Roberto R. Corsi
Vedo questi tre inediti di Francesca Mazzotta – che mi son preso la libertà di intitolare con un loro frammento – come miniciclo in cui si ravvisa la volontà di raccontare e raccontarsi contaminando il mito (in questo caso Euridice; il richiamo evidente è al Pavese di Leucò e delle lettere a Fernanda Pivano: ci vogliono miti, universali fantastici, per esprimere a fondo e indimenticabilmente quest’esperienza che è il mio posto nel mondo, scriveva Pavese il 27 giugno 1942).
L’identificazione col mito viene rivelata nella lirica centrale ma è calata prima nel vissuto (il “dirsi comune di scatti con gli occhi” è un compromesso ma, immaginando un Orfeo dall’altra parte, anche una perdita definitiva) e poi nella propria città, qui amica-nemica nelle anse del fiume. In un’altra poesia di Mazzotta ho letto di un teatro, indifferente a se stesso, di nottambuli, insonni, spazzini all’alba; qui in coda trovo invece pietre – “stracci di mura” – e popolo della città nemica con cui fare i conti anche “ricalcando le fattezze dei santi”, cioè – nella mia libera interpretazione – sentendo il peso del passato artistico comparato con l’indefinito presente.
Versi che tratteggiano la dialettica quotidiana tra volontà di arrendersi all’incomunicabilità e al caos, chiudere gli occhi, per poi essere richiamati improvvisamente “In vita per un clacson tra i fanali”. In un moto sentito come “perpetuo non compiersi”, sebbene speranzoso.
Le volute del periodare testimoniano la personalità giovane, ma la sensibilità (anche “canonica”, nell’attenzione – non pedissequa ma vivificata – ai modelli) è chiara. Come dimostrato – ex post rispetto alla stesura di questa nota – dalla recentissima affermazione al Premio InediTO – Colline di Torino, che varrà a Francesca la pubblicazione della sua prima raccolta, comprensiva di questi testi e intitolata Reduci o redenti.
***
Il compromesso, vedi, è anche questo
dirsi comune di scatti cogli occhi
(di luci brevi su specchi lacustri)
che non li so reggere e non mi regge
nessun alibi dietro al nonguardare
Non c’è teatro nella fuga che ci emigra soli.
La mente si sfila come bottone
più spesso, che cade
e il tintinnio è del nome che sfugge
mentre il dramma del troppo immaginare
sta in quel punto cucito che non tiene.
*
Te ne stai tutto inesaudito
stretto all’acciottolato, non sai
cosa significhi il giro del ramo
sfidato all’acqua, ricordi
soltanto un nome dai rovi
Euridice. E addenti
radici amare, non conosci
la via per il futuro,
Euridice. Ritorni ai passi
stesi e ripresi a vuoto, conti
gli spettri, i solchi, un tempo
che ti scava gli occhi.
Le bestie dormono, sai, amore, i sassi
indurano e in me il suono, il corpo
non fanno che stagni di buio.
*
Come lo diresti questo perpetuo
non compiersi nel vortice dei passi
il nostro occhio ha disossato terre
ricalcato le fattezze dei santi
di lune ammanettate ai crinali
di soli provvisori contro i ponti.
In vita per un clacson tra i fanali
vorresti dire meglio la fatica
la resa che ti fa stracci di mura.
E a benedirti l’Arno, una paura
ti freme nella foga di corrente
ti spera ancora madreterna ai mondi.
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Foto gentilmente concessa dall’A.
Bravissima Francesca, complimenti per questi ritagli di prospettive sbilanciate e fragili, per la testimonianza dello sprofondare nel quotidiano amaro e cieco, nel suo continuo sismico smottamento – e noi ad afferrarci al dirsi comune, un intreccio che sfida le correnti.
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Bella la foto panoramicamente parlando e anche le poesie
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grazie Italo. Per la foto ho insistito io con F. perché il volgersi all’indietro (per dirci qualcosa per qualche secondo prima di rimettersi a fissare l’orizzonte) mi ricordava il lavoro (o lavorìo) del poeta… Ahimè la risoluzione non è altissima ma la suggestione valeva un tentativo: lieto dunque che ti abbia colpito. Un saluto
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