perìgeion

un atto di poesia

Lucetta Frisa traduce Claude Esteban

 

 

c_esteban

 

 

da Trajet d’une blessure (Farrago, 2006)

da Percorso di una ferita (2006)

 

 

muro la finestra nera
muro l’odore dell’etere
muro il flacone che cola
muro il nervo immobile
muro la paura sotto le lenzuola

Sono precipitato nel dolore come in un buco. Di lui non conoscevo, malgrado la mia età e i miei guai, che gli aspetti più benigni, o almeno quelli che si arrendono presto alle medicine, alle pozioni, alle iniezioni. Ero riuscito perfino a conservare un certo distacco davanti a quella infiammazione della cornea, un episodio ricorrente per molto tempo, vissuto come penoso, ma quasi estraneo al mio comportamento, nonostante il rischio di perdere buona parte della vista. Forse la gravità del male e la sua intensità, ma concentrate in un solo punto del corpo, mi concedevano una parvenza di libertà periferica e che il resto di me trovasse naturalmente le difese adeguate. Confesso di averne ricavato una forma di intima soddisfazione, al pari di quei grandi stoici dell’antichità non toccati dalla sofferenza. Ma ero solo uno spirito ingenuo o stupido. Nessuna etica interiore,nessuna padronanza delle mie capacità fisiche, nessuna resistenza esercitata giorno dopo giorno mi autorizzava a inorgoglirmi di tali vittorie facili. Ne feci subito la constatazione quando, non appena risvegliato da quel pesante intervento chirurgico, mi dibattei sfrenatamente, esasperato dal dolore. Da parte a parte un’ustione lacerante mi traversava. Oggi non saprei descrivere questa perturbazione nervosa che s’irradiava fino all’interno del cranio, simile a scosse elettriche che s’intersecavano l’una all’altra, amplificandosi, suddividendosi in nervature, in una fibrillazione indefinita. Come affrontarla, se nessun atomo della mia carne sfuggiva a questo fenomeno? Il dolore così riconosciuto, provato, teso fino all’estremo, si ripeteva incessantemente come una frase sprovvista di senso, una ripetizione assurda, una straziante monotonia. Il dolore non mi insegnava nulla, se non che mi era stato imposto dall’esterno come un fatto irrefutabile, una verità malefica che dovevo subire come uno schiavo sottomesso in una totale rinuncia e che, al contrario di una esperienza mistica, non mi schiudeva che il regno dell’assurdo e della miseria.

 

 

la stanza del risveglio
dopo il vuoto

due, tre
quattro ore

tutto il corpo legato
dentro una cripta

La stanza, il letto, la tavoletta con i flaconi. Giorno dopo giorno, provo un immenso disorientamento di tutti i miei sensi. Non mi muovo, ma cosa potrei intraprendere per strapparmi a questa malefica passività ? La subisco, vado a tastoni, alla cieca, sul bordo di questo spazio quotidiano che mi sfugge e insieme mi spaventa. Azzardo un gesto e la mano si paralizza in aria, mi alzo e subito temo di perdere l’equilibrio mentre so che le mie gambe possono di nuovo reggermi. Si direbbe che questa macchina di muscoli non mi appartiene più, che un altro ha preso il mio posto nel mio corpo e che ormai non mi resta che il rifugio dell’inazione, dell’immobilità, dell’attesa, questo confine fuori di me di cui sono vittima consenziente. Dove trovare un punto di riferimento per tornare a esercitare la mia volontà? Le mie facoltà intellettuali sono forse indenni, ma come quel nervo sezionato sulla mia tibia, non mi obbediscono più, proseguono senza di me il loro oscuro cammino e solo saltuariamente mi concedono un lampo di lucidità che m’illumina meglio se so in anticipo che si perderà nel nero. Non è più, come nei primi momenti, la frenesia dei nervi a spiarmi, ma un’apatia, un torpore certo meno doloroso e sopportabile dal momento che non tento di interromperlo. E forse è l’unico orizzonte che mi si offre, si offre a me un tempo così fiero dei miei poteri, ed è quello di aspettare nel modo più umile, che il tempo, la sua sostanza magica mi sia restituita nel suo sereno percorso e io possa alzare gli occhi verso il sole, inginocchiarmi, ringraziare la terra che mi porta.

 

 

sommerso, martirizzato
dalla linfa

orcio oscillante, acqua
vecchia, putrida

Bisogna combattere questo umore pesante che ristagna nel mio cervello. E’sempre il sangue o qualche sostanza velenosa attaccata alle vene e di cui non riesco a scacciare la collosità? Un reliquario, forse, di quelle molecole medicamentose che ingurgito tutte le sere per sprofondare nel sonno. Una volta i miei fragili sogni, incoerenti e furtivi, mi portavano verso la riva del mattino con rinnovato vigore, un ardore di cui conservo solo il ricordo. La notte è diventata una specie di materia molle in cui affondo irrimediabilmente e mi sommerge, di fronte a cui so o mi convinco di sapere che non mi concederà nessun appello. Per quel poco che respiro, mi sembra di soffocare come se il respiro bruciasse in fondo alla mia gabbia toracica estenuandomi di più. Imbacuccato nelle coperte, mi confino nell’inerzia, cercando di non sentire più niente, se non i movimenti di una gamba che per quanto molesti mi confermano di essere ancora vivo. Questo dolore organico percepito come scandalo, un insopportabile attentato alla mia integrità, ecco che mi rassicura, e mi rivolgo a lui per ravvivarlo con un gesto brutale per convincermi almeno che il lavoro delle cellule prosegue, che i muscoli tagliati si ricompongono e che io non sono una mummia pietrificata, quella figura che mi perseguita al ritorno del giorno. Credevo soltanto alle comunicazioni dello spirito, alle esaltanti sollecitazioni di un pensiero chiaro, libero da tutti gli avatars fisici, ed ora è il formicolio di un nervo, in fondo al mio corpo, a concedermi una minima conferma e sono quasi felice quando comando al mio ginocchio di muoversi e lui scricchiola nella sua prigione di cartilagini permettendomi di avanzare di un passo.

 

 

La risata mostruosa
della tenda, il sibilo
delle sillabe
sotto la lingua

ogni notte, l’orrore

Esiste in noi un limite che il dolore non abbia oltrepassato? Accettavo di soffrire, di essere solo questa gamba lacerata, questa carne gonfia di linfa, questa appendice mostruosa di me stesso, ma riuscivo, nei primi giorni, a mantenere un atteggiamento di distanza tra l’insurrezione delle mie cellule e la loro coscienza. La testa mi apparteneva, il cervello teneva bene, la mia memoria s’ingegnava a non perdere nulla dei suoi poteri. Mi lusingavo perfino di circoscrivere in questo modo il male subito dai miei neuroni e provavo, a momenti, una tregua, una sensibile attenuazione dei suoi atroci dolori. Ma il dolore fisico era più sottile di me, circuiva le mie strategie, risaliva lentamente, senza accorgermene, fino al nucleo centrale della mia resistenza. E,di colpo, fu lo sfascio : una valanga d’immagini folli mi portò via, una sequenza di stati deliranti, come in preda agli allucinogeni,un continuo bombardamento di sensazioni dove la mia gamba ferita non aveva nessuna parte, abbandonata al suo divenire, mentre tutti i nervi della testa erano vittime di convulsioni intollerabili al punto da sperare in una perdita di coscienza grazie a qualche iniezione, e nel caso che questo intervento avesse fallito, nella mia definitiva scomparsa. Darsi la morte non mi appariva più come una sconfitta, quella che un nonno spagnolo si era inflitto sotto un treno tra Saint- Jean- de –Luz e Bayonne, oltre ai tentativi mancati di mio padre durante la mia adolescenza. Quello che, ai miei occhi era il paradigma spaventoso della vigliaccheria perdeva il suo lato oscuro e diventava una fine benevola e anche se ne respingevo l’idea, l’immaginavo possibile e non ne provavo paura. Poi ci fu,nel profondo,quel soprassalto, quel gesto vitale che improvvisamente mi liberò dalla vertigine. Ero vivo, e la sofferenza rifluiva verso il suo luogo d’origine e ormai, non rifiutai più che mi battesse nelle vene, abitasse quei tendini martirizzati.

 

 

tra due gocce
di plasma

Il tempo inerte, il minuto
molle
infinitamente

Mi accade, adesso, e non me ne stupisco più di tanto,di perdere la cognizione della mia età. Sarà per l’eccessiva stanchezza che sento pesare sulle spalle il pesante mantello della vecchiaia. Raccolgo allora, nella memoria, tutte le immagini della decrepitezza, quelle viste coi miei occhi e quelle da cui fuggii disgustato, anche quelle che trattenni dalle mie letture e mi affascinavano per la loro precisione clinica. Ne avverto in me i sintomi, il pensiero martellante, la lentezza delle sensazioni, l’andatura vacillante e che si irrita al minimo ostacolo. Io non sono, per parlare chiaro, questo essere senile, lo sento, che ne simula i tratti davanti allo specchio, i tratti per convincersi della sconfitta, renderla esplicita allo sguardo altrui, perché s’impietosiscano o mi proteggano. La terribile vecchiaia è un rifugio per non intraprendere più niente e di colpo la considero con una simpatia mista a paura. Dopo, è un nuovo giorno che inizia e con un rinnovo di energia di cui non mi credevo capace, mi scopro sprovveduto come un neonato. Al termine di questa oscura traversata, il mattino mi illumina, la mia retina si appoggia su forme leggere, il mio corpo si alleggerisce e capisco che tutto m’invita ad afferrarlo, palparlo, la freschezza dell’aria, la dolcezza di un tessuto, quelle foglie d’acacia che fremono dietro la finestra. Meraviglie tanto vicine che non riesco ancora a nominare e che pretendono da me un’attenzione, un fervore insospettabile. Tutto il circostante, che si era come staccato da me, va concertandosi, precipitando su di me e mi capovolge.Più non tremo a questo assalto, lo accolgo quasi ridendo assaporando a lunghi sorsi l’inestinguibile linfa. Il tempo mi sfuggiva, ne trattenevo solo briciole, ed ecco che vorrei, come un bimbo nella culla, carezzare con le dita un raggio di sole, e so che al di là di questa stanza dove mi hanno imprigionato, c’è lo spazio insieme al mondo immenso e ignoto.

 

 

lo spazio proibito dei corridoi
poi il carrello
e sempre negli aghi la minaccia.

Mi tornava in mente una scena che mi calmava per qualche minuto e che tentavo, nella mia testa confusa, di rivivere più intensamente possibile. Forse un tempo l’avevo già evocata, ma con la distanza che impone la scrittura,come un episodio particolarmente significativo di un viaggio in Corea, senza però trattenerne il significato profondo che s’imponeva ora in tutta evidenza. Una sera, dopo la visita a un monastero buddista in montagna, ebbi l’occasione di scambiare qualche parola con un giovane monaco d’origine canadese:e,una volta terminati i rituali, mi raggiunse sulla terrazza di un modesto padiglione adibito agli ospiti dove io e i miei compagni dovevamo trascorrere la notte. Era già tardi, la luna saliva nel cielo e mi preparavo a dormire, a sonnecchiare almeno su un letto di paglia intrecciata, quando il giovane, quasi scusandosi della sua venuta, mi salutò, si sedette sul bordo della galleria e durante le lunghe ore che seguirono, mi intrattenne sulla sua esistenza in seno a quella comunità monastica. Intuivo che, a causa della distanza dal mondo che aveva scelto di mantenere, provasse indubbiamente il bisogno di confidarsi con qualcuno in quella lingua francese che ormai non parlava più e ascoltai il suo lungo racconto di quei cinque anni di disciplina fisica,morale, spirituale che si era imposto prima di decidersi a una scelta definitiva. Quello che mi ricordavo di quell’incontro nel mio letto d’ospedale,era, più di tutto,la serenità del suo volto, mentre mi confessava la difficile padronanza del proprio corpo, sottomesso a quella ascesa quotidiana, alle rare ore di sonno concesse, agli esercizi e alle meditazioni che scandivano la sua giornata. Come mi agitavo per la sua sorte, mi rispondeva (le sue parole si sono incise per sempre nella memoria): ”Questo non è ancora niente, comincio appena a staccarmi della mia pesantezza. Forse un giorno arriverò a quello stadio che raggiungono solo i nostri grandi maestri: essere indifferenti non solo alla stanchezza, ma al dolore,alla malattia, per quanto grave sia, pericolosa e ineluttabile per come si presenta a chi non sa nulla dei limiti che deve superare.” Sorrideva, credo, parlandomi di quell’anziano monaco,loro superiore, che aveva subito un’operazione a cuore aperto senza anestesia, solo per merito della forza del suo spirito e che era sopravvissuto a questa prova e dirigeva ancora il monastero. Rivedevo ora, rivivevo il suo sorriso, gli occhi che mi fissavano con tenerezza, con pietà forse, per una debolezza che presentiva nel mio sguardo, e il mio dolore di colpo mi appariva familiare,quasi amichevole, ed era, credo, come se quel giovane monaco,venuto dal suo estremo Oriente, si avvicinasse al mio letto, posasse la mano, serenamente, sulla mia fronte.

 

 

stringendo
soffocando la carne

il cubo
assoluto della stanza

È la pelle che ci serve da intermediario tra l’intimità della nostra carne e l’esterno del mondo.
Si emoziona al minimo tocco,vibra,ci comunica il brivido delle onde più impercettibili. E’ come se questo involucro si fosse indurito per tutta l’estensione del corpo. Non offre all’esterno che una superficie rugosa che palpeggio senza una reazione, estranea e lontana, vero avamposto contro ogni genere di sensazione. Non distinguo né il freddo né il caldo, temo che il minimo oggetto mi urti, che la più sottile lama mi graffi, mi ferisca senza provare dolore. Mi coglie lo spavento di essere consegnato a tutti gli affronti dell’esterno. Divento simile a quel dottor Vidriera così come lo inventò Cervantès, che temeva di andare in mille pezzi se un altro lo avesse sfiorato e si chiuse ostinatamente nel suo delirio. Ma io non deliro, io spio ogni minimo movimento e con un’attenzione intollerabile e sempre delusa. Per non soccombere a questa vigilanza parossistica, faccio ricorso ai miei ricordi, come se la memoria conservasse intatte la gioia della pelle quando la mano carezzava il velluto di una pesca o si azzardava a perdersi nella rotondità di un seno femminile prima che l’esaltazione dei sensi mi trasportasse nella sua dolce furia. Ma le immagini, diventate semplici rappresentazioni mentali, non ci delegano al massimo che delle impressioni visuali come se l’occhio,e lui solo, avesse il potere di ricomporre i momenti passati,cancellando dal quadro gli odori, i suoni, il tremito dell’epidermide, tutto lo spessore saporoso del reale. Ma se la pelle non mi propone che un carapace quasi morto, è, per contraccolpo, la pesantezza della carne che si ribella a darmi, un po’ contro i timpani e un po’contro questa mia povera gamba disastrata,dei gran colpi di scalpello, come per farsi ricordare da me, confermandomi che la vita cellulare in ebollizione, si esaspera contro la parete che mi opprime. E comprenda, per il bene e per il male, che sto vivendo ancora un po’.

 

 

7 commenti su “Lucetta Frisa traduce Claude Esteban

  1. lucetta frisa
    06/05/2016

    grazie a Perigeon,anche Claude Esteban vi ringrazia, voi, cari e gentili, di Perigeion!

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  2. francescotomada
    06/05/2016

    Grazie a te per questo prezioso regalo.

    Francesco

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  3. pagale63alessandra
    07/05/2016

    Non ho letto l’originale francese, ma anch’io amo tantissimo tradurre dalle due lingue europee che conosco (il francese stesso e l’inglese) . Da anni apprezzo l’opera di traduzione di Lucetta Frisa per la competenza linguistica e per le scelte, sempre raffinate, e per ciò che io chiamo “la scoperta della musicalità implicita” in un autore. Sono certa, ad esempio che “il sibilo delle sillabe” riproduca una voluta allitterazione, presente – negli stessi versi o altrove – in Esteban. Tradurre è un’arte meravigliosa, che i professori di lingua conoscono, forse soltanto i poeti come Frisa sanno praticare fino in fondo, scavando nelle pieghe del testo, interrogandolo. Tradurre un poeta, da poeta, significa alzare garbatamente il volume quando il testo parla in modalità silenziosa. Un meraviglioso apocrifo. Complimenti, come sempre. Alessandra Paganardi.

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    • ninoiacovella
      07/05/2016

      “Tradurre un poeta, da poeta, significa alzare garbatamente il volume quando il testo parla in modalità silenziosa.”
      Molto bella questa affermazione.
      Grazie Alessandra.
      Nino

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  4. ninoiacovella
    07/05/2016

    Grazie a te Lucetta per la bellezza dei tuoi contributi.
    Nino

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  5. lucetta frisa
    07/05/2016

    non vi sembra di esagerare un pochino? I complimenti-anche sinceri come quelli di amici e splendidi poeti come siete voi,carissima Ale e carissimo Nino. mi imbarazzano sempre un po’ Tradurre è davvero un’impresa presentuosa in sé. Un’esperienza.una prova,un tentativo, un gioco dei pieni e dei vuoti,insomma un compromesso,a volte accettabile a volte meno. Ma sempre un tradimento , un bel tradimento quando è un “meraviglioso apocrifo”. GRAZIE Bisognerebbe leggere tutti gli autori in originale!….

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  6. leopoldo attolico
    10/05/2016

    Ci hai fatto proprio un bel regalo Lucetta, grazie davvero !!
    leopoldo –

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Questa voce è stata pubblicata il 06/05/2016 da in prosa, scritture, traduzioni con tag , , , , .