L’uomo ascoltava la pipa e fumava il jazz. Non è un errore: è proprio così. La pipa ha un suo ritmo. La pipa è contemplazione. E’ come la cantilena del mare sulla spiaggia di Sète. In una canzone, l’uomo aveva chiesto di essere seppellito sulla spiaggia di Sète. L’uomo era uno chansonnier famoso. Non era vecchio, ma era invecchiato. Era bello lo stesso, perché era sempre stato un bell’uomo. Ora era un bel vecchio. Anche la faccia stanca, i vestiti dai colori smorti gli donavano. Certo era triste guardarlo, se si ricordava com’era pochi anni fa. Ma in fondo aveva sempre avuto un che di vecchio, un che di stanco, con quella pipa infilata nella bocca anche mentre cantava. E poi, le sue canzoni erano senza età. Altri avevano cambiato stile, s’erano aggiornati ai tempi. Lui non aveva mai avuto lo stile dei suoi tempi. Non era stato sentimentale quando andavano di moda le canzoni sentimentali. I Beatles e i Rolling Stones non avevano importanza per lui. Aveva fatto dei piccoli intarsi nel legno. Parole perfette, una chitarra, un contrabbasso, a volte una seconda chitarra: basta. Il contrabbasso lo aveva sempre suonato il suo migliore amico. Aveva avuto successo, ma se ne fotteva del successo e i soldi li regalava agli amici che ne avevano bisogno. Se ne fotteva che li restituissero, tanto lui viveva con poco. I libri, la pipa, i fogli, la chitarra, il vino: basta. La pipa è per gli uomini riposati. I tormentati fumano le sigarette perché le sigarette si possono fumare con frenesia. Gli amanti della vita fumano il sigaro o la pipa. Lui suonava la pipa. La sua voce era invecchiata insieme alla pipa. Prima nasale e acerba, poi smerigliato scuro, poi grigio smerigliato, poi color tabacco, adesso color del fumo. Bastavano pochi strumenti a soffocarla. Quando altri cantavano con lui, le altre voci si sentivano di più. Ma la musica, quella ce la metteva lui. Bastavano poche note accennate con quella sua mezza voce, e l’architettura del pezzo veniva in vista, le melodie oltre che espressive risultavano analizzate, le armonie venivano in evidenza. Gli altri aggiungevano espressione peso e ritmo alle sue canzoni, lui leggerezza e trasparenza. Lui con un’inflessione, un’accentuazione, la spezzatura delle sillabe di una parola, un po’ di swing trasformava una melodia in un quadro di Braque dove ogni nota aveva qualcosa di speciale. La ripetizione della stessa melodia non annoiava mai, perché non risultava mai uguale. Come nel Bolero di Ravel. E la cosa che faceva incazzare tutti era che tutti cantavano le sue canzoni con espressione, mentre lui, ch’era l’autore, aveva quel distacco misterioso, quel mezzo sorriso, quella nonchalance. Il jazz. Lui ascoltava la pipa e fumava il jazz. Perché le sue canzoni tendevano al jazz, ma non erano jazz. Invece adesso che stava per morire aveva partecipato a un arrangiamento jazz delle sue canzoni. Il suo col jazz era stato un flirt. Da giovane gli piacevano le canzoni jazzate di Trenet. Da uomo maturo, ammetteva sul palco, oltre a chitarra e contrabbasso, anche una piccola orchestra jazz. Fumava il jazz perché di jazz si muore: come Charlie Parker, come Bix, perché il jazz è per gli uomini maledetti come loro, o benedetti come John Coltrane. Lui era un uomo solido. Il jazz consuma, è per gli uomini della sigaretta. Non c’è un jazzista che fuma la pipa. Però fa impazzire gli uomini solidi. Cortázar non c’entrava nulla col jazz, anche se fumava la sigaretta. Cortázar era un uomo solido. Eppure andava pazzo per il jazz, scriveva una prosa jazzata, e aveva pubblicato quel racconto, L’inseguitore, in cui raccontava di Parker, Charlie, Bird, e dei locali della Parigi maledetta e notturna degli anni ‘50. Lui in quella Parigi si era esibito, ci era diventato famoso, aveva calcato le scene, come si dice, ma non l’aveva mai frequentata. Jacques ci si era tuffato, in quella bella vita, nella vita maledetta. Jacques somigliava alla sua voce, non invecchiava mai. Cazzo, era morto Jacques. Jacques era morto. Cazzo. Avrebbe preferito fosse vivo. Era l’unico amico che aveva nel mondo dello spettacolo. Diverso, ma amico. La voce di Jacques non era invecchiata nemmeno quando Jacques aveva un polmone solo, nemmeno quando aveva un piede nella fossa. Jacques aveva fatto una vita da jazzista. Breve come una sigaretta. Jacques era tormentato, e fumava Galoises. La sigaretta è per gli uomini tormentati, la pipa per quelli che si godono la vita. Maledizione! Jacques era morto e lui era ancora vivo. Gli sembrava di aver tradito un patto. Lui e Jacques dovevano esistere insieme perché l’uno era il senso dell’altro. Jacques l’esplosivo e lui il contemplativo dovevano darsi forza l’un l’altro, dovevano essere l’uno la ragione della differenza dell’altro. Ma adesso Jacques era morto e lui era vivo. Diversi erano diversi. Erano stati i primi a mettere la poesia nella canzone, i primi a parlare di sesso e a usare parolacce, a dire male dei preti e dei conservatori, a raccontare storie di emarginati, a deridere gl’ipocriti. Lui con una chitarra jazz, Jacques con l’orchestra classica. Non avevano mica bisogno d’effetti, mica gli servivano i gemiti di Jane Birkin per essere rivoluzionari! La differenza è che Jacques si sentiva pieno di rabbia e di rivalsa, era egoista e pensava che il mondo gli dovesse qualcosa perché l’aveva fatto nascere con quel malessere in corpo. Diceva sempre di non essere un poeta, Jacques, che la canzone non è poesia, litigavano per questo, perché lui, l’uomo, si sentiva un poeta, anche se minore, e metteva in musica i poeti maggiori, Hugo, Aragon, Jammes, Fort. Eppure lui, l’uomo, era umile, e viveva in una casa piena di gatti, cani, topolini bianchi, pappagalli verdi e pesci rossi, e senza acqua calda e luce elettrica. Viveva in periferia, non al centro. E i suoi amici erano i compagni di vino e di briscola. Jacques non avrebbe mai osato mettere in musica una poesia, gli sarebbe sembrato di profanare una chiesa, eppure Jacques viveva nel lusso, il lusso gli sembrava dovuto, pensava di avere diritto di scopare tutte le donne da Robineux a Parigi anche se aveva moglie e figlie. Anche lui, l’uomo, aveva scopato e tradito, ma non s’era mai sposato, non s’era mai impegnato, era stato limpido nella sua immaturità. Ed ora la voce di Jacques aveva smesso di gridare, mentre la sua continuava a sussurrare. Il pubblico aveva sentito invecchiare la voce dell’uomo, non quella di Jacques. Jacques se n’era andato come un dio, lui era rimasto come un uomo. Jacques. E poi, c’erano due somiglianze fra loro: l’aver lavorato in fabbrica e l’essere stati fedeli all’amicizia. Non alle donne, ma all’amicizia. E c’era una grossa differenza fra i due: Jacques non aveva mai fatto la guerra, non era stato in un campo di lavoro. L’uomo sentiva dolore dappertutto: alla schiena, ai fianchi, alle ossa. Quando i dolori erano più forti non riusciva nemmeno ad andarsi a comprare il pane, non poteva neanche girarsi nel letto. Dipendeva per ogni cosa dalle cure di Joha, Püpchen, la sua non-moglie. “Ho più ricordi che se avessi mille anni”, aveva detto quel cittadino di Parigi. Lui aveva le ossa più rotte che se avesse avuto cento anni. Si presentava ancora in televisione, qualche volta, a strimpellare con Leforestier o a giocare con Alice Dona, sempre col suo burbero buonumore, mai una parola sulla sua malattia anche se gliela si leggeva nel bianco dei capelli. Qualche volta tornava a cantare, ma come! Cantava come se scomponesse, analizzasse, anatomizzasse le sue canzoni, tempi più lenti, quadri di Braque sempre più cubisti! Quelli che lo accusavano di fare musica facile, i soliti tre accordi, voce recitante e chitarra scarsa, avrebbero avuto da imparare: come si poteva scomporre e anatomizzare una musica così facile? Doveva sorgere in loro il sospetto che non fosse così facile. Ma il sospetto non sorge nelle anime troppo sospettose. Lì prolifera, semmai, il pregiudizio. Camus, fosse vissuto, forse avrebbe apprezzato le canzoni di Jacques. Cioran avrebbe potuto prendere in simpatia le canzoni dell’uomo, forse, ma non l’aveva fatto. Il mare s’era fatto crespo, s’era levato il vento. “Georges” disse Joha, “Sta venendo freddo”. L’uomo richiuse il libro di Villon che da un po’ non stava leggendo più perché la luce veniva fioca. “Eccomi, Püpchen.” Georges Brassens morì il 29 ottobre del 1981. Soffriva fin da giovane di coliche nefritiche, cui ultimamente s’era aggiunto un tumore al pancreas. Anche se dal 1972 aveva ridotto al minimo le apparizioni, non s’era mai del tutto ritirato.
Magnifico racconto. Giorgio ha la stoffa dell’affabulatore. C’è musica nella sua prosa ipnotica, ritmata nelle frasi brevi, dense. Lui “canta la penna”, come Brassens ascoltava la pipa.
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Grazie, Annamaria. E grazie a Perìgeion. Di cuore.
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È Perigeion che ringrazia te, Giorgio.
I tuoi scritti sono preziosissimi.
E grazie a Antonio che ti ha fatto convergere qui.
Nino
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L’ha ribloggato su La lanterna del pescatoree ha commentato:
… con un caloroso grazie ad Antonio Devicienti e a tutti gli amici di Perìgeion.
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Grazie, Giorgio, per questo ricordo di Brassens, e di Brel pure. Cazzarola… mancava solo Ferré… Quando ci regali qualcosa su Chlebnikov? Sono un tuo grande ammiratore e aspetto… Grazie ancora.
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Ciao e grazie… Ti rispondo con la massima sincerità come si fa tra amici: quando mi sentirò abbastanza sicuro di conoscere Chlebnikov a dovere lo farò. Adesso è come chiedere a uno studente elementare una tesi di laurea.
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Preferisco l’amore e l’entusiasmo dello studente delle elementari alla preparazione di quello universitario… Aspetto il tuo regalo. Grazie ancora.
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Racconto bellissimo. Le frasi brevi di Giorgio tagliano la prosa a piccoli frammenti, ognuno dei quali ha una sua straziante tenerezza. Georges e Jacques sembrano due cantori inventati e invece sono perfettamente esistiti. La narrazione ha l’effetto di rendere irreale il reale, e viceversa. Però occorre essere subacquei del proprio dire. Giorgio lo è, e si salva con la sua “lanterna del pescatore”.
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Giorgio, grazie sempre e sempre di più…
Chris
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perdonami se solo adesso riesco a leggere il tuo bellissimo racconto sui miei due amori (Brassens,soprattutto e Brel) Li ho cantati in pubblico, era un piacere immenso.Non nasceranno più persone così.Il mondo s’impoverisce sempre un po’ di più.
GRAZIIE, Giorgio, per questo regalo! Possibile avere gli stessi gusti, le stesse passioni e ci emozionino le stesse cose ?Fai parte di un mondo al quale appartengono pochi abitanti…
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Che posso dire, Lucetta? Per fortuna tra quei pochi abitanti ci sei anche tu. Grazie.
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