perìgeion

un atto di poesia

Lavoro da fare, di Biagio Cepollaro

 

Presentazione standard2

 

di Eugenio Lucrezi

 

Una parola lunga come dura la vita. Il “lavoro da fare” di Biagio Cepollaro.

È uscito, per iniziativa dell’editore Fabrizio Bianchi, direttore della Dot.com Press Poesia, un libro di carta intitolato Lavoro da fare, corredato da un saggio di Andrea Inglese (intitolato Alla ricerca di una possibile concretezza) e da un’appendice recante uno scritto di Giuliano Mesa, una corrispondenza dello stesso con l’autore e una riflessione critica di Florinda Fusco. Quest’ultima aveva scritto, undici anni fa, la postfazione del libro al tempo della sua prima pubblicazione, che avvenne in formato e-book in una delle prime collane di poesia italiana in PDF che il nostro paese ricorda, autoprodotta da Cepollaro e da lui curata insieme ad una pluralità di autori quali la stessa Fusco, Francesca Genti, Marco Giovenale, Andrea Inglese, Giorgio Mascitelli, Giuliano Mesa e Massimo Sannelli.

In un altro e-book uscito nella stessa collana vennero a suo tempo raccolti alcuni dei non pochi contributi critici che quell’uscita accompagnarono; questo libro cartaceo è stato dunque già letto, più che adeguatamente; la gratuità del regalo di Bianchi riporta dunque il lettore di poesia indietro nel tempo, ad altezza degli anni (2002 – 2005) immediatamente successivi alla svolta di Versi nuovi (Oèdipus 2004, scritto però tra il 1998 e il 2001); al periodo, pertanto, intermedio tra la progettualità “giovanile” dell’autore e i percorsi successivi. Tale riconduzione non appare inutile, come accade tutte le volte che si rileggono testi nutrienti, scritti per non bastare a se stessi.

La primissima presentazione al pubblico di questa versione cartacea è avvenuta a Napoli, presso la libreria “Evaluna” di Lia Polcari, sabato 21 marzo: insieme all’organizzatrice Viola Amarelli e all’autore, che ha letto, era presente, oltre a chi scrive, Angelo Petrella, uno scrittore e critico il quale, essendo attualmente impegnato in un lavoro di riconsiderazione complessiva del lavoro di Biagio, ha detto cose assai interessanti. Le svelte considerazioni che seguono derivano da appunti da me approntati per tale occasione; li porgo a Perigeon, per così dire, in bella copia, aumentati di qualche approfondimento che integra il discorso intrapreso in libreria e arricchisce il dialogo, che dura ormai da tempo, con l’autore e il correlatore. Il testo che qui si legge è dunque un testo nuovo, come sempre succede, per fortuna, scrivendo dopo essere stati a ragionare assieme ad altri.

Il lavoro artistico di Cepollaro, visto nel suo complesso, consiste nella fabbricazione di un vasto sistema poematico che attraversa il tempo in un tragitto, a questo punto certo, che dalla complessità si inoltra sempre più in direzione della spoliazione del racconto figurale e dunque della semplicità del dettato. Il suo, come dice un verso di questo libro, è un poema «solo di una parola / lunga come dura la nostra vita»: parte, con la trilogia De requie et natura (1985 -1997: da Scribeide a Fabrica, passando per Luna persciente), utilizzando il linguaggio artificioso per raccontare la natura artificiale dei paesaggi umani del suo tempo e le deformazioni percettive che induce. La lingua viene deformata per forza, nel senso che l’intenzione realistica (politica) del racconto non può che farsi linguaggio petroso ed ostile (Guglielmi) se di quelle deformazioni vuol dar conto, non può che evidenziare il dettato attraverso la complicazione del verso (Lorenzini). Il risultato è un “pastiche idiolettico” inventato e adottato ad efficace contrasto dell’estetizzazione di massa con la quale si fa bella la società postmoderna.

Ma già in Fabrica, che esce per Zona nel 2002, viene rilevato (Mesa) che Cepollaro, avendo preso atto della crisi radicale dell’avanguardia, si sgancia dalle punte aguzze dell’espressivismo, lascia la matericità del linguaggio e si avvia a saggiare il concreto dell’umana esistenza. Si tratta, a dirla in breve, di fare la conta dei danni inferti e subiti, di misurare i perimetri del cortocircuito innescato dall’irreversibilità dei processi di antropizzazione dell’intera natura avviati dalla civiltà occidentale fin dai suoi albori: civiltà che, nel mondo a propria immagine ridotto, trova oggi, piuttosto che l’estasi rispecchiante di un compimento, le ragioni ineludibili di un impazzimento. Ché anche l’uso dei superlinguaggi delle arti può star lì a sancire la mutazione disperata della specie sapiens sapiens., che si è ritrovata (ecco il cortocircuito) ad aver fatto da innesco e insieme, alla fine, da bersaglio della mutazione stessa.

In Versi nuovi (Oèdipus 2004), che Giulia Niccolai definisce esercizi di silenzio e di ascolto, la conversione si compie e l’atteggiamento (Inglese, Mesa) si fa meditativo, devozionale nei confronti della humilitas inerme della creatura. La forma vera – scrive a ragione Giuliano Mesa nella prefazione del libro – è quella della voce esteriore. Ed è un bel salto, per uno cresciuto nella culla dell’avanguardia come Cepollaro, quello dal veleno contaminato dei codici al tepore e agli affanni del fiato.

È questo il passaggio dalla lingua pensata alla lingua parlata, dal linguaggio quale forgia dell’intelligenza astratta alla sostanza relazionale e dialogica del discorso, al logos nell’accezione che gli vuole dare Aristotele nella Retorica, dove l’“umano” trova qualifica di vivente che ha il logos: che non è, appunto, Ragione, non Linguaggio, ma concreto parlarsi dei viventi gli uni con gli altri, e dunque innanzitutto funzione dell’ascolto, degli altri e del sé. Terreno del discorrere tra umani è l’agorà, ambito dei suoi svolgimenti è la doxa-opinione, entità in divenire perenne che è discorso dei discorsi, laboratorio e insieme punto di partenza e di arrivo di una convivenza che non è più ferina lotta di sopraffazione, di dominio del territorio.

Cepollaro non può non avere meditato sulla Retorica, in particolare sui passaggi che individuano nelle passioni − nella paura, in primis− l’effettivo motore che induce l’umano al discorso: non si tratta di stati psichici ma di tonalità emotive del corpo; non sono acquisizioni ultime dell’evoluzione ma retaggi ancestrali. C’è molto più Jung che Freud in questa visione (aristotelica; classica; antichissima) che riconosce nelle passioni i fondamenti “biologali” (Zanzotto) dell’essere nel mondo a confronto coi simili: ed eccoci a Lavoro da fare, che comincia − ha rilevato Mascitelli − con la descrizione di un attacco di panico. Rivolgendosi a un tu che si può leggere come un , lo scrivente sa che deve scrivere per scampare. A cosa? Innanzitutto ad una condizione di vita costretta nell’immobilismo difensivo: fare il morto per paura della morte. Lo scampo consiste invece (Inglese) nel lavoro di liberazione dalle afflizioni della mente: la paura, passione ancestrale, fa scattare l’atteggiamento logoico di cui si diceva, che si rivolge al corpo; è il corpo che sente «il cappio al collo» e va salvato. Il lavoro da fare è fare anima, frequentare la folla dei demoni, che va ammaestrata così come la folla di presenze in carne e ossa che ci sta intorno nell’agorà: entrambe ci circondano e ci fanno paura, entrambe sono entità vociferanti con cui lottare per non essere sopraffatti. La paura ci ha snidati, l’anima si fa avanti e si muove insieme al corpo con cui fa tutt’uno. Questo rivolgimento all’esterno, doloroso come uno svisceramento, ci mostra che nessuna presenza esterna ci protegge dall’alto. La fede, che è fiducia in un padre benevolo cui consegnarsi ad occhi chiusi nel nudo della nostra inermità, non c’è più, ed occorre cercare altri appigli. Quando si è giovani – ci dicono questi versi –si cerca in molte direzioni, il più delle volte a casaccio. Nel «meriggio della vita», invece, l’esperienza della sofferenza indica percorsi più individuati, e il dedalo ubriacante delle possibilità arretra, sullo scenario degli spazi esterni.

Cepollaro con questa scrittura ci cammina e ci corre. I suoi versi si flettono sulla carne del corpo così come l’archetto di un violino sulle corde vibranti e sul corpo di legno che dà loro sostegno: ma il canto di una voce sola non basta a se stesso, porta indietro nel tempo fino allo spossessamento dell’ego, che si ritrova voce insufficiente in una pluralità di suoni; noi non siamo nostri, il canto trova casa in un coro stridente e disarmonico, antico nella sfigurata origine dove il giorno e la notte, nell’avvicendarsi, si contrastano. È il regno della paura, dove i versi smettono di camminare e si mettono a correre per non dare requie al cadavere che si portano addosso; correre all’indietro fino all’animale: più s’invecchia, più si è vicini all’origine, l’animale e il puer hanno la stessa faccia.

Abbiamo detto che in questo libro il logos non è intelletto e che il pathos non è affetto. La duplice rinuncia all’esercizio intelligente della forma e alle scorciatoie illusoriamente salvifiche della psicologia lascia intravedere un’altra via, dimenticata dalla modernità (e potentemente classica): la via di una salute più piena consiste nell’avvicinare la follia, capace di aprire usci di cui avevamo da tempo smarrito le chiavi: aperti i quali, è possibile che un «senso buono» tolga forza alla paura e dia accesso al vivere. Si tratta di smettere di galleggiare per intraprendere la navigazione che ci porta a fare pace con le nostre miserie. E non è un caso che solo a questo punto del libro (siamo all’altezza della V parte del poema, che si articola in otto lasse, forse canti) fa capolino, nei versi, il “linguaggio artificioso”: linguaggio che solo dopo che lo scrivente ha iniziato a fare i conti con le parti malate del sé riesce a generare significati per forza sua propria, attraverso figure propriamente sue.

Ad acque ormai mosse, anche i richiami all’antico, al mitologico e al fantastico si animano, lasciano le quinte gelide della spettralità e trovano energia per invenzioni nuove; come accade nel racconto “rovesciato” della Ifigenia in Aulide e nelle narrazioni, veramente potenti, dei primi cristiani che pregano nei luoghi nascosti del loro culto cantando il puro senso di una parola divina che è anch’essa arretramento all’origine della significazione.

La poesia, alla fine del poema, non esiste più. Resta la consapevolezza di un trascorrere finalmente vivido in un mondo che non ha più racconto; resta una parola lunga come la vita; resta il lavoro da fare: giungere alla porta del ritorno e della restituzione.

Lavoro da fare, Dot.com Press, Milano, 2017

 

Biagio Cepollaro (Napoli,1959) è poeta e artista visivo. Promotore del Gruppo 93, co-fondatore della rivista Baldus (1990-1996), è stato tra i primi in Italia a pubblicare e-book di poesia. Tra le opere di poesia: Le parole di Eliodora, Forlì, Forum, 1984; Scribeide, Piero Manni, Lecce, 1993; Luna persciente, Carlo Mancosu, Roma, 1993; Fabrica, Zona editrice, Genova, 2002; Versi nuovi, Oedipus edizioni, Salerno-Roma, 2004; Lavoro da fare, e-book 2006; Le qualità, La camera verde, Roma, 2012 e La curva del giorno, L’arcolaio, Forlì, 2014. Sito archivio: www.cepollaro.it Blog www.poesiadafare.wordpress.com

8 commenti su “Lavoro da fare, di Biagio Cepollaro

  1. poesiadafare
    27/03/2017

    L’ha ribloggato su poesiadafare.

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  2. francescotomada
    27/03/2017

    Sono felicissimo di questo libro. Ho conosciuto Biagio e la sua scrittura in tempi relativamente recenti, e al di là del rapporto di affetto e di riconoscenza che nutro per lui, ho scoperto con colpevole ritardo un percorso poetico di grandissimo valore e in continua evoluzione.
    Non aggiungo altro perché non riuscirei ad essere equilibrato.
    Sono molto, molto contento, tutto qui.

    Francesco

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  3. Peccato non si possa acquistare tramite amazon. L’editore, ahimè, non risponde alle richieste…

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  4. Davvero funziona? Il fatto è che ci stanno provando in molti per il mio libro edito con dotcompress, ma senza ricevere risposta.

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  5. poesiadafare
    06/04/2017

    Grazie a Amara, Francesco e Nino, a Eugenio e a Perigeion per l’ospitalità e l’accoglienza. So che il libro è in ristampa e forse già da oggi potrebbe essere disponile all’indirizzo info@dotcompress.it. Per leggere le diverse riflessioni scaturite dalla lettura di Lavoro da fare rivolgersi alla pagina dedicata del blog Poesia da fare https://poesiadafare.wordpress.com/lavoro-da-fare-dot-com-press-2017/

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  6. Riproverò a richiedere il libro, spero con maggior fortuna. ho davvero molta voglia di leggerlo per la stima che nutro per Biagio e per la sua scrittura.

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