di Giusi Drago
Così io sono casa e corte e impalcatura del pane
e a volte anche una segretissima collina
dove la mia ostilità produce frutti oscuri
affinché i santi possano diventare zingari.
La poesia di Christine Lavant è ribelle e blasfema: mai rinuncia a interpellare Dio, a provocarlo, tanto che la scrittrice può essere annoverata fra le mistiche ed è stata paragonata – per la combattività della sua fede – a Hildegard von Bingen e Teresa d’Avila. Il suo rapporto con il divino è attraversato da un’estrema ambivalenza: invoca Dio e al contempo gli si rivolta contro con sarcasmo. Esce ora in traduzione italiana l’antologia di 81 poesie scelte da Thomas Bernhard e pubblicate presso Suhrkamp nel 1987, 14 anni dopo la morte della poetessa. Anna Ruchat, che ha curato e tradotto con dedizione i testi, scegliendo di non addomesticare le asprezze della lingua originale, identifica nell’“invettiva” lo stilema che anima la scrittura lavantiana e osserva acutamente che tale invettiva sembra “amplificata dall’eco della valle carinziana”. (La Lavant prese infatti il proprio pseudonimo dal fiume che scorre nella valle in Carinzia dov’era nata). Tanto l’arma dell’invettiva – arma di rancore e stridore linguistico, oltre che emotivo – quanto il profondo legame con la Carinzia (che accomuna la Lavant all’altra sua “sorella nella poesia”, Ingeborg Bachmann) contribuirono di certo alla sincera ammirazione nutrita da Bernhard per la poetessa, tanto che lo scrittore, di norma assai poco tenero ed ecumenico nei confronti dei suoi conterranei, volle far conoscere l’opera della Lavant. In una breve nota di presentazione, lo scontroso Bernhard esprime motivazioni e criteri della sua scelta: «Questo libro documenta la cronologia della vita di Christine Lavant che fino alla morte non ha trovato né pace né tranquillità e che nella sua esistenza si è flagellata attraverso la sua persona ed è stata distrutta e tradita dalla propria fede cristiano-cattolica; si tratta della testimonianza elementare di un essere umano strapazzato da tutti gli spiriti celesti … La scelta qui proposta segue solo il mio intento e quello di nessun altro».
Le poesie della Lavant sono state definite da Ludwig von Ficker preghiere blasfeme (Lästergebete), perché in esse non solo si litiga con Dio, ma anche lo si sfida. Certo non si tratta di iperboli, come quelle scagliate contro il cattolicesimo-nazionalsocialista austriaco nelle prose di Bernhard: qui è l’intera sensibilità religiosa e l’intero linguaggio della Lavant a essere tormentato e, a tratti, stravolto dallo scandalo del male e niente giustifica Dio rispetto alla presenza e alla permanenza del male nel mondo. Mi sembra che il problema della teodicea sia pressante nell’opera della Lavant, anche se non viene enunciato con i toni pacati e logicamente cogenti di Epicuro, che per primo sottolineò il paradosso che lega Dio al male. Ascoltiamo le riflessioni dell’antico filosofo materialista: «La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; o non vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisogna ammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione di divinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmente estraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insieme impotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa conveniente alla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?» (Epicuro, frammento 374)
Negli appunti da un manicomio, resoconto che Christine Lavant scrisse dopo aver trascorso sei settimane in manicomio (dove lei stessa chiese di essere internata in seguito a un tentato suicidio), la questione suona così: «Perché se esistono gli angeli, a nessuno di loro spetta il compito di impedire che sulla terra avvengano cose che dovrebbero accadere solo nell’inferno più profondo? Ora scrivo queste cose usando parole normali, le scrivo come qualsiasi altra cosa, ma dovrei togliere dai muri una pietra dopo l’altra e scagliarle contro il cielo ad una ad una, affinché esso si ricordi di avere dei doveri anche nei confronti di chi sta sotto di lui. Forse con ognuna di queste parole finisco per dannarmi, ma il fatto che io scriva alla fin fine è una cosa prestabilita. Alcuni devono costruire ponti, altri dare alla luce bambini o tradurre in suoni le cose che hanno dentro di sé, da qualche parte qualcuno forse dipinge un quadro e a ogni pennellata si odia di più, ah, noi tutti andiamo nella direzione in cui siamo stati lanciati. Pietre! Pietre! Pietre!»
A proposto delle pietre lanciate in aria e della libertà umana, viene in mente la riflessione di Spinoza, secondo il quale chiunque creda nel libero arbitrio somiglierebbe a una pietra che, lanciata in aria, pensasse di essere lei stessa la causa del proprio movimento, e si credesse libera di muoversi. «Così il neonato crede di desiderare liberamente il latte, e il ragazzo adirato di voler la vendetta e il timido la fuga. Inoltre l’ubriaco crede di dire per libera decisione della sua mente quelle cose che poi, da sobrio, avrebbe voluto tacere. Così chi delira, il fanfarone e molti altri della stessa risma credono di agire per una libera decisione della mente e non già perché spinti dall’impulso. E poiché questo pregiudizio è innato in tutti gli uomini, non è così facile che se ne liberino. Infatti, benché l’esperienza insegni più che a sufficienza che gli uomini nulla possono controllare meno dei loro appetiti e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono le cose migliori e seguono le peggiori, credono tuttavia di essere liberi» osserva Spinoza nella celebre lettera LXVIII a Schuller.
Se nella testimonianza in prosa le pietre sono in movimento, grattate via dai muri o lanciate da chissà quale mano lungo una precisa traiettoria, ben altro ruolo hanno in una poesia molto bella, e che considero una sorta di manifesto poetico dell’autrice. Christine Lavant dichiara dapprima con forza la sua parentela con i vinti di ogni tempo storico (Voglio condividere il pane con i pazzi/ogni giorno un pezzo di questo grande orrore) per poi descrivere con grande forza sintetica la sua condizione di sottomissione e inerzia (A lungo ho vissuto come pietra /sul fondo delle cose) giungendo infine a comprendere che, se si vuole sperimentare in terra un inizio di redenzione, non solo occorre estirpare la staticità e l’intransigenza della propria postura nei confronti del mondo, ma anche levare una rabbiosa protesta contro la miseria. Solo così, superando la paura causata dal suono tripartito del nome di Dio (trinitario), si potrà davvero condividere il pane con i pazzi, i marginali.
A lungo ho vissuto come pietra
sul fondo delle cose
…
Imparerò a volare e a nuotare
e lascerò tutto ciò che è pietra sotto la pietra
…
ma solleverò in alto la rabbia e la miseria
…
Voglio condividere il pane con i pazzi
là, nella spaventosa selva del colombo
dove la campana divide in tre parti il grande terrore
trasformandolo nel suono tripartito del tuo nome.
Nella sua introduzione all’edizione italiana del volume di racconti Nell, la scrittrice e poetessa Marica Bodrožić scrive: «In Christine Lavant è difficile trovare la leggerezza, intesa sia come parola che come condizione. Nei rari casi, essa cela in sé la pesantezza caratteristica della scrittrice. Se è mai possibile attingere la leggerezza, il sollievo, è solo Dio che ha il potere di offrirli […] La scrittrice annotò una volta di avere paura delle proprie poesie, e anzi dell’arte in generale. Non era cosa per lei, si era trattato solo di un incomprensibile interludio. Eppure ciò sembra dipendere proprio dal suo desiderio di raggiungere la felicità esistenziale almeno tramite l’opera letteraria, e attingere l’essere oltre il linguaggio».
Poesie
Du hast mich aus aller Freude geholt.
Aber ich werde dennoch genau,
ganz genau, nur so lange darunter leiden,
als es mir selbst gefällig ist, Herr.
Du hast mich im Zustand der wildesten Hoffart
und des zornigen Mutes vor dir.
Heb deine Hand und schlage mich nieder,
ich werde dann nur um so höher springen,
und du wirst mich ewig vor Augen haben,
den kleinen, roten, zornigen Ball.
Jede Stelle wirft mich zu dir zurück,
weil du mich von jener einzigen Stelle,
wo ich Herz war und freudig und weich wie ein Vogel,
wegholtest, um mich zusammenzuballen
und ins ewige Leiden zu werfen.
Mi hai strappato fuori da ogni gioia,
ma io ne soffrirò soltanto,
solo e unicamente, finché
ne avrò voglia, Signore.
In uno stato di ferocissima superbia
e furibonda audacia ti sto davanti.
Solleva la tua mano e fustigami,
vedrai che salterò sempre più in alto
e tu mi avrai davanti agli occhi in eterno,
una piccola sfera rossa e rabbiosa.
Ogni punto mi scaglia indietro verso di te
perché tu mi hai strappato via da quell’unico punto
in cui io ero cuore, gioiosa e tenera come un uccello,
per poi appallottolarmi
e scagliarmi nel dolore eterno.
***
Wo treibt mein Elend sich herum?
Ich habe es sehr streng behandelt
und durch und durch fast umgewandelt,
beim Abschied war es fremd und stumm.
Sein Haar stieg steil und ganz ergraut
in jene Richtung, die ich wollte,
den Stein, der mir vom Herzen rollte
hat es im Gehn noch weichgekaut.
Dies war wohl kein sehr gutes Brot
jetzt könnt ich ihm ein beßeres kneten!
Mein Wille hat ein Korn zertreten
inmitten dieser Hungersnot.
Doch wer ißt gern für sich allein?
Wenn nur mein Elend wieder käme
und mir den Zorn vom Munde nähme,
um auch so gründlich satt zu sein
Dov’è finita la mia desolazione?
Sono stata con lei molto severa
e l’ho quasi del tutto trasformata
nel momento dell’addio era straniera e muta.
I suoi capelli salivano erti e tutti grigi
nella direzione da me voluta
e andandosene ancora masticava
la pietra che mi rotolava via dal cuore.
Quello non fu certo un ottimo pane
ora gliene potrei impastare uno migliore.
La mia volontà ha schiacciato un chicco di grano
nel pieno di questa carestia.
Ma a chi piace mangiare da solo?
Se soltanto tornasse da me la mia desolazione
e mi togliesse la rabbia dalla bocca
allora sì che anch’io sarei davvero sazia!
***
Vergiß dein Pfuschwerk, Schöpfer!
Sonst wirst du noch zum Schöpfer
an dem, was Leichnam ist und bleibt
und sich der Erde einverleibt
viel lieber als dem Himmel.
Geh, kleide weiter Lilien ein,
ätz Sperlinge mit Honigseim –
ich leb von Rost und Schimmel.
Du meinst, das macht mich noch nicht satt,
und faselst von der Gottesstadt,
die viele sich erfasten.
Ich nicht! Ich wohne gern im Lehm,
um Stein zu werden und trotzdem
dich niemals zu belasten.
Dimentica il tuo ciarpame, Creatore!
O sarai creatore
di ciò che è cadavere e lo rimane
e si unisce alla terra
ben più volentieri che al cielo.
Vai, continua ad ammantare i gigli
corrompi pure i passeri con il miele vergine –
io vivo di ruggine e muffa.
Tu dici che questo non mi sazia
e blateri della città di Dio
che molti conquistano con il digiuno.
Non io! Mi piace vivere nell’argilla
per diventare pietra e tuttavia
mai esserti di peso.
***
Verschriener Tod, für mich bist du so schön!
Schon morgens denk ich dich als Hütte aus,
in die ich einziehn werde schon am Abend,
und daß ein Stern darüber scheinen wird.
Nicht einmal vor dem Umzug hab ich Angst!
Man wird zwar viel vorher verbrennen müssen,
den Leib gewiß mit allen seinen Süchten
und von der Seele das, was sie sich hier
zusammentrug an Mut und Freudigkeit.
Nur meine Liebe, Tod, die bring ich mit!
Für die mußt du, wenn du mein Obdach bist,
den besten Winkel meiner Hütte richten
und, wenn es sein kann, baue auch ein Fenster,
damit der Stern, der gute, den ich meine,
ihr dort zu Diensten geht mit allem Trost,
den ich ihr hier niemals hab’ geben können.
Morte diffamata, per me sei così bella!
Già di mattino ti penso come la mia capanna,
dove la sera mi trasferirò,
e penso che sopra la capanna brillerà una stella.
Nemmeno del trasloco ho paura!
Certo, prima bisognerà bruciare molto,
prima di tutto il corpo con tutte le sue brame
e dell’anima ciò che qui s’è accumulato
in fatto di coraggio e di allegria.
Solo il mio amore, morte, lo porterò con me!
Per lui, se davvero sei il mio rifugio,
dovrai preparare l’angolo migliore della mia capanna,
e se possibile mettici anche una finestra,
perché la stella, la buona stella di cui parlo,
lo possa colmare di tutta la consolazione,
che qui non gli ho mai potuto dare.
***
Nur des Schlafes wilder Nebenzweig,
ein Bastard, von Drogen großgezogen,
nimmt sich manchmal meiner Seele an.
Zwei Mißbrauchte dienen dann einander,
trösten das, was noch zu trösten ist,
und verbergen gütig, was sie wissen.
Halbe Träume stellen sie ins Leben,
wächserne und ohne Angesicht,
ohne Anspruch auf Geduld und Pflege,
schmelzend schon beim ersten Hahnenruf.
Aber dennoch sind es kleine Söhne,
notgetaufte, alle dem geweiht,
der dies Paar einander preisgegeben
wie zwei Sklaven oder Straßenköter,
während sich der gute Edelschlaf
nur zu hochgebornen Seelen legt.
Solo un ramo secondario del sonno,
selvaggio e bastardo, allevato dalle droghe
si prende cura a volte della mia anima.
Due esseri abusati a servizio l’uno dell’altro,
consolano quel che ancora va consolato
e benevoli nascondono ciò che sanno.
Mettono al mondo sogni dimidiati
cerei e senza volto
ignoranti di pazienza e cura
sciolti già al primo canto del gallo.
E tuttavia sono figli piccoli
battezzati di corsa, tutti consacrati
a colui che li ha sacrificati entrambi
come due schiavi o cani randagi
mentre il buon nobile sonno
si corica soltanto con anime illustri.
***
Erde, wenn du zwei Lippen hättest
und eine Zunge und eine freundliche Stunde,
würdest du dann mit mir reden mögen
auch jetzt noch, wo ich mein Stümpfchen Verstand
wütend unter die Schneeflocken trete?
Erde, würdest du lachen?
Ich habe mit deiner Freundschaft geprahlt
und erzählt, daß ich oft bei den Wurzeln wohne
und mit den Steinen über das Wetter rede
und imstand bin, dein Blut zu besprechen.
Das Lügen – weiß du – war wie eine Krankheit
die man oft vor großen Seuchen bekommt
und mein Herz hat mir immer alles geglaubt.
Jetzt ist es verseucht und schreit bloß nach dir,
will früher nicht sterben, will keinem sonst sagen,
was es im Sinn hat, womit es sich quält
und wen es am Ende noch segnen möchte.
Erde, nimm meine Zunge an,
Erde, bitte, und meine Lippen!
Rede unter den Schneeflocken her
von der warmen währenden Liebe.
Terra, se tu avessi due labbra
e una lingua e un’ora gentile
vorresti allora parlare con me
anche ora che schiaccio rabbiosa
il mio moncone d’intelletto sotto i fiocchi di neve?
Terra, rideresti allora?
Mi sono vantata della tua amicizia
e ho raccontato che vivo spesso accanto alle radici
e che parlo del tempo con i sassi
e che sono in grado di condizionare il tuo sangue.
Mentire, sai, era come la malattia
che spesso precede le grandi epidemie
e il mio cuore mi ha sempre creduto.
Ora è stato contaminato e non fa che chiamarti,
non vuole morire prima, non vuole dire a nessun’altro
ciò che ha in mente, che lo tormenta,
e chi alla fine vorrà benedire.
Terra, accetta la mia lingua,
terra, ti prego, e le mie labbra!
Spargi la voce sotto i fiocchi di neve
racconta dell’amore caldo e duraturo.
***
Ich will allen Kränkungen gut in die Augen schaun,
ihnen sagen, daß es nichts Heilloses gibt
und daß keine von ihnen mich wirklich kränkte,
weil immer wieder der Spiegel der Demut
zusammenwuchs hinter ihren Schlägen.
Am meisten muß ich die ersten trösten,
die, welche Gott über meine Kindheit
aus anderen Kindheiten niederwarf
in das winzige Beet meiner Liebe.
Jetzt ist die Zeit der Vergebung da.
Entweder ist es, weil ich jetzt sterbe,
oder weil alles dem Tod verfällt,
was mein Leben ernährte.
Vielleicht steht die Freude vor meiner Tür,
eine ganz kristallene, harte Freude
aus der innersten Stärke der Erde?
Ehe sie eintritt, muß ich die Münzen der Stillung
auf die Augen aller Kränkungen legen,
und ihnen gänzlich vergeben haben
erschütterten Herzens.
Vorrei guardare bene negli occhi tutte le offese,
e dire loro che niente al mondo è privo di salvezza
e che nessuna di loro mi ha offeso davvero,
perché ogni volta lo specchio dell’umiltà
cresceva dietro i loro colpi.
Più di tutto devo consolare le prime
quelle che Dio ha gettato sulla mia infanzia
da altre infanzie
nella minuscola aiuola del mio amore.
Ora è arrivato il tempo del perdono.
Sarà perché sto per morire,
o perché tutto ciò che nutriva la mia vita
cade nelle mani della morte.
Forse la gioia è davanti alla mia porta,
una gioia cristallina e dura
che viene dalla forza più profonda della terra?
Prima che arrivi, devo mettere le monetine della pace
sugli occhi di tutte le offese
e aver completato il perdono,
con la commozione nel cuore.
***
Ich will vom Leiden endlich alles wissen!
Zerschlag den Glassturz der Ergebenheit
und nimm den Schatten meines Engels fort.
Dort will ich hin, wo deine Hand verdorrt,
ins Hirn der Irren, in die Grausamkeit
verkümmerter Herzen, die vom Zorn gebissen
sich selbst zerfetzen, um die tolle Wut
hineinzusteuern in das Blut der Welt.
Mein Engel geht, er trägt das Gnadenzelt
auf seinen Schultern, und von deiner Glut
hat jetzt ein Funken alles Glas zerschmolzen.
Ich bin voll Hoffart und zerkau den stolzen
verrückten Mut, mein letztes Stücklein Brot
aus aller Ernte der Ergebenheit.
Du warst sehr gnädig, Herr, und sehr gescheit,
denn meinen Glassturz hätt ich sonst zerschlagen.
Ich will mein Herz jetzt mit den Hunden jagen
und es zerreißen lassen, um dem Tod
ein widerliches Handwerk zu ersparen.
Du sei bedankt – ich hab genug erfahren.
Voglio finalmente sapere tutto del dolore!
Rompi la campana di vetro della devozione
e porta via l’ombra del mio angelo.
Voglio andare là, dove la tua mano rinsecchisce
nel cervello dei pazzi, nella crudeltà
di cuori rattrappiti che, morsi dall’ira,
si lacerano da soli per spargere la rabbia
nel sangue del mondo.
Il mio angelo se ne va, con la tenda della grazia
sulle spalle, e una scintilla delle tue braci
ha fuso ora tutto il vetro.
Sono colma di superbia e rumino il coraggio
pazzo e borioso, l’ultimo pane che mi resta
da tutto il raccolto della devozione.
Sei stato molto benevolo, Signore, e molto intelligente,
perché senza di te la campana di vetro l’avrei rotta io.
Adesso voglio dare la caccia al mio cuore con i cani
e farlo sbranare, per risparmiare
un lavoro ributtante alla morte
Sia grazie a te – ora ne so abbastanza.
NOTA BIOGRAFICA (tratta dal saggio introduttivo a Nell di Marica Bodrožić)
La scrittrice nacque nel luglio 1915 in Carinzia, in un remoto villaggio presso St. Stefan, nella Lavanttal. La sua famiglia era estremamente povera: il padre lavorava in miniera, e c’erano già altri otto bambini. Più tardi assunse il nome della valle natia, dove risiedette costantemente, con la sola eccezione di un biennio, fino alla morte avvenuta nel 1973. Vinse numerosi premi (fra cui il Georg Trakl-Preis per la lirica nel 1954 e nel 1964 e il Große Staatspreis für Literatur nel 1970), ma non trovò mai, come scrisse Thomas Bernhard, riposo né pace.
La Lavant dovette ben presto percorrere tutte le dolenti stazioni della miseria e della malattia. Da piccola sopravvisse per un soffio a una violenta forma di tubercolosi, e fu colpita da scrofolosi, malattia che la condusse quasi alla cecità. Gli effetti deformanti sulla pelle e sui linfonodi ebbero conseguenze soprattutto sul viso e sul collo.
Ventenne, tentò il suicidio e fu poi ricoverata per sei settimane nel manicomio di Klagenfurt. Il suo libro Aufzeichnungen aus einem Irrenhaus è lo studio letterario della permanenza in quell’istituto, da lei desiderata personalmente, a quanto sembra senza un parere medico. Le fu somministrata la cosiddetta cura dell’arsenico, ma – come è stato scritto – il ricoverò le offrì solo la possibilità di confrontarsi con le sofferenze dei malati psichici, non quella di guarire. È facile immaginare, anzi, che incontri del genere abbiano addirittura acuito l’orrore della disperazione. Ma il mondo di immagini cristiane della scrittrice ne ricavò solo una tonalità di fondo ancora più intensa.
(Il frammento 374 di Epicuro è citato nella traduzione di Margherita Isnardi Parente, la lettera a Schuller di Spinoza nella traduzione di Andrea Sangiacomo. Appunti da un manicomio è stato tradotto da Elena Polledri, Forum, Udine 2008.)
Anna Ruchat è nata a Zurigo nel 1959. Ha studiato filosofia e letteratura tedesca a Pavia e Zurigo. Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Victor Klemperer, Mariella Mehr, Werner Herzog, sono tra gli autori che in molti anni di attività ha tradotto dal tedesco. Insegna alla Scuola europea di traduzione del Comune di Milano. Dal 2002 si occupa della gestione dell’Archivio del poeta Franco Beltrametti. Nel 2004 è uscita la raccolta di racconti In questa vita. Nel 2005 ha pubblicato il volume di poesie Geografia senza fiume e, in collaborazione con la fotografa Elda Papa, il racconto Il male minore. Per le Edizioni effigie dirige insieme Domenico Brancale una nuova collana di poesia “Le Meteore” che pubblicherà autori stranieri, viventi e non, che non siano ancora o non siano più presenti nell’editoria italiana. I primi due volumi della nuova collana sono: Christine Lavant, Poesie scelte da Thomas Bernhard (traduzione di Anna Ruchat) e Claude Royet-Journoud, Le nature indivisibili (traduzione di Domenico Brancale).
Felice di conoscere una poeta così aspra e decisiva…
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Se non si ha un rapporto conflittuale col padre, allora con chi lo si deve avere? Altro che blasfemia! Questa è poesia con tutte le cinque lettere maiuscole, profonda e inaudita!
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Un dono immenso
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grazie, un gran bel dono!
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L’ha ribloggato su almerighi.
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Letto avidamente. Una poeta urticante e soave, non è un caso che piacesse a bernhard
Grazie, perigeion
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