di Francesco Tomada
Ti offro la mia bandiera bianca,
ti porto nel luogo stupendo della
mia resa, la scrittura, e spezzo
le parole come pane. Queste
briciole non hanno pietà
dell’indifferenza. Si prendono
spietata cura di tutte le cose.
Con questa breve e intensa poesia si apre Altissima miseria (Musicaos Editore), la raccolta di esordio di Claudia Di Palma, ed è un testo fulminante nella sua integrità ed esemplificativo di quello che troveremo nel libro, una delle opere prime più interessanti degli ultimi tempi. La bandiera bianca, “quella grande / bandiera bianca / che spesso chiamiamo luce”, introduce immediatamente e senza appello uno dei fili che attraversano tutta la raccolta, che è, come giustamente sottolinea Alessandro Canzian nell’acuta prefazione, il senso di una resa “spietata” e senza appello. Arrendersi alla vita, alla propria miseria, è forse il primo inevitabile passo per comprendere “d’essere futile, /al contempo necessaria”, evitare l’indifferenza è probabilmente l’unico modo per affrontarla. Allora non deve stupire che Claudia Di palma scriva “rendimi nuda periferia”, che confessi di essere “una guerra infinita / piena di sangue / e strazi per ogni respiro”; anzi questa pare diventare proprio una condizione necessaria, un esilio da dover accettare per trovare quelle domande non corrisposte che popolano la terza ed ultima sezione del libro. L’Altissima miseria del titolo non è perdita ma nudità, l’amore stesso è rinuncia, “farsi amore è rasentare la consumazione”, il sacrificio estremo che una donna può offrire.
Ho parlato di una donna perché il libro è attraversato da un forte senso di femminilità. Non si tratta della femminilità esibita che spesso è elemento della poesia contemporanea, ma di qualcosa di molto più profondo: è anche presenza fisica (“io condivido la mia fertilità / e tu avvicini il seme”), ma è soprattutto la donna-donna e la donna-madre, “utero che raccoglie /e sprigiona la luce”, e che nel senso di maternità compie un miracolo in forma di poesia: “Ogni parto è un trapasso, / non ti riempie ma ti fora la parola”.
Altro aspetto che colpisce, in questa raccolta, è il senso di religiosità che la attraversa e la sostiene; non solo per i frequenti riferimenti – soprattutto alla figura di Maria, quella Maria madre, appunto, e come tale “misera misura della grandezza”, quanto perché il generico “tu” dell’autrice sembra a volte essere Dio stesso, un Dio che appare come “una bocca aperta” ma priva di risposte, un Dio perso ed in questo incredibilmente umano. Qual è il senso dello scrivere, allora, e ancora di più quello dell’esserci qui ed ora? Forse il senso è accettare che questa miseria è “creatrice di moltitudini, / di grandezze”, e può essere a suo modo perfetta nel momento esatto in cui si passa dalla resa all’accettazione, accettare di “vivere così grandemente nel piccolo atomo” e farsi “plurale sintonia / di singolari moltitudini”. E scrivere è un modo “per custodire l’eterno”, lasciare una testimonianza anche se questa dovesse poi ritrovarsi senza nome, da leggere come una “scrittura postera”.
***
Il grosso respiro di un piccolo
bimbo che dorme
mi insegna ad essere felice.
Allora mi accorgo d’essere futile,
al contempo necessaria, indugio
e anche se non ho figli sono madre.
***
Se scoperchio la parolina amore
trovo un macello di me stessa e altre
finzioni, dove ci sono tutti i nomi.
Tutta dentro una parola è la resa,
la sconfitta. La parolina amore
cela tenera il massacro, la scommessa
che la mantiene in piedi, il tramonto,
il suo battito cardiaco, il respiro.
***
È l’esilio la nostra grande risorsa,
il non avere appigli.
È cercare un segnale e non vedere
che segnali lampanti e persi
siamo noi. Questa è una terra
senza soggetti, di sole vesti e stracci.
Questo è il nostro esilio che canta.
Nessun altro si fa canto nella gola.
“Questo è il mio Nome, il mio corpo,
e nel mio Nome disperdetevi con gioia.”
***
Studio l’arabo.
Provo a scrivere il mio nome
con altri segni. Mi provo straniera.
Faccio mio ciò che si perde.
Damasco. Cerco di approssimarmi
al simulacro polveroso di una città,
parlo la lingua dei suoi profughi.
Scrivo come se facesse tanto freddo
nel campo dove sono esiliata, confinata –
pago tutto con la sola pelle
ma posso solo immaginare,
male immaginare il dolore di Dio.
***
Più volte ti chiedo se
c’è un filo che ricuce e carezza
o resta lo strappo
tra una cosa e la sua assenza,
tra l’intero e i suoi resti,
tra un corpo e il suo simmetrico altro.
Ma tu non rispondi e con un’ampia
virata ti rivolti verso l’ombra
là dove sorge l’eterno rito
delle mie domande.
***
La libertà
Non è per tutti il vuoto
di una casella postale.
Io ti dicevo: “la vita
è ciò che non abbiamo notato,
un’ape che è entrata dalla finestra”.
Io ero il vuoto di tutte le lettere,
la libertà che è sempre piccola
mutilazione, un buco, un’attesa.
Instancabilmente mi porgevo alla tua vista
e alla tua fuga. Tu senza buste, senza
posta, salivi le scale, ti rinchiudevi
al sicuro tra le mura. Ed io,
il tuo spavento, lo specchio che ti restituiva
mancante, ero un dono per gambe levate,
per occhi atterriti. Per questo
mi predisponevo e mi ordinavo
per ciò che è oltre la tua paura.
***
Grande esordio.
Poesia da leggere a scuola per dare ai ragazzi un esempio riuscito di poesia contemporanea. Poesia che arriva, grazie alla semplicità di espressione e alla assoluta profondità di significato.
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scrivevo poco tempo fa a Claudia:
che bellissimo dono la lettura di Altissima Miseria!
sono stata trascinata dai tuoi versi così densi di pensiero e insieme
così proiettati nell’oltre della poesia.mi ha colpito la tua sofferta ricerca di senso che attraversa ogni dimensione, dal dolore di vivere alla salvezza nella parola-alba, dal tema della maternità a quello – rimesso in discussione- del divino.
ogni pagina offre sentieri imprevisti e curatissimi, una sapienza quasi ipnotica nel maneggiare la parola, che davvero” rovescia le tasche per far cadere tutti gli alfabeti”.
ti auguro di cuore di proseguire questo tuo originale cammino nella efficacia di comunicazione la più felice. solo questo è quel che ci resta di altissimo e umano, lontano da ogni esibizione-miseria.
grazie, Francesco, per aver dilatato questa giovane e così densa scrittura.
Annamaria Ferramosca
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