perìgeion

un atto di poesia

Un viaggio nel bosco (ovvero Sebald secondo Marco Ercolani)

 

 

“La cour de l’ancienne école”, illustrazione tratta dal libro postumo di W. G. Sebald “Camposanto”.

 

 

 

 

Due fantasie di W. G. Sebald durante una passeggiata in Corsica (Cavo, 1998).

 

Prima fantasia

Si tratta di un viaggio nel bosco. La mia lingua, che spesso persuade il lettore per la maestosa andatura della frase e la precisa chiarezza dei dettagli, non ha nulla di marmoreo. Vorrei che tu vedessi gli appunti preparatori delle mie poesie: sono versi imperfetti, amorosi, e su quei torsi mutilati costruisco le sculture delle mie pagine: sono belle sculture che nascondono oscuri frammenti. Nessun critico se ne è accorto, fino ad oggi, e questa è la mia inutile fortuna. Se Bach, per gli aborigeni australiani, è un’architettura selvaggia, perché la loro musica è annidata nel calcio delle ossa, nel connettivo dei muscoli, nelle fibre della pelle, e non nei paradossi mentali del contrappunto; se è impossibile amare totalmente Bach perché la musica non è il corretto trionfo del divino ma una voce strozzata, un recitativo aspro, uno “staccato” impossibile, allora ha ragione quello strano e giovane ragazzo che interpreta Bach e che è morto così giovane nel 1982: Glenn Gould. Allora ha ragione, in Caffè Muller, Pina Bausch che, al suono della celestiale musica di Purcell, cammina dentro la stanza, torce le mani sul viso, sbatte contro i muri, si abbatte sul pavimento, con altre persone che vagano nella stessa stanza e cadono e spostano sedie, percosse da un incomprensibile dolore, con una donna che cerca di seppellire un’altra donna ma lei, schiaffeggiata da ostinate palate di terra, continua a danzare libera.
Io, che non danzo libero, possiedo una visione uniforme – un grande blocco scuro – e cerco occhi e voci che confermino questa oscurità, che dicano “io” ma mettano l’io a distanza. Non voglio la costruzione di una “salute trascendentale”, come suggeriva Novalis, ma l’edificarsi di una visione collettiva della nostra ombra a cui partecipino vivi e morti, senza distinzione. Io non “scrivo” mai, io “riordino”: il mio lavoro è quello del cucitore di pezze o dell’artigiano di mosaici. Voglio conquistare uno “stato leggero della mente”, ma è come se mi fosse impossibile, come se dovessi sempre, scrivendo, dissodare e togliere e non finissi mai di farlo, e la testa fosse sempre carica di questo lavoro buio. Scrivo perché, come cera, possano sciogliersi le gabbie del potente romanzo da fare ancora. Abbozzo finti romanzi, che volteggiano attorno a un tema minimo: il mio perenne viaggiare. Scrivo perché scaturisca il vento ma è un vento che non so quando soffierà e se io sarò presente al suo soffio. Fingo di essere solenne perché ho paura della Grande Inquietudine (nel manicomio della Salpetrière il “maestro dei pazzi” era simultaneamente vittima e guardiano).
Ma torniamo al tema per il quale ho cominciato a scrivere adesso: il mio viaggio nel bosco. Dopo ore e ore dovetti procedere a rilento. La vegetazione era selvaggia e non sapevo come districarmi. In mente avevo tutte le persone che camminarono in questo bosco, dove ora mi inoltro, e che qui si persero; in mente avevo favole e storie. Ma soprattutto una, una fra tutte. Sapevo che per quel bosco austriaco era passato, durante una delle sue vacanze estive, il pianista Leon Fleischer, quando credeva di avere perso per sempre le dita della mano destra. Sicuro di avere ormai una sola mano, aveva imparato con disperata pazienza tutto il repertorio per la mano sinistra. Chiese a molti musicisti di scrivere per lui: lo fecero Henze e Doppmann come, per Paul Wittgenstein, mutilato nella seconda guerra mondiale, scrissero Prokofiev e Ravel. Ma Wittgenstein era un tipo strano: nella sua famiglia si uccisero tre fratelli, Hans, Rudolf e Kurt (Uno dei suoi fratelli era il tormentato filosofo Ludwig). Paul non eseguì mai il pezzo di Prokofiev perché non lo capiva. Un uomo complesso, Paul Wittgenstein, difficile, che brandiva il suo unico arto come un’arma. Ma Fleischer no: lui era un uomo luminoso, che lottava per il vigore della sua unica mano. Quando scoprì, dopo dieci anni, che poteva riutilizzare la mano destra, con faticose sedute di riabilitazione, ne fu sorpreso, stordito, indeciso se aggrapparsi alla fragile speranza o se restare nell’angoscia conosciuta. Decise di sperare e ritrovare la mano destra fu, per lui, meraviglioso. Quelle due dita distoniche, atrofiche, morte, che ritornano vive… Anche adesso, che non cammina più per questo bosco dove vagò molti anni fa ed esegue con felice sicurezza il normale repertorio dei pianisti a due mani, non è certo che tutto questo sia vero. Pensa che il miracolo possa cessare da un momento all’altro. Che gli dèi, di nuovo, gli rubino le due dita. Ma per ora non succede e li ringrazia. Li ringrazia ogni giorno, Leon Fleischer, ringrazia il suo dolore, giorno dopo giorno, anche perché il paradosso della vita gli ha donato un lieto fine (e lui è ancora vivo per raccontarlo). Oggi suona con lo stupore di un bambino nei festival europei, inebriato dalla luce dei lampadari e dagli applausi degli spettatori. Ma soprattutto, grazie alla sua disgrazia, compositori importanti hanno arricchito la letteratura pianistica di opere originali, che non sarebbero mai esistite senza la sua malattia. Oggi, chi suona solo con la mano sinistra è meno solo. Come sono meno solo io, che traverso i boschi dove lui si è addentrato negli anni in cui il dolore di essere un pianista a metà lo faceva gridare di dolore fra roveri e querce e vedere le rocce della Corsica per come sono: immensi crani in bilico sul crepaccio del mare.

 

Seconda fantasia

Perché gli uomini si augurano tutti di morire vecchi? IL cuore non conosce che la gioventù. Io non posso che pensare a Kleist, penso ai pini, agli abeti, alle macchie di rovi, alle radure sabbiose che avrebbero scrutato i suoi occhi, trasformandoli in distese favolose dove è incantevole camminare senza resistere all’idea di voler camminare ancora e per sempre; vedo quell’orizzonte dove si precipita il suo sogno senza pareti visibili; vedo alcune lontanissime rocce che sembrano disegni a carboncino, sfumati, quasi come i resti di un lontano incendio. Bruciato Roberto il Guiscardo, a Kleist cosa restava, se non oltrepassare il romanzo, come intreccio, architettura, labirintico edificio, o sparire. Ma sparire è un atto solitario, senza eco, insufficiente alla potenza del suo cuore. Occorre condividere quel’atto, ed ecco apparire la prodigiosa Henriette: malata terminale, soggetto docile e giusto. Costruire con lei una misteriosa unione, per il tempo della sparizione: ecco il progetto dell’eroe. Morire dentro l’enigmatica ebbrezza di pensarsi, dopo la morte, distesi insieme. Gettare la vita nel fuoco, come Empedocle, ma con una compagna. Scrive Hölderlin: «Senti questa pace attorno? Riconosci il silenzio del dio insonne? Aspettalo qui». È un abbraccio, la morte, e non si è più soli nella strada di Postdam. Scrive Heinrich alla sorella Ulrike: «La verità è che per me sulla terra non c’era soccorso. E ora addio: il cielo ti conceda una morte che somigli solo a metà per gioia e indicibile allegrezza alla mia: questo è l’augurio più affettuoso e più sincero che possa farti». Vuole riconciliarsi con la vita abbandonandola, vivere la morte felice e non i giorni umilianti. «Ora, immortalità, tu mi appartieni». Penso a Kleist ogni volta che regolo i miei passi sulla strada e la regola non è mai quella che prevedo ma un ritmo nuovo, incalzante: se lui fosse stato un architetto e avesse dovuto costruire un ponte, si sarebbe chiesto come le arcate potessero restare sospese senza crollare, e l’idea del crollo avrebbe cominciato ad agire sulla sua mente come un veleno lentissimo. Non posso, pensando a Kleist, che ricordare certe Sonate dell’ultimo Schubert (l’ultimo Schubert aveva trentun anni) dove, da certi accordi ribattuti, dalla loro eco ipnotica e sinistra, posso intuire ”il silenzio del dio insonne”. C’è un diletto, un dolore, destinato ad annientarci. Il segreto di Kleist è l’evidenza dell’invisibile: non essere mai dentro la vita ma sempre, giorno dopo giorno, con la mano che avvicina e allontana il cappio dal collo. Grande è la sua stanchezza, grande il represso furore. Se leggete i suoi racconti, ogni storia è un cristallo che vi sorprende. Già da bambino Heinrich non si arrende a una vita adulta, composta di commerci, carne, rughe, mobili, denaro, demenza. Il cristallo è la sua mèta, e arde come un fuoco. Vita come eccezione, eccezione ripetibile. Io stesso, da viandante, percorrendo a piedi i suoi pericolosi luoghi, provocando la memoria, ricucendo la ferita come sempre accade a chi viene dopo, mi chiedevo se non poteva scegliere un’altra strada, diversa da quella, ineluttabile, nella quale è piombato. Ma, per il trasognato poeta che voleva afferrare i suoi pensieri affondando le mani nel muscolo del proprio cuore, non c’era niente che il cuore potesse accettare senza umiliarsi. Il mondo intero era da molti decenni tramontato nella nebbia. Detestava, Kleist, il mito di Faust: quella che avidamente cercava non era l’immortalità superba dello scienziato ma una mortalità fatta di piccole, irripetibili meraviglie. Lo stesso Hölderlin si sarebbe vergognato di sé, davanti a lui: alla fine, il poeta di Lauffen sul Neckar si era arreso alla malattia diventando un mite schiavo, un automa chiuso nella torre di Tubinga. Per Kleist la follia non era una cosa così scura e totale, ma un invasamento della mente, un’ebbrezza di luce. E poi quei due colpi di pistola, lucidi e secchi. Dopo, radura e rovi. È come lo vedessi sempre, quel bagliore accecante, quel pulviscolo. Due corpi immobili ma quasi nessun corpo: resti lievi, lontani dalle spiegazioni degli uomini. «Se fosse possibile respirare appena un minuto» si chiedeva sempre, da giovane, il giovane Kleist. Vedeva, attorno a lui, ragazzi, soldati, adulti, che obbedivano alle cerimonie ufficiali della loro esistenza avendo dimenticato quel respiro. E invece no, per lui non era possibile, non per lui. Fece di tutto: scrisse, viaggiò, sognò, si fidanzò. Ma alla fine c’erano solo due vecchi genitori che disprezzavano quel povero giovanotto che gli era toccato come figlio. Non poteva finire così. Con il suicidio avrebbe toccato l‘immortalità. I suoi libri, forse, chissà, in futuro. Ma lui la esigeva ora. Era impaziente, non avrebbe aspettato un minuto di più. Non si conquista la vita se non cesellando la propria morte, se non trovando la sola pallottola necessaria, quella da tirarsi al cuore. Titanismo, direte. Naturalmente. Ma un uomo che sparisce dal mondo con l’energia di un ragazzo, che non vuole scrutare i paesaggi secondari, le nebbie della vallata, che vuole, con la sua sposa di un attimo, uscire dai recinti e trovare il silenzio come un fulmine: ecco Kleist. Ogni opera tende, perfetta, alla sparizione perfetta. Ogni vita esiste solo nel momento in cui sarà troncata. Continui a essere se stesso, il luminoso Goethe, inutilmente odiato da generazioni romantiche: quella scrittura ampia e solenne esige una vecchiaia riflessiva e pensosa, così come è accaduto. Ma Kleist odia essere adulto. La sua Henriette Vogel, che senza rimpianti scambia il dolore terreno con la felicità celeste, esegue il suo desiderio alla lettera. Ma per lei è sempre immaginabile un Dio. Non per Heinrich, che si limita a essere Dio sulla strada di Postdam, nell’attimo in cui esplode i due colpi. Decide che ci sia un prima e che ci sia un dopo, con l’impazienza della divina giovinezza.
Anch’io, talvolta, camminando nei suoi luoghi, mi chiedo se il suo pensiero non sia stato il cristallo più fulgido: quello di cui gli uomini dimenticano lo splendore invecchiando. Qualcuno lo conserva, tenendosi stretto il delirio nella mente. Altri, neppure quello. A che vale essere vissuti, se non abbiamo sognato di essere Empedocle? O un Giulio Cesare Vanini, destinato a bruciare nel rogo a Tolosa il 6 febbraio 1619, perché omise di confermare la firma di Dio a creatore di tutte le creature? Sparire è pensare con coraggio la pianura dopo di noi, i suoi tramonti e le sue albe. Perché mondo e natura non sono nostre proprietà, ma soffi leggeri, attraverso i quali tormentosamente camminiamo.
Io continuo a camminare, a spostarmi da un luogo all’altro, nel mio lungo viaggio nel bosco, e capisco che troverò, anche oltre il destino di Kleist, come è composto il mio, di destino: le vertigini che mi smarriscono sono le architetture che mi resuscitano.

 

 

10 commenti su “Un viaggio nel bosco (ovvero Sebald secondo Marco Ercolani)

  1. Antonio Devicienti
    15/06/2017

    Tengo a precisare che “un viaggio nel bosco” è il titolo originale dato da Marco Ercolani al proprio testo; “Sebald secondo Marco Ercolani” è una mia aggiunta, anche per sottolineare la collaborazione di Marco con Perìgeion e ringraziare lui e tutti gli altri cari amici che continuano a inviarci i propri splendidi lavori.

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  2. L’immortalità è fatta di piccole, irripetibili meraviglie: lo pensava (von) Kleist – che come Robert Walser, come Ettore Majorana, come i due fratelli criminali evasi rocambolescamente dal carcere di Alcatraz, “preferisce sparire”. Qui entra in scena Sebald, la sua vertigine, il suo coraggio del trauma. Trauma e vertigine, due luoghi carissimi a Marco Ercolani. Leggendo gli apocrifi di Ercoilani si ha la certezza che la meraviglia sia ripetibile, e lo sia ogni qualvolta apriamo un libro e ci immergiamo totalmente – come scriveva Proust nel gustosissimo saggio “Il piacere della lettura” – nel mondo dell’autore. Artigiano di mosaici anche Ercolani: ogni scrittore, del resto, è materiato da pezzi di parole da riordinare, da illuminare, da strappare al silenzio. La cultura di Ercolani, va detto, è decisamente troppo vasta e profonda perché la gran parte dei lettori, anche colti, possa padroneggiare tutti i riferimenti. Chi non sappia (o non ammetta….) di non sapere, chi non coltivi come stile di vita la passione d’imparare ogni giorno qualcosa di nuovo, rischia di trovarsi spiazzato e in difetto, di fronte a tanta erudizione. Personalmente questa passione d’imparare continuamente io la coltivo da sempre, e suggerisco ai miei studenti di praticarla ad ogni età, soprattutto (come Proust) nei fortunati momenti di vacanza. Forse è questo il solo segreto per conservare la (vera) giovinezza. O, se non ci riusciremo, per continuare a corteggiare orgogliosamente la giovinezza della mente e del cuore. La gioia di leggere, la gioia di vivere, altro non sono se non questo:. “eccezioni ripetibili”. Alessandra Paganardi

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  3. …e scusate il refuso a riga 6… Erco(i)lani, pero sia l’unico 🙂

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  4. ercolani marco
    15/06/2017

    Grazie, Antonio. Grazie, Alessandra. Le “eccezioni ripetibili” sono i momenti “amorosi” della scrittura, quando l’autore si fa pervadere dalla voce dell’altro come se fosse sua. O meglio, ritrova in quella voce la sua. Questa è una felicità che inseguo sempre. Con stupore. Non direi di essere un erudito. Mi piace conoscere le cose di cui poi vado parlando. E conoscere non è un peso, è un diletto, anche doloroso.

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  5. Giorgio Galli
    17/06/2017

    L’ha ribloggato su La lanterna del pescatore.

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  6. Giorgio Galli
    17/06/2017

    Questo Sebald di Ercolani è fra le sue prose più affascinanti. E’ chiaro che il “tipo” walseriano del vagabondo gli è congeniale, anzi è un suo archetipo. Le due “fantasie” sono condotte con una libertà rapsodica e malinconica,  foriera di un tono leggermente diverso da quel kafkiano, affilato nitore nell’indagare il perturbante cui l’Ercolani precedente ci aveva abituati. Senza che nulla si perda in lucidità, queste due schegge di prosa annunziano forse una stagione più lirica, una stagione autunnale intesa nietzscheanamente come “grande vendemmia”… Stupendi due passi: “Io non scrivo mai, io riordino: il mio lavoro è quello del cucitore di pezze o dell’artigiano di mosaici”, e “Scrivo perché, come cera, si sciolgano le gabbie del potente romanzo da fare ancora. Abbozzo finti romanzi…”

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    • Marco Ercolani
      18/06/2017

      Esatto Giorgio. Penso che tu presenti nella mia prosa cose a cui non ho ancora pensato. Per ora prevale la consueta, sonnambolica empatia.

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  7. ninoiacovella
    18/06/2017

    “Si tratta di un viaggio nel bosco. La mia lingua, che spesso persuade il lettore per la maestosa andatura della frase e la precisa chiarezza dei dettagli, non ha nulla di marmoreo. Vorrei che tu vedessi gli appunti preparatori delle mie poesie: sono versi imperfetti, amorosi, e su quei torsi mutilati costruisco le sculture delle mie pagine: sono belle sculture che nascondono oscuri frammenti. Nessun critico se ne è accorto, fino ad oggi, e questa è la mia inutile fortuna.”

    La nostre utile fortuna, quella di Perigeion, è di avere tra gli autori Marco Ercolani. Tra i pochi a fare vera letteratura dalle pagine del web. Il suo segreto è la grande preparazione tecnica nel campo della scrittura e una profondissima conoscenza dei più minimi risvolti dell’animo umano (Marco è, lo ricordiamo, uno psichiatra). La grande scrittura parte sempre dal basso della “sostanza umana”, poi è la tecnica letteraria ad innalzare tutta l’impalcatura poetica del dire. Marco sa che la letteratura è un processo induttivo, esattamente l’opposto delle posture narcisistiche di chi si definisce già all’origine poeta o scrittore. Un processo deduttivo che quasi sempre porta allo “schianto”.

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  8. ercolani marco
    18/06/2017

    Grazie, Nino. Il tuo commento mi onora, Questo testo di/per Sebald parte da lontano, dalle mie affinità con Heinrich von Kleist. Il mio primo apocrifo (1981) riguarda proprio la vita di questo scrittore, che a distanza di decenni mi evoca ancora parole.

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  9. iole
    26/07/2017

    forse queste sono le prime cose che leggo di Marco Ercolani.
    e mi chiedo come mai mi sia finora sfuggito.
    Molto molto colpita da questi due testi. vibranti di un profondissimo silenzio interiore che espando il desiderio di conoscere, approfondire.

    grazie.

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