di Francesco Tomada
Per quanto abbia in passato ricevuto numerosi riconoscimenti per la propria poesia, il percorso dell’autore friulano Vincenzo Della Mea è sempre stato piuttosto appartato, soprattutto a causa della sua naturale discrezione e di una parsimonia nella scrittura che lo ha portato a pubblicare pochi materiali e a distanziare di anni le uscite fra loro. L’occasione per scoprire, riscoprire o conoscere Vincenzo Della Mea viene data oggi dall’edizione, per Raffaelli, di Storie Naturali – Poesie 1992-2015 –, che è al tempo stesso una nuova raccolta ed una sorta di antologia, in quanto riprende testi tratti da L’infanzia di Gödel (Circolo Culturale di Meduno, 1999) e da Algoritmi (Lietocolle, 2004), alcune sezioni precedentemente edite in plaquette o su rivista, ed altre parti invece del tutto inedite.
Va subito sottolineato come la parsimonia di Della Mea sia in qualche modo garanzia del valore di questo volume, che si annuncia come uno spaccato prezioso sulla sostanza e sull’evoluzione dell’autore nell’arco di oltre vent’anni. Vincenzo Della Mea, inoltre, lavora come ricercatore informatico presso l’Università di Udine, e da sempre è stato molto interessato al rapporto fra poesia e scienza. Non stupisce affatto, dunque, che soprattutto nei testi di L’infanzia di Gödel e ancora più di Algoritmi l’elemento scientifico e matematico diventi predominante: la scrittura stessa, prima di tutto, segue una formula ben determinata dal punto di vista stilistico, con regole metriche e lessicali che si plasmano sul contenuto che spesso è un’analisi razionale del reale. Questo reale, però, pare spesso sfuggire ad una lettura così deterministica, e Vincenzo Della Mea se ne rende conto perfettamente; così molto spesso questa discrepanza si risolve in modo ironico (ma non banale), oppure sfocia in paradossi leggeri soltanto apparentemente, ma che nella sostanza portano in sé implicazioni tali da dischiudere voragini a livello conoscitivo e umano.
Nelle altre sezioni, pur mantenendo la peculiarità di una forte compostezza formale e un approccio che comunque, almeno inizialmente, appare di impronta razionale, la poesia di Della Mea si amplia verso una diversificazione delle forme stilistiche e dei contenuti. Entrano in campo l’attualità con le sue guerre tragiche e l’illusione consolatoria dei centri commerciali, si affacciano spaccati di vita familiare e di infanzia, i legami con la propria terra, e in tutto questo emerge la consapevolezza del proprio stare al mondo come essere comunque finito nel tempo, di quanto si può raccogliere da chi è stato prima di noi e di quanto, invece, si potrà lasciare a chi verrà dopo di noi. La “ferita benigna / aperta dietro lo sterno” che fa fluire l’aria dentro sembra ciò di cui si nutrono queste poesie, che sono in continuità con le altre eppure ne rappresentano un’evoluzione verso il mondo delle relazioni umane e dei sentimenti vissuti in prima persona, anche attraverso il lutto oppure la gioia della paternità. Rimangono ben vive e presenti le caratteristiche della poesia di Della Mea (l’ironia, il paradosso, la sorpresa, lo spaesamento improvviso), anzi emergono ancora con maggiore chiarezza e dettaglio all’interno di un fluire poetico variegato e al tempo stesso unitario.
Storie Naturali – Poesie 1992-2015 – è dunque un libro importante da scoprire passo dopo passo, sia per l’impatto emotivo che è in grado di provocare, sia per la cura nei dettagli della scrittura poetica. In una realtà dove spesso ha maggiore visibilità chi sgomita di più, c’è davvero da augurarsi che questa raccolta possa allargare il numero di estimatori di Vincenzo Della Mea, il che, oltre a rendergli giustizia, finalmente dimostrerebbe che anche con un percorso per certi aspetti isolato si possono ottenere i riscontri che la poesia, quando è di spessore, merita di conseguire.
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dalla sezione Una ferita benigna
Quando ero un ragazzino di montagna
sognavo qualcosa che non ricordo più.
Ricordo però che il solo volerlo
faceva stare bene:
come una specie di ferita benigna
aperta dietro lo sterno
e tanta, tanta aria
che asciugava dentro.
Il rifugio
Il bambino che si era perso
trovato dal padre dettaglia
il lungo percorso e poi il dubbio
il ritorno veloce
l’incontro vicino al rifugio
tornata la madre ritrova
tutte le lacrime raccolte nella corsa
senza parole racconta un’altra versione.
Che lingua è? Eppure
anche noi l’abbiamo parlata.
Al nipotino Michelangelo
Ancora non puoi capire i miei ghirigori sulla carta
allora ti scrivo lettere con la lingua degli animali
con le piccole sfide alla forza di gravità
che ti portano in alto, oltre a me.
Quel che ti scrivo è poco: ricordati sempre
che in questi luoghi senza troppa tragedia
si può vivere senza troppa tragedia
anche se mai del tutto senza.
La tua risposta sono ampi sorrisi e braccia tese
da apprendista ottimista che ha letto solo la prima
metà.
Intanto per me è proprio quel sorriso
che riduce quel poco a qualcosa di meno.
Dalla sezione Algoritmi
Una vita
Nascoste bene dentro il disco rigido
ci stanno sette miliardi di lettere.
Meno di settecento è quant’è lunga
questa poesia, per breve che sia
non più di quel che serve per descrivere
il giorno medio di ozio e iterazione
di un normale funzionario, la cui vita
ariosamente dichiarata arriva
ai venti megabyte. Come dire
niente, ed ancora meno comprimendo
la ridondanza che ci fa uguali
nel ciclo standard dal parto alla morte,
escludendo quel bit che ci distingue
che ci fa valere un nome di file.
Dimostrazione
Non vorrei essere esattamente
come un dimostratore di teoremi
meccanico e pure determinista
che produce sentenze derivate
dai suoi tre assiomi, in continuazione,
senza una passione per l’infinito
che genera né pietà per se stesso
strumento delle leggi della logica.
Eppure per sapere che non sono
mi serve proprio una dimostrazione.
Dalla sezione Storie naturali
La crepa
La crepa è nata chissà come
diresti per caso magari
un differenziale interiore
una tensione nel terreno
un errore di miscelazione
cresce a prima vista insensibilmente
ma se ci pensi
capita per punti discreti
a piccole catastrofi che scopri la mattina
Oracolo II
La finissima filigrana
dell’acido desossiribonucleico
sembrerebbe implicare
tutta la vita potenziale
dell’animale detto Enzo.
Fino al minimo gene
che traduce in proteine
ogni senso della parola
fine.
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