di Francesco Tomada
Somiglia più all’urlo di un animale (Italic, 2014), di Alessio Alessandrini, è un libro corposo e segue a sei anni di distanza La vasca (Lietocolle), raccolta vincitrice del Premio Letterario Camaiore Opera Prima. Si presenta suddiviso in tre marcosezioni: Estinzione (L’animale guasto), Terre di mezzo e Estensione (L’animale giusto), a loro volta suddivise in sezioni caratterizzate per lo più da un tema specifico, più evidente in Trasloco o nella finale Origine, ma in ogni caso legate da diversi fili conduttori al punto tale da formare un insieme coeso e coerente. Quali sono questi temi che attraversano, perdendosi e ritrovandosi, la poesia di Alessandrini, che le fanno da scheletro ed ossatura?
Il primo (che poi è un tema comune, ma il valore sta nel modo in cui viene sviluppato) è quello del rapporto dell’individuo con il proprio tempo, e forse più in generale – da una prospettiva quasi filosofica – con il tempo. Alessandrini ha piena consapevolezza della caducità dell’uomo, della “memoria di noi / spaginata nel lento sfarinare delle ore”, e si rende conto che proprio per questo l’esistenza è preziosa nella sua finitezza, e dunque sembra cercare una strada, un percorso che possa lasciare traccia di sé. Una traccia che non sembra definita e forse non esiste eppure è ugualmente necessaria, “non esiste approdo se non nello stesso camminare”, e dunque la differenza risiede forse nel modo e nella forma del cammino. Non di rado, dunque, la visione di Alessandrini – che non deborda nella poesia civile o sociale – sembra uno sforzo teso a conquistarsi la dignità stessa del vivere, così come a rifiutare invece un lento accomodamento in consuetudini che non siano frutto di una decisione responsabile. Non poesia civile, dunque, ma poesia che richiama forte il senso e la necessità di una forte consapevolezza del proprio agire umano, del lasciare un segno, appunto, nel proprio tempo e nel proprio spazio.
Proprio gli spazi sono un altro dei fili che attraversano e racchiudono il mondo poetico di Alessio Alessandrini: molto spesso questi spazi sono rappresentati dal mare, presente o evocato, dalla sua vastità e dal suo muoversi restando comunque immobile; altre volte invece si riduce ad un colore, o ancora al non-colore che li racchiude tutti, il bianco (che non a caso è anche il nome di una delle sezioni), che è idea stessa di ampiezza smisurata e anche sintomo di smarrimento per mancanza di contrasti.
“Occorre prendere aria / uscire sul greto, / guardare un po’ più in là. // Il bianco ora è totale. / Ci tocca riparare. // La poesia è il solo radar / che ci potrà salvare.” La poesia, certo, ha un ruolo salvifico: nell’approccio all’osservazione e alla scrittura Alessandrini ricorda in certi passaggi il primo Magrelli per quanto riguarda la visione limpida, razionale, ma – ben lontano dall’essere un imitatore – se ne distacca quando sembra rendersi conto che quella razionalità non può bastare, ed anzi necessita di qualcosa che la neghi, come illusione o come speranza, più come speranza: “E in questa battaglia campale / con le madeleines del tempo / un reliquiario quotidiano da squamare, / mentre tu sola ed instancabile / dogma che si rinnova / resti e ne sei contraria prova.”
Più della poesia in sé la salvezza è affidata all’amore, dunque, non all’amore utopico e meraviglioso degli adolescenti, quanto a quello maturo di un uomo che sa che l’importante è potersi augurare un domani, e un domani insieme. Che poi questo domani, a cercarlo, a desiderarlo, a volte arriva davvero, quando dall’ombra di un figlio cercato e mai arrivato (L’animale guasto, appunto) appare improvviso, forse inatteso, quel movimento senza ragione che si chiamerà Diego.
Un cenno, infine, è dovuto alla lingua di Alessio Alessandrini. La sua è una poesia formalmente molto compatta e ricercata, ricca di assonanze, rime interne, allitterazioni, e denota una forte consapevolezza formale anche nei momenti in cui va in cerca di vocaboli tipicamente impoetici. Il fatto che una poesia così finemente costruita non risulti artificiosa e sembri piuttosto adagiarsi con naturalezza sui pensieri di Alessandrini, in questi tempi in cui forma e contenuto appaiono spesso in lotta per prevalere l’una sull’altro, è nota di pregio sicuramente importante e fa di Somiglia più all’urlo di un animale un libro degno di molte e attente riletture.
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Genealogie contemporanee
Le autostrade agonizzano di gialli fari,
sagome al buio malcelate,
nebulizzate particelle sui vetri,
sottoboschi di foglie incartapecorite,
si gettano bendate sul lunotto anteriore
e un brumaio di neri passanti
insacca il gelido alogeno delle piazze
con plastificate presunzioni e
conferme di avanzi.
Oggi alla conferenza Ezio
ha dichiarato con autorevolezza che:
È davvero morto il padre.
Il mio lo è da tempo con le nodose rughe
spalmate sul viso e i radi verbosi silenzi.
Io come molti presumo di essere ancora
vivo, almeno per poco, io e il mio
progetto genitoriale in archivio,
sepolto, in letargo, nelle tane.
Francesca parla di amore,
Valentino, intanto, soffia poesie bellissime,
ho deciso di dirglielo, anche se
forse loro sono uno tra i tanti sepolti,
come il figlio mio non nato, e
il padre di cui parlava Ezio,
o il mio, disarcionato,
l’inverno affilato dietro i passanti,
nelle vite abbondanti, intascato
nelle piazze ossidate, nelle auto,
nelle autostrade sanguinanti.
Le sagome intanto nei sottoboschi,
semivivi o semimorti,
celophanati a puntino
le abbiamo occultate.
Eppure io scrivo.
Forse è una lapide che scrivo.
Colazione al caffè Soriano
Piccola poesia calvinista
Atmosfera parigina e naif
attraversando San Benedetto
in una limpida mattina preraffaellita,
così vuota eppure così ingombra
di epifanie: due palazzine liberty
in Via Ugo Bassi al 77 e al 52,
i falsi progetti per un futuro
piccolo borghese, col timore
tutto cristiano di esporsi
troppo alla luce, oltre
la balaustrata di vita
e scoprirsi arresi.
Da dove questo senso di colpa
che portiamo dentro nel confessare
ogni sottile felicità come barocca?
***
Sincronizzare il proprio passo
al respiro del mare,
ricamare l’orlo, la cesura
cedere ermeticamente
l’andatura al suo corteggiare
la spiaggia nuda, esposta
pronta al martirio invernale.
Recuperare un tempo nitido
lasciarlo scivolare inerte
mentre un goffo gabbiano
si adagia docile sulle acque
con il suo solo stare in equilibrio.
Sostare e mormorare un’antica
preghiera a fior di labbra
educare la vocale al suo suono
che rifiuta il dramma,
mentre oltre le spalle
si cancella ogni fiato
e resta una lunga ferita gesuita
così armoniosa da assomigliare
ad una ruga lenta, lunga una vita.
***
Ho pensato poi che avrei potuto iniziare a camminare
lungo questo pezzo di costa, proseguire senza sosta,
una migrazione senza confini, costola dopo costola,
come i mufloni in quel documentario della Disney
che avanzano per chilometri e chilometri sulle loro stesse tracce
sempre in costante processione, percussione.
Un cammino senza soste, eterno, lungo il filo
liso del tempo. Non è poi forse quello che facciamo:
questo correre, schivare colpi, attacchi delle prede
per imbastire un luogo, una residenza dove restare,
una vacanza dove riconoscersi e appendere
finalmente le scarpe al chiodo, non voltarsi.
Ma poi forse il nostro è un continuo navigare
un porto dopo un altro porto, dissepolto,
un parto dopo un altro parto, cesareo,
e non esiste approdo se non nello stesso camminare.
Giorni dell’Apocalisse
Il sublime straborda, sfonda gli argini,
lo percepisci in questa ridda di immagini
ferree, nitide nella loro fedeltà
subliminale: una luna gigante,
la sua perfezione euclidea,
il campanile dal quadrante ocra,
il tempo crepato delle lancette e,
in proiezione, il rosso d’ un semaforo
nella sua durezza più pura.
Semplicemente l’assecondare di strade
ad un qualunque incrocio manifesta
il male, ne offre una porzione,
dietro la curva il mare si inarca al cielo
e lo confonde, semina paura.
Il nonno racconta
Sarà la cataratta azzurro azzurra
o una certa ingordigia di parole
che non si riescono a bloccare e
non possono che scivolare giù
come le tante lacrime, preghiere
negli anta e anta carteggiate;
saranno quelle quattro ossa
scardinate e piegate come giunchi
nei mille punti dove il tempo cede,
mola ciò che doveva molare:
artriti, reumatiti, storture del corpo
che ha dato tutto e ora si contrae;
sarà questa friabilissima letizia
che si muove vigile tra le dentiere,
sarà per la troppa piaggeria
che li circonda e questa storpia
malinconia generazionale;
sarà per queste e altre ingiustizie ancora
che la storia di ieri si è fatta subito favola,
da balbettare a memoria al ragazzo
che guarda, non sa resistere e chiede:
“… dai, nonno, racconta!”
E il nonno racconta, una messe di parole:
la tv, finalmente, messa a tacere.
Totem e tabù
Chissà quante distrazioni,
deragliamenti per avere
questa mappatura saldata nei tuoi abbracci,
quanti nomi cedui, quante epifanie
sbarrate. A volte cingono d’assedio
geografie brevi, di un momento,
fruscii di braccia sfidate
all’ingresso clienti, pendenti
salici di rughe arrossate e occhi
latenti. E in questa battaglia campale
con le madeilenes del tempo
un reliquario quotidiano da squamare,
mentre tu sola e instancabile
dogma che si rinnova
resti e ne sei contraria prova.
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Alessio Alessandrini, Ascoli Piceno 1974, è insegnante di scuola media. La sua prima raccolta La Vasca (Lietocolle, 2008) è risultata vincitrice del XXII Premio Letterario Camaiore nella sezione Proposte Opera Prima. Nel 2014 è uscita presso l’editore Italic-Pequod la sua seconda opera poetica “Somiglia più all’urlo di un animale“, silloge segnalata al XXVII Premio Camaiore e al XXIX Premio Montano. Sue poesie posso essere lette in raccolte antologiche o sul web. Collabora come redattore al progetto editoriale Arcipelago-Itaca Edizioni.
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