perìgeion

un atto di poesia

Francesca Del Moro – Gli obbedienti –

 

di Christian Tito

GLI_OBBEDIENTI_cover_fr

Francesca Del Moro, Gli obbedienti, Cicorivolta, 2016.
Postfazione di Anna Maria Curci.
Disegno di copertina di Alessandro Sicioldr.

 

 

Provo un misto di orgoglio e imbarazzo nel parlare di questa ultima opera di poesia di Francesca Del Moro. La ragione è semplice, inutile nascondersi dietro un dito: gli unici versi che aprono “Gli Obbedienti” appena uscito per Cicorivolta edizioni sono miei:

“Non importa se voi non leggete le poesie
perché sarà la poesia a leggervi tutti.”

 

È una grossa responsabilità, devo dire. Responsabilità però che accetto con sincera gratitudine. Questo è un libro che credo sia e resterà importante; gli auguro veramente di resistere alla prova del tempo. È coraggioso, come la sua autrice che, nello scriverlo,  usa la poesia come strumento, tra i più precisi e preziosi, per leggere la realtà e restituirla al mondo nonostante buona parte del  mondo (soprattutto quello che descrive)  non la consideri come mezzo per riflettere su se stesso.  Il suo sguardo clinico e, secondo me, a tratti, volutamente cinico (per una sorta di mimesi col soggetto-oggetto osservato)  opera un’accurata descrizione del reale, in particolare della sfilacciata e desolante realtà umana che emerge dagli ambienti del lavoro ai tempi della crisi.  Nel rendere questo servizio a nessuno o quasi, Del Moro lo rende in primo luogo alla propria coscienza. Credo che  sia un atto quasi eroico; quantomeno è garanzia di una fede, di una vera vocazione, quella di scrivere, nonostante tutto, per onorare (a dispetto dei tanti usi distorti della poesia, oggi,  nel mondo della poesia) quella che è la sua funzione più nobile: conoscere meglio il mondo, l’uomo che lo abita e come lo abita.

La porzione osservata, dicevamo, è soprattutto quella degli ambienti del lavoro oggi, ma traspare chiaramente che il vero interesse è proprio per gli uomini che in quegli ambienti e spazi (chiunque lavori in società medio-grandi credo possa percepire come familiari tanti scorci mostrati) passano una porzione abbondantissima della loro vita e in cui lasciano affiorare i loro pensieri. Ecco, Francesca Del Moro, con una chiara e rara sensibilità, capta questi frammenti, scatta istantanee emblematiche dei rapporti (?) interpersonali tra individui che coabitano tali spazi e, attraverso i loro pensieri o scampoli di dialoghi, studia fenomeni più vasti che riguardano noi tutti: quello che siamo, o meglio, che siamo diventati. Più che esseri pensanti, esseri “lavorati dal lavoro” e da un sociale, un non vivere collettivo, che non solo non offre più modelli pensanti, ma proprio da questi allontana attraverso molteplici e subdoli mezzi.
Ciò che ne risulta è un panorama allucinante. Sembra non lasciare spazio a nessuna speranza. Le mutate, ma sempre disturbate relazioni tra sovrapposti e sottoposti; la miseria di vite disposte a dimenticare qualsiasi barlume di dignità e amor proprio per assicurarsi un pezzettino di minima sopravvivenza nel mondo; la totale mancanza di una qualsiasi forma di coesione e complicità tra persone che si recano stancamente a fare quello che devono fare per tornare a casa (quando hanno la fortuna di averla, almeno opzionata, con un mutuo trentennale) a fare quello che credono siano liberi di fare. Perché oggi sembra anche difficile identificare chiaramente chi sia l’oppressore; chi, facendoci continuamente tanto male, ci fa vivere così male, ma, la cosa che a volte sembra anche più drammatica, è che pare non esista neanche più una forma di rabbia collettiva da convogliare costruttivamente contro questa entità di potere astratta, evanescente, eppure tanto potente. C’è una specie di senso di colpa spalmato su  tutti che non riesce neanche a farci mangiare il piatto offerto dall’amico perché  non percepito come guadagnato. C’è chi glissa, per paura di perdere il (tremendo) posto di lavoro, la richiesta di aiuto e sostegno  di chi, vicino, ha appena perso la figlia. C’è chi guarda la pagliuzza negli occhi dei giovani che alle tre sono “in botta” al bar ed è invece totalmente incapace di guardare il botto privo di qualsiasi rumore che da tempo ha fatto la propria  vita. C’è chi, invece, la rabbia  a un certo punto la fa esplodere  in maniera scomposta e sorprendente per ricevere in cambio un messaggio freddo e civile (da chi ogni giorno l’ha trattato incivilmente fino a farlo scoppiare) con cui viene spedito a casa. C’è questo, ma c’è tanto altro, c’è un mosaico durissimo da guardare. Se è vero che , come sosteneva Nietzsche, la differenza tra gli uomini è data dal quantitativo di realtà che ognuno riesce a reggere, la realtà che Francesca Del Moro riesce a reggere (e leggere, per restituire e far leggere a noi tutti) ci indica la forza di questa autrice a cui dobbiamo essere grati. A patto di avere anche noi, almeno,  il coraggio di guardare.

 
 

I

Jobs Haiku

La vita esatta.
La corsa della cavia
dentro la gabbia.

 

 

 III

Guardi il display con la tavola
ridente e la sfoglia Buitoni
i cartelloni con le bocche
spalancate per la gioia
delle cose.


Bisogna vendere cose
vendere sempre vendere
le cose.


Tu marci con gli altri
nel grigio mattino,
farai la tua parte.

 

 

XVIII

Quando l’amico gli porse il piatto,
pianse come un bambino.
“Non riesco a mangiare” disse
“quel che non ho guadagnato.”

 

 

XXV

Ce l’hai fatta per fortuna
ad augurargli la buona notte,
gli hai rimboccato le coperte
e poi hai spento la luce.


“Per te sarà tutto diverso”
gli hai sussurrato prima di andare
come diceva sempre tuo padre.

 

  

XXXVIII

Urlò
lui così mite
così abituato a subire
d’un tratto urlò
non con l’apparato fonatorio
ma con tutto il corpo
assottigliato nello sforzo.
I pori della pelle
come bocche, l’urlo
si propagò ovunque,
rimbalzò sui muri,
sulle scrivanie, fece tremare
i vetri delle finestre
e gli schermi fece cadere
le penne e le matite come
un terremoto volare
i fogli come una raffica di vento.
È una crisi, pensarono gli altri
ammutoliti. Loro risposero
civilmente e per iscritto
il giorno dopo, lui lesse
il messaggio distrattamente
mentre svuotava cassetti
sotto dieci paia d’occhi
e staccava le foto dal computer,
per ultima quella in cui
seppur tutti sorrisi
moglie e figli lo guardavano
incattiviti.

 

 

 

XXXIX

Non c’è più scampo,
perfino il cielo
è color del soffitto.


Non servono sbarre
né serrature,
qui tutto è aperto
ma tu resti dentro.

 

 

XLV

Dei due che aveva dentro
quando è uscita restavano
solo due lacrime agli occhi.


Ma lei lo sa bene
che non ci sono soldi
che lui è disoccupato
e lei quel foglio in tempi
non sospetti l’ha firmato.

 

 

 

XLIX

“Ti prego vieni presto”
singhiozzava al telefono,
aveva perso una figlia.
Il viaggio è così lungo,
pensavi mordendoti le dita,
e non è neanche mia parente.
“Non so proprio come fare”
le hai detto a bassa voce
perché ti stavano ascoltando
e mancavano due settimane
al rinnovo del contratto.

 

 

LIX

Dicono noi dobbiamo
e tu non capisci
non sai chi noi siamo
in questi spazi invasi
dal discorde tam tam
lo sbattere dei piedi
sulla propria mattonella.
La rivolta neanche a parole
che si è così presi
a spezzare il verbo in quattro
a umiliarne il valore.
Non sai chi noi siamo
tra tutte le pagliuzze
da cercarsi negli occhi
le mille dita puntate
le mitragliate a salve.
Non sai chi noi siamo
tra gli o tempora o mores
con il dorso del polso
languido sulla fronte
la schiena che s’inarca
e trova breve sollievo
per poi piegarsi al padrone.

 

 

LX

Ieri al bar intorno alle tre
c’erano un sacco di ragazzi in botta,
racconta il collega in pausa caffè,
è una generazione con la testa vuota,
sembrano scimmie, ride e poi
distoglie lo sguardo e tuffa
gli occhi nel telefono e lo scrive
anche su facebook, si prende
quattro like e una bella sgridata
perché la pausa è durata troppo,
così chiede scusa e ritorna
velocemente alla sua postazione.
Incolla gli occhi allo schermo
e sul viso impassibile non si legge
neanche l’ombra di un’emozione.

 

 

   

LXXIV

L’umanità si muove
ritmicamente ripetitivamente
più o meno alle stesse ore
si dipana e si contorce
come la lunghissima coda
di una bestia mostruosa.

 


“Guadagnerai il pane col sudore della fronte”
sta scritto nella Bibbia, e stamani la barista
ti ha detto di aver letto sul giornale
“Dovremmo tutti lavorare
anche domenica e i festivi,
è per questo che le cose vanno male”.

 

 XCII

Guarda i segni bianchi,
ha detto la barista, è lì
che c’erano i pezzi,
è lì che c’era il sangue.


È nel corpo, l’essere,
e immenso
è il suo mistero.


Senso e pensiero
è il corpo,
fulcro dell’amore,
unità del tempo.


Abbiamo visto, sai,
volare le gambe
e la parte superiore
l’ha portata via il treno.

 

 

XCV


Eye-ku

Qui si spalanca
l’occhio dell’universo
e si contempla

 

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2 commenti su “Francesca Del Moro – Gli obbedienti –

  1. guidoq
    04/05/2016

    Una poesia di disperazione o indignazione rischia spesso di esser “facile”, “automatica”, soprattutto di questi tempi. Per questo mi ci avvicino con diffidenza. Ma in questo caso la mia impressione iniziale è completamente smentita: questa è poesia vera, violenta, necessaria, perfettamente giustificata anche sul piano artistico (una lingua piana, versi modulati sul parlato, perfetto equilibrio delle immagini, chiuse che “ribaltano la prospettiva”: tutti strumenti che rendono il pugno nello stomaco ancor più soffocante). Complimenti all’autrice.

    Piace a 2 people

  2. francescotomada
    04/05/2016

    Sono d’accordo con Guido: una poesia così diretta, aspra, discorsiva, corre il rischio di diventare banale o didascalica o macchiettistica. Qui invece ciò non accade, perché l’espressività è modulata e contenuta. Proprio nella sua aderenza al reale, senza alcuna esagerazione, trova la sua ragione di essere e la sua forza.
    Complimenti anche da parte mia.

    Francesco

    Piace a 2 people

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Questa voce è stata pubblicata il 03/05/2016 da in poesia, poesia italiana, Senza categoria con tag .
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