mai una menzogna”. Nella scrittura di Giovanni Fierro, come sostiene in Vietato ai 18, vera e propria dichiarazione di poetica, “la protezione non c’è”, ciò che conta è “la carne al lavoro”, il sangue e la saliva, la spinta del bacino, le mani che stringono, “il gioco della vita”.
In linea con le indicazioni che Jack Kerouac dava in riferimento alla sua prosa spontanea, Fierro scrive “con le leggi dell’orgasmo”, inteso come luogo della totale spogliazione, della verità, della vita che vive per quello che è, dell’epifania della propria fragilità, della mancanza assoluta di qualsiasi “riparo” in cui, alla fine, “se c’è del seme lo si vede / sempre”.
***
Una parola
La parola milligrammo è troppo esile e lunga
ho paura di romperla
mentre la sto scrivendo
non ha il tempo di diventare forza
perché il più delle volte
quando ho messo sulla carta
anche la sua ultima lettera, la lettera o
la parola si è già spezzata prima
sotto il peso
di tutto l’inchiostro.
***
La squadra di calcio
È il comunismo perfetto
tutti con la stessa maglia
ognuno è dell’altro il compagno
in campo si vede, distintamente
capisci immediatamente
chi ha talento paura furbizia
remora buona volontà o resistenza
chi gambe chi fiato
non c’è mai una menzogna
e che tutti e sempre
si giochi con le braghette corte
dice bene
che questo è un regime
che funziona
solo quando è giovane.
***
Mio nonno Nino
Faccio proprio fatica a pensare che il mio sangue
proviene dal tuo sangue
i miei capelli che rimangono ostinatamente neri
i tuoi erano completamente bianchi prima che tu avessi trent’anni
i miei occhi scuri dovrebbero nascondermi e invece mi svelano
l’azzurro dei tuoi è il cielo che ti protegge.
Io ho ancora mani da ragazzo
hanno poca forza nella presa
ancora non dicono qual è il mio coraggio
così guardo le tue mani
i tuoi calli sono la soluzione
di ogni algoritmo che la fame ti ha snervato nello stomaco
la radice quadrata della tua bontà che non ti ha mai tradito
la giusta approssimazione ad ogni tuo possibile sogno
il suo esatto più vicino
questa pelle sulle tue dita, asciugata a nocciolo di pietra, stretta a pugno
o volata a carezza, dove è più consumata
e quasi nascosta per vergogna
lì riconosco il segno della tua matematica più precisa
pala e piccone.
***
Sguardo
La tua gravidanza è di sedici settimane
e il tuo ventre non è ancora colmo
come buon auspicio ti hanno regalato
un paio di scarpette, un accappatoio minuscolo
e un giochetto tutto colorato.
Vedi, l’infanzia nasce ben prima del bambino
è la luce accesa della nostra cucina
la vedo dalla strada.
Mi dice che tu ci sei
mi fa sentire a casa
molto prima di salire le scale
mettere la mano in tasca
prendere la chiave e aprire la porta.
***
Giovanni Fierro (Gorizia 1968) ha pubblicato i suoi versi nelle antologie Frantumi (2002) e Prepletanja – Intrecci (2003). Nel 2004 esce la sua prima raccolta, Lasciami così, edita da Sottomondo di Gorizia e nel 2007 Acque di acqua, una plaquette di sette componimenti inerenti al dvd Jùdrio del cormonese Mauro Bon. Gli stessi testi, integrati da nuovi scritti, sono apparsi nell’antologia Dall’Adige all’Isonzo. Poeti a Nord Est, Fara Editore, 2008. E’ presente, con cinque poesie, nell’ Almanacco dello Specchio 2010-2011 edito da Mondadori. Ha partecipato a varie letture e festival poetici in Italia, Slovenia, Croazia, Austria e Repubblica Ceca. E’ stato tradotto in portoghese, sloveno, tedesco, croato, ceco e friulano.
***
I testi di Fierro sono un esempio di come si possa andare in profondità con la poesia senza usarne le sovrastrutture retoriche. Davvero una bella scoperta, per me. Grazie.
Nino
"Mi piace""Mi piace"