perìgeion

un atto di poesia

Su “Temeraria gioia” di Eleonora Rimolo

 

 

 

 

 

di Giorgio Galli

Mi attraggono solo gli spiriti non pacificati. Nel mio vagabondaggio letterario mi sono interessato ai Charms, agli Erofeev, agli Andrić, oppure a scrittori riservati, quasi segreti, che hanno fatto della loro opera un cantiere perché l’hanno fatta lontano dagli sguardi. Eleonora Rimolo, apparentemente, non c’entra con queste creature senza pace. A venticinque anni e con quattro pubblicazioni alle spalle, le foto la mostrano nel pieno sorriso della sua gioventù, e il suo curriculum di assistente universitaria farebbe pensare a una giovane appagata. Ma i versi di Temeraria gioia dicono che non è così. Versi di una poetessa-ostrica, che nasconde in un guscio di parole e suoni altre parole e suoni, che lacerano il guscio e poi tornano a nascondersi. Eleonora cerca la pienezza del suo dire, e lo fa con una serietà, una coerenza, una complessità architettonica e tematica che la salvano dalle tentazioni diaristiche, le permettono di filtrare l’emozione attraverso i classici e di fuggire le vie brevi. C’è una grande cura per il suono in queste poesie, un suono levigato e teso ma mai superficialmente tempestoso. Forse a volte anzi eccede in vigilanza, mostra le linee di forza architettoniche, la costruzione del pezzo, eccede in assonanze, allitterazioni ed enjambements. Ma si lascia ampiamente perdonare questi difetti con quelle improvvise combinazioni di parole, quei ritratti fulminei di figure e stati d’animo che sciabolano la psiche del lettore con una forza cui non era preparato. Una poesia sonora e visiva al punto che il significato si fonde col suono e l’immagine, talora con la massima evidenza, talaltra avviluppandosi a figure, occasioni e atmosfere appena decifrabili, che si richiudono sul significato come le acque del Mar Rosso sugli Egizi, senza smettere di esercitare un fascino fratturale e perturbante sul paesaggio interiore del lettore.
Possiamo individuare due strade maestre in questa raccolta: la strada dell’Eros e quella della Gioia, entrambe percorse da brividi esistenziali e sapienziali, entrambe percorse con vigile e mai pacato abbandono.
Quello di Temeraria gioia è un eros diffuso, polisemico: metafora e specchio della poesia, passione per la realtà fin nei suoi aspetti più ignobili – è, quello di Eleonora, un particolare tipo di poesia laudativa, che l’autrice definisce “il modo più insolente (da insolens latino, quindi temerario) di rassegnarsi alla lacerazione continua che è l’esistenza”.
È anche tracciato spietato della natura esaltante e impossibile della passione amorosa. Eleonora ha l’estremismo dei sentimenti di un’adolescente e di una donna che ha molto vissuto. Ma quale chiarezza d’articolazione in una poesia come Chissà se per alcuni minuti, dove l’unica cosa che conta, l’Eros per cui “tutto sembra compresso / vissuto per quel solo momento” non è mai nominato, è aggirato in immagini evocative come i “gelsomini che si arrampicano sopra le vertebre dolenti”, è contrapposta alle figure del mondo esterno (“l’epoca”, “l’accadersi”) in una sospensione semantica che ricorda la sospensione armonica del preludio del Tristan di Wagner, dove il musicista deliberatamente rinvia l’accordo di tonica a simboleggiare la natura dell’amore come attesa, incontro perennemente rimandato. Sia la poesia che l’Eros sono un vivere oltre la vita, al di là e al di qua della vita – quindi uno spasimo, una lacerazione. Non è l’unico momento in cui una tecnica musicale fa capolino nei versi di Temeraria gioia. Altrove, l’apparizione della parola marea genera un intero flusso semantico, con un procedimento germinale tipico del discorso musicale:

… poi
attratti dalla marea, a mano
a mano che monta l’estate
sereni e vuoti quei pensieri
sul pelo dell’acqua viaggiano

Si avvertono due tendenze contrastanti: l’abbandono assoluto, quello che fa dire alla poetessa “nella cecità amo / amo senza misura”, l’amore che è tale a dispetto dei suoi pericoli

Amarti è di nuovo covare
la nausea del non capire,
è l’aver smarrito
il sentiero scavato
dall’aratro, è chiederti
quanti sono i superstiti,
spegnere la luce, abbandonarsi
nel sonno alla strage.

e la consapevolezza corrosiva dell’inconoscibilità dell’altro, lo “stringersi delle mani / asimmetriche dove / giungere è l’estremo / mio atto di carsica / somiglianza”. Anche l’amore è solitudine. Una constatazione che ricorda certe pagine del Mestiere di vivere di Pavese sull’impossibilità di uscire da sé, di sentire ciò che sente l’altro.
La linea dell’Eros va di pari passo con la linea sapienziale, che assume la forma di poesia del non sapere, e quindi della gioia della scoperta di un mondo ancora tutto da decifrare: “Non conosco l’uccello che vola./ […] di molte cose non conosco il nome”. L’amore e la poesia sono le tortuose vie d’uscita dall’ “epoca”, dal presente dove attecchiscono il male, il falso, il brutto. Tale è la fede in queste due forze che, quando non le sente, la poetessa le richiama a sé: “e tutto procede nel tuo nome / anche ora che non sei / più niente e che pure / il nodo si è / spezzato”. Perché il presente, l’epoca, il vivere sono inscindibili da un’altra figura tormentosa: l’assenza. Il non-essere. Un non-essere, per giunta, disturbato, popolato da presenze straniere (“i motori degli altri”, i “soldati del momento”) che hanno il compito di “negare le informazioni”, di spingere il vero più in là. Che obbligano a un’atroce vigilanza anche nel pieno della letizia (“subire la letizia / senza piegarsi mai”).

Soffermiamoci su un altro passo:
La morsa che stringe ogni giorno
tra le costole io attendo
mi lasci svanito in frammento
appena davanti la tua casa

scrive Eleonora, e capiamo che il giorno coincide coll’angoscia e che l’amore è soluzione soltanto parziale. Subito dopo, però, il componimento sprofonda in una nebbia difficile da esplorare:

vedrai che tormento, vedrai
dalle fogne risalire la cernia,
il gufo sporgersi dall’osso
pregustare quel manto
cavo di carne, la rovina
conquistare le stanze,
calare in anticipo
la notte barbara.

Eppure quest’oscurità non sembra il frutto di un momento di opacità espressiva. Le figure in questi versi sono figure dell’oscurità. E anche il timbro si fa più violento, con quella A ribattuta (ricordiamo che la A, per Rimbaud, è rossa). Vien da pensare che, nell’universo sonoro di Eleonora, un’architettura musicale investa sia i singoli componimenti, sia il libro nel suo insieme, che diventa così come un poema, una suite di poesie tesa verso una struttura poematica. Forse queste oscurità improvvise non sono solo fallimenti del dire, e corrispondono invece – con risultati alterni – a un disegno che vuol far emergere i momenti più intensi come Fortissimo musicali, come eruzioni di senso. Il discorso musicale interseca profondamente la strada dell’Eros: Danilo Kiš, in Homo poeticus, non ha detto che, più della parola, a salvar l’uomo dal suo stato d’angoscia sono la musica e l’amore?
Quando affronta l’Eros, Eleonora lo fa con spirito pagano. In quasi tutte le espressioni post-cristiane, un sentimento eufemizzante o un’enfasi ribelle si accompagnano all’Eros. Qui no: come una poetessa della grecità, Eleonora vi s’accosta con naturalezza, come a una cosa benvenuta e tragica della vita. Una mancanza-desiderio che sfocia in appagamenti subito insoddisfatti: beata, anelata tortura che non ha bisogno del “polittico del sogno” per essere portata alla luce, perché la temeraria gioia di Eleonora, la sua insolens laetitia ci fa partecipi di un realismo interiore capace di lodare la realtà senza nasconderne l’orrore. È, questa, una gioia carica di ossimori, accettata con la malinconia dell’ineluttabile, riferita con stoicismo e senza sentimentalismo. I componimenti scendono contorti per “atterrare” su frammenti sapienziali come “questa grazia infinita / del finire”. Il controllo della poetessa è fin troppo saldo, rivela le influenze dei maestri (dai lirici greci fino a Penna, a Montale, a De Angelis) e forse rappresenta un freno alla piena conquista di una propria voce: come se Eleonora temesse, allentando quel controllo, di cadere in un magma interiore ustionante che è invece la sua forza: come temesse di cadere nell’errore, lei che sentimentale non è, di lasciare che il sentimento formi la poesia anziché farsi formare da essa. E così, l’impeto cristallino che trascina il lettore sembra non trascinare proprio la poetessa, spaventata da una violenza del sentire che invece è l’humus della sua polisemia.

*

Si va incontro alla dissolvenza
un venerdì di novembre con in tasca
quella sola chimera:
eppure si va ancora, perché
si deve, perché tutto va medicato
finché c’è terra da occupare
e cataclisma, col nostro secchio
di latte e vino…

Questo passo ricorda un passo in prosa di Flaiano, da Tempo di uccidere: “Non posso abbandonare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo”. Il legame con una realtà pur malata è indissolubile. La poesia è laudativa nell’atrocità del reale e non a dispetto di essa. Anche l’Eros non è scindibile dalla miseria umana (“La tua non meno miserabile / delle altre, non meno / desiderabile”). E però si resta. E “l’universo passa”. Cosa permette il colpo d’ala, la gioia in tutto questo? Gli esseri umani, al dunque, entrano in comunione attraverso il vissuto, ma attraverso il segno che ne resta: “scrivendoci dentro la pena”, oppure: “leggere era / l’ultima cosa che finiva”. I segni sono duraturi, tutto il resto svanisce nell’istante. Come l’appagamento d’amore. L’Eros dunque è solo in parte specchio e meta del lavoro del poeta. Si arriva ad un punto di cesura, in cui la poesia prende il largo e prosegue il cammino da sola, ed Eleonora rivendica con orgoglio la temeraria scelta di essere poeta, di occuparsi di ciò che rimane anziché dell’effimero:

Goccia a goccia, dentro
un transito diluito
dal plasma, nel marzo
del desiderio scelsi
terre lontane per dire
campo, per dire fiume:
ancora sento la moneta
inestimabile sotto la lingua,
i perpetui canti
del primitivo elemento.

È una forma di panteismo: la capacità di ricomprendere il male in poesia, e tuttavia di lodarlo come parte della poesia stessa – una pietà creaturale che stempera, senza smentirlo, il tono sdegnoso che fa da sfondo all’intera rappresentazione di Eleonora.

*

Non ci alzeremo
ora restiamo seduti
a testa china, in silenzio,
in eterno

ora si sommano
i dadi della ragione
tutto in un solo numero
non si lancia nessun gioco,
non si primeggia, si cerca solo
di uscirne indivisi e invece

da quel lavorìo intenso dalla masticazione
povere e poche settimane di digiuno,
uno spegnersi banale

la parità.

L’amore qui è solo una visione sullo scorcio. In primo piano c’è il sentimento di fare il moto assurdo di un turacciolo, che, posto sul picco dell’onda, non avanza né arretra, ma compie solo un moto circolare. Si torna sempre al punto di partenza. Nessuno scarto, nessun esito della lotta per uscire “indivisi”: il conto torna in pari, e la poesia delinea atmosfere anodine, esauste.
Quest’angoscia dell’immoto, proiettata su un piano metafisico, la troviamo anche poco più avanti:

Oggi non si percepisce più
la migrazione e pare
che la figura sia sempre stata lì, al di là
e al di qua.

È la poesia che sta al di là e al di qua. L’angoscia è connaturale alla condizione di poeta, fra “insondabili domani” e porti segreti in cui “nessuno sa dove salpare”. Anche l’Eros sta al di qua e al di là, ma possiede un lato “immondo”, “subumano”. Le volute del discorso disegnano un volo d’uccello, esitano a lungo, pur nell’estrema brevitas, ad afferrare l’oggetto e a darci il suo distillato di poesia. Difficile dire se sia un limite o uno stilema. Si sente una frizione tra la parola e il significato, tra la parola e il suono: si avverte uno scollamento, un’afasia del discorso che ricorda la poetessa romana Rossella Pompeo, che, ammiratrice di Amelia Rosselli, ha reso le afasie e le devianze della parola parti integranti del suo essere poetessa – con risultati affascinanti e alterni.

*

A noi piace il mare. Questa terra arida
putrida non la tradiamo. In via S. Giacomo
i tossici del Sud sono piccoli e quasi s
compaiono dietro uccelli di carta:
non un commento, non uno, sugli avanzi
della festa. Solo si sbucciano la pelle,
provano pietà per il cane zoppo. Qui
pure le periferie sono insignificanti,
girotondi cruciali tra quattro cortili,
paralizzate possibilità.

Ecco un’amara visione realista, carica di tutta la pietà che Eleonora non ostenta. La pietà per i diversi, a cui si sente affine. Difatti, subito dopo si chiede: “Non so se sia possibile / assomigliare con la sola / parola all’anomalia”; e possiamo facilmente risponderle che la parola poetica non altro è che il segno di una originaria e irrefragabile anomalia.
Da “anomala” sensitiva, Eleonora ha una percezione esasperata del falso, delle maschere rassicuranti del reale. E ci rappresenta il suo sconcerto in un componimento in cui lancia una significativa sonda verso Sciascia, lo scrittore che più ha intinto la penna nei mascheramenti infidi della realtà. E il richiamo è ancor più azzeccato se vediamo come Eleonora cali la constatazione universale nel microcosmo, secondo un procedimenti tipico dello scrittore siciliano:

In ginocchio
il cielo colore del vino
i paesi oramai morti
la scoperta del falso
inutile sostenersi la testa
c’è una miriade
di rovine
che non vedremo mai

*

Se la vera gioia si dà solo nella poesia (“angeli di carta ci premono la nuca / sul bordo tagliente della gioia”), la poesia assume una funzione salvatrice, è un’arca di Noè che raccoglie le creature: “Passino dal canale tutti quelli che devono / salvarsi, non importano le acque sanguigne / qui si naviga ancora ad oltranza / qui si revisionano i magnifici oblii, si pone / rimedio perfino alla stanchezza del piangere”. La poetessa convoca i suoi dei (“Ai miei dèi chiedo solo che non sottraggano la fonte alla sete, / che allontanino la tristezza / del non essere più, del non volere più”) con una preghiera dalla musica spezzata: li convoca perché allontanino il non-essere, e in questa preghiera politeista capiamo che l’oscillare tra barocchismo oscuro e nitore tagliente è in rapporto non solo con la sensibilità musicale di Eleonora, ma anche con quest’alternanza di essere e paura del non-essere, di canto e paralisi del canto. Tutto diventa coerente alla fine del poema: la paura/desiderio di sparire, tipica dell’Eros, incontrano il sacrificio e il naufragio che la poetessa chiama a sé (“se questa è la promessa io invoco, / io convoco il mio mito, il mio sacrificio”). Le ultime poesie sono raccolte con il sottotitolo di Pulvis et umbra. E sono, forse, le più intense e veritiere. Sono anche le più pessimistiche. La voce dell’autrice proviene da dietro le quinte in questa profezia che, per il tono lapidario e presocratico, ricorda certa poesia di Marco Ercolani (con la differenza che in Ercolani l’enjambement è abolito a rafforzare l’assertività dei singoli versi, qui è impiegato come pulsazione dell’inquietudine):

Presto uno sciame malato di sussurri
ricostruirà la preghiera e noi intorno
a quel letto faremo cadere le febbri,
i dannati deliri che annottano le città
ritardando gli eserciti, la resa, il patto.
Si infrangeranno le camere, cadranno le mura.

Le ultime poesie, sofferte, rarefatte, svolgono il ruolo della ricapitolazione in un movimento di sonata. Ritornano sul rapporto tra poesia e assenza. Ritornano sul filo conduttore, benedetto e straziato, dell’Eros. Ritornano sulla frattura, ai due lembi della quale ci sono l’Essere e il Nulla, e dentro, a tentare di riempirla, tutto il resto: la poesia, l’Eros, il reale accettato così come’è, con tutto il suo splendore e il suo orrore.

Incombe la pagina, chiede di essere svolta,
eppure troppe sono le curve vanescenti della visione,
parecchie marce distorte conducono alla sciagura
del non aver abusato della rosa, dell’averla
lasciata lì, tra il rigagnolo e la riva, cenerognola.

*

Quella voglia di rimanere assieme alle nudità
che ci cavalcarono con fermezza sapiente:
poi ci regalammo dei gigli ci scambiammo
sorrisi di circostanza, una parentesi impunita,
il tuo sesso che necessitò di riti precisi, circonderò,
circonderò il divano di ami, resisterò alle punture.

*

Rettitudine e sale, soltanto due elementi
evitano la lesione: il resto è giovane
saliva che si sposta da bocca a bocca
e sporca il vegetale, questo nostro ammasso
irrigidito conduttore dell’esclusiva
energia senile, cumulo sciolto di storie.

 

 

4 commenti su “Su “Temeraria gioia” di Eleonora Rimolo

  1. ninoiacovella
    06/06/2017

    Binomio poeta-recensore particolarmente felice.
    Ringrazio entrambi.
    Nino

    Piace a 1 persona

    • Giorgio Galli
      06/06/2017

      Grazie a Perìgeion e a Eleonora Rimolo, perché tutto è nato dalla sua poesia. Io la ho solo ripercorsa.

      Piace a 1 persona

    • Eleonora_Rimolo
      06/06/2017

      La ringrazio per la lettura, e per il graditissimo commento 🙂

      Piace a 1 persona

  2. Giorgio Galli
    19/06/2017

    L’ha ribloggato su La lanterna del pescatore.

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