prima parte, di Francesco Tomada
Quello che io – ma in questo credo di poter parlare a nome di tutta la redazione di Perigeion – nutro per Francesco Marotta va al di là della riconoscenza personale o dell’ammirazione: è piuttosto la stima assoluta che pochi, pochissimi maestri riescono a meritarsi senza richiederla mai, e lo fanno grazie alla loro statura culturale e umana, all’integrità delle scelte e delle posizioni, all’altruismo di chi avrebbe moltissimo da chiedere e invece si sforza comunque di dare quanto può. È dunque con grande gioia che accolgo la pubblicazione, da parte di Carteggi Letterari, de “Il poema ininterrotto di Francesco Marotta” a cura di Marco Ercolani, una corposa selezione di testi editi e inediti, interviste, traduzioni, brevi saggi critici e altri materiali; si tratta di un lavoro consistente che, per quanto sia impossibile fornire un quadro completo dell’attività di Marotta, riesce nell’intento di delineare la complessità della sua figura e della sua poesia.
Marco Ercolani si dimostra attento e ponderato nelle scelte, in modo tale da esplorare diversi aspetti della complessa personalità di Francesco Marotta, perché, come scrive nel bellissimo saggio introduttivo, “ soltanto nella visione d’insieme del poeta, traduttore e intellettuale Marotta, possiamo comprendere il suo “fallimento” potente, l’incurabile destino di uno degli scrittori più segreti del nostro tempo, che conosce, ed evoca, nel corso del tempo, il senso-suono sovversivo della parola poetica”. Quel vocabolo, sovversivo, che si addice in modo perfetto alla poesia – e prima ancora alla vita – dell’autore nativo di Nocera Inferiore: la sovversione è scardinamento delle regole poetiche ma prima ancora coerenza nel percorso umano; è ricerca di un contatto e di uno scambio basato sulla conoscenza piuttosto che sul reciproco vantaggio; è anche rifiuto dell’ordine costituito, “Esilio di voce”, consapevolezza di un silenzio eletto a guida quando le altre strade si confonderebbero con il vociare comune. La sovversione di Marotta rappresenta dunque, in poesia e non solo, quello che dovrebbe essere alla base di ogni percorso umano fondato sulla dignità e sulla coerenza, quella stessa coerenza che – dispiace dirlo – gli ha permesso di ottenere una quantità di riconoscimenti enormemente minore di quelli che avrebbe meritato. Ben venga dunque questo volume: per chi già conosce, almeno in parte, l’opera e il lavoro di Marotta sarà lo strumento per scoprirne nuovi aspetti; per gli altri rappresenterà la porta per accedere a un universo multiforme, complesso, forse in alcuni momenti anche contraddittorio, ma meritevole di essere esplorato e scoperto come esempio della consistenza di un pensiero che fonde in modo unico personalità, sensibilità e cultura.
***
dal saggio critico di Marco Ercolani
Il poeta lancia una sfida inattuale, da anacoreta: usare una poesia ermetica «a palpebre sbarrate / nell’esilio di voce», rigorosa e tradizionale, per svellere i codici stessi della tradizione. Se il poeta si allontana troppo dalla natura della lingua per inseguire giochi verbali e acrobazie stilistiche, rischia di diventare un pittore “astratto” che non graffia più la sostanza delle cose. Marotta, pur non essendo “figurativo” e tradizionale, usa le parole dentro il loro senso/suono abituali per farle vibrare di e per significati ulteriori, decostruendo la sintassi, inventando un’architettura neutra composta spesso di anacoluti e sospensioni tonali, trasformando la pagina più in una superficie pittorica e musicale che in un luogo soltanto verbale. E come potrebbe, un poeta surreale e violento come lui, restare all’interno delle logiche linguistiche se non sommuovendole come all’interno di un maremoto? («da una crepa del vivere / apre le porte alla lingua»). Come scrive l’amato Lorenzo Calogero: «Sono pochi i versi in cui la vita viene a essere costretta dentro un nesso di parole che non permette facilmente variazioni».
Una allucinata somiglianza, una serie progressiva di variazioni, lega le poesie del suo unico libro, che sembrano vivere una dentro l’altra, intrecciarsi e districarsi come un “registro di fragili danze”, come voci «nella traccia di vento / del nostro svanire all’approdo». Sembra che le poesie si rincorrano e si ricombinino in “fuochi di caduta”, in una “incurabile misura del guardare”, all’interno di un dolore che non trova sollievo: «alle tue spalle immagina / con quale lingua il deserto / racconta la piaga dove premeva / la lama della luce il varco / dove precipita il respiro». Ma una speranza resta: «basta un’eco una reliquia di voce / affiorata all’insaputa delle labbra / e il confine è la tua mano». La speranza è sempre, con violenza, «la pupilla / esplosa di un fiore». Lo sguardo origina dalla cecità:
«intera la superficie di una fiamma
per chi ancora respira della luce
deposta solo l’ora che imbianca
in mezzo al guado la sua ombra
che parla con lingua di sete
da un labirinto di acque mutate».
La parola di Marotta non smette di enumerare se stessa «in sghembi / movimenti di pagine arabeschi / d’inchiostro». Resta “il sigillo infranto di un nido”, ma l’occhio distingue il nido, il sigillo, la ferita. È sempre testimone di ciò che accade e accadrà, nonostante il buio:
«le impronte degli occhi solo il ritmo
fraterno delle cose pensate
in piena luce materia vivente
visibile appena il tempo di passare»
Questa poesia vertiginosa frana (e non) frana, canta e ricanta l’imminenza del suo sgretolarsi: «macerie in bilico e nello scollo della frana / tutto il candore / dei germogli agghiacciati / in passaggi di stagioni». Afferma il suo “dovere d’esilio”. La ferita dell’io nel mondo ripete se stessa cercando impossibili guarigioni, restando sempre aperta e feconda: «più spesso il corpo di una parola / porosa che esplode / sanguinante nella mano». I resti dell’esplosione nella mano viva sono, disseccati in pagine, i versi ipnotici e innodici di questa poesia potente, intima e inattuale, che rifiuta ogni etichetta di neo e post-avanguardia, e dove il surrealismo dell’immagine è la precisa, abbagliante rappresentazione di un privato realismo interiore: quel realismo che rende “politica” una poesia non per l’attualità dei temi ma, al contrario, per la sua inattuale forza magmatica.
“La poesia non è un dono innato, ma un esercizio continuo, quotidiano, fatto di attenzione, volontà di superamento e coraggio: il coraggio che serve per inseguire i segni di una vicenda tutta iscritta nell’orizzonte vertiginoso della nostra finitudine, la traccia che resta del nostro svanire all’ approdo.” *
Francesco Marotta
seconda parte, di Nino Iacovella
La sensazione che si prova nell’avere tra le mani il volume dell’antologia poetica e critica su Francesco Marotta, curata da Marco Ercolani ed edita da Carteggi letterari, è quella di avere tra le mani una pubblicazione di pregio. L’eleganza della copertina, impreziosita dall’immagine di Francesco Balsamo, è un preludio dell’accuratezza trovata in ogni dettaglio del libro.
Natàlia Castaldi, qui nelle vesti di editore, e Marco Ercolani non potevano tributare meglio l’opera di un poeta decisamente fuori dagli schemi, sia per la peculiarità della propria produzione poetica che per l’opera di diffusione della poesia contemporanea attraverso il litblog Rebstein – La dimora del tempo sospeso.
Ho conosciuto Francesco Marotta nel settembre del 2013. Sino a quel momento non avevo alcun punto di riferimento nel mondo della poesia sul web. La dimora del tempo sospeso fu la mia iniziazione a un modo diverso di concepire la scrittura poetica, qui intesa da Marotta come mezzo assoluto di resistenza. Dall’intervista di Eva Polymou pubblicata originariamente su Poiein e poi riproposta su Perigeion, tale resistenza viene esplicitata facendo riferimento “in primo luogo al potere, ai suoi emblemi, ai suoi simulacri, alle sue maschere e ai suoi rituali: insomma, opposizione a tutto ciò che da sempre nega l’umano in ogni sua manifestazione e diversità.” Per questo Rebstein rimarca la sua profonda originalità, in quanto proposta letteraria marcatamente ideologica, militante e fuori da qualsiasi logica di compromesso con la cosiddetta “istituzione letteraria”.
Francesco Marotta nella sua plurima veste di poeta, critico e divulgatore letterario, rivela ancor più la sua unicità in quanto non accostabile a nessuno. A differenza della maggior parte poeti che si dedicano alla poesia altrui, Marotta accoglie e mette in risalto le più disparate esperienze di espressione poetica, non privilegiando affatto le scritture più vicine alla sua. Contrariamente alla tendenza nel promuovere i canoni affini, Marotta invece apre alla diversità, a tutte quelle voci di qualità che altrimenti sarebbero destinate a rimanere marginali.
Davvero singolare invece la sua poesia, “inaspettatamente” oscura, eraclitea. Inaspettata per chi si attende dalla forma mentis ideologica ed etica di Marotta una naturale discesa nell’agone della poesia civile. Tutt’altro. Qui Marotta sposa le cause letterarie e filosofiche di un grande poeta e di un grande filosofo a lui molto cari: René Char e Eraclito. Per questo la sua poesia converge verso la ricostruzione di un mondo verbale primigenio, in linea con il “logos eracliteo”, dove la realtà viene dissolta per fare posto all’assoluta potenza delle evocazioni insite nella parola. Infatti ci dice Marotta, sempre dall’intervista della Polymou: “Ed è qui che va speso almeno un tentativo, prefigurata almeno una possibilità di alternativa: riandare a una parola primigenia, essenziale, disincrostata; restituire alla parola la sua libertà, quella di “essere”, prima di “significare”; farle parlare la lingua delle cose al loro primo apparire, prima che il circuito della rappresentazione/significazione la rinchiuda, attraverso i meccanismi tipici della tradizione museificata e della complicità accademica officiante, nel tritacarne delle etichette, degli schemi, delle omologanti artificiali pulsioni alla visibilità senza suono e senza sostanza.”
Così come Char, Marotta è in prima linea nell’agire etico, politico e sociale, senza cadere nella trappola della “dizione” consolatoria della poesia civile.
“Mi interessa chi si espone, giorno dopo giorno, nelle strade, nei luoghi dove si cova il conflitto, la dialettica; chi si immerge nelle contraddizioni e nelle lacerazioni e le vive sulla sua pelle; chi si ritrova parte, e ha coscienza di esserlo, della stessa umanità emarginata e senza voce; non mi interessa minimamente chi crede di avere assolto il suo compito etico, civile, sociale, affermando una distanza solo presunta dai luoghi del domino che genera emarginazione e dolore, facendo il suo bel compitino in versi e, in questo modo, mettendo a tacere, anestetizzandola di buoni proponimenti, la sua coscienza. Se mi è cara la condizione degli ultimi, io con gli ultimi ci vivo e ci consumo la mia esistenza, non gli offro una poesia, sia pure ben scritta e politicamente corretta, che dica “ecco, è per voi”: se sono poeta, e lo sono a partire da quella scelta radicale, io metto i miei strumenti a disposizione di un progetto consapevole di scardinamento delle strutture su cui il potere si regge, cioè delle strutture della comunicazione che perpetuano il controllo. L’eresia, il dissenso, l’opposizione sono qui: perché la poesia, quella vera, quella che chiede alla parola di essere, nasce come “vocazione sovversiva”: sovversione dell’ordine di segni attraverso il quale il potere perpetua da seimila anni controllo e dominio. René Char, tanto per fare un esempio che forse può spiegare meglio il mio pensiero, “non” ha scritto pagine “belle” o “utili” sulla resistenza, ma la resistenza l’ha “fatta”, in armi: e mentre combatteva per restituire all’umano (cioè in primo luogo a se stesso) la sua dignità ferita e umiliata, da poeta scavava fin nelle viscere delle parole, fino a disperderne il senso, contrapponendo oscurità a oscurità, alla ricerca di quegli “squarci di esistenza inafferrabili” dove la vita riscopre “l’abisso e la cima”, “il furore e il mistero”: l’irripetibile finitudine delle sue radici e dei suoi rami”.
Come Eraclito, infine Marotta sceglie l’isolamento, sino alla scomparsa, qui intesa nella forma dell’oscuramento della sua firma nella Dimora del tempo sospeso. Ma questo libro testimonia che la sua voce e il suo pensiero sono più che mai vivi.
* L’esergo dedicato a Francesco Marotta è stato letto a Genova il 13 febbraio 2016 alla Stanza della Poesia, dove è stata presentata la nostra rivista online “PERIGEION – UN ATTO DI POESIA” nell’ambito di “Qui e ora. incontro di critica poetica al presente” ciclo a cura di Marco Ercolani e Rossella Maiore Tamponi, con Antonio Devicienti, Nino Iacovella, Christian Tito.
***
da Memoria delle meridiane, 1988
Abitatori del tempo
Immagina i poeti fatti soltanto di occhi
pupille deliranti
davanti a templi senza oracolo
equazioni di silenzio
che si dissanguano in luce di alfabeti muti.
Nulla che non sia deserto
dimora di vento che accoglie cristalli di sete
fiorisce in quelle lingue d’acqua
che assaltano giorni senza rive –
nulla che non sia segno e mistero
sillaba ridiventata carne
scopre tra i fossili di un canto senza redenzione
la voce che conduce oltre il naufragio
all’orizzonte indiviso di voli futuri.
***
da L’arte dimenticata di morire, inedito, 2004
un altro giorno di sabbia senza impronte
scivola tra le dita, prende fuoco alla luce ostile
che instancabile danza dove più esile invecchia la luna –
la notte non ha più segreti
e i suoi doni rivelano al corpo
l’estraneo chiarore che avvicina ossa e ombre
in un abbraccio, un colore indefinibile che ama il freddo
come il mattino le rose cresciute sulla lingua –
il tempo che credevi privo di esistenza
compone la sua opera, conserva nel palmo
neve che profuma al tocco dell’aurora,
e intanto tu guardi il letto, il bianco del lenzuolo
aggrumarsi in macchie di calore, tendersi lacerarsi
fino a che il cielo si abbassa all’altezza dello sguardo
(il dolore naviga nella stanza
come una vela inquieta in uno stagno immobile,
cade dagli occhi, squama la pelle sul labbro
e la voce brucia, raggelata, come una stella
nei sogni del vento –
a casa, perdute nel lontano,
le mie carte parlano al silenzio parole che non conosco,
si affidano all’angelo amaro degli assenti
perché ancora un’eco rimanga – una lenta
nostalgia del mondo
mentre la morte gioca a nascondersi nei nidi del sole)
come l’ultimo angelo consumato dalla chiarità dell’aria
come il grido a cui la luce, sgomenta, si abbandona
la mia mano perde sangue dai pori
tra i tuoi capelli di donna, trascina le tue mammelle alle labbra
perché ancora il corpo bruci
sull’arco più alto dell’ultima eco – creatura
gravida di voli, di voce
(la sera trattiene nel suo acre profumo
l’inquieto vociare del fuoco – lo sento sgorgare
come acqua che si trascina
l’eterno immutabile incanto delle sue impronte di sete –
io attendo – la pupilla assonnata in ascolto
del prossimo lampo, udibile
levarsi di dio dal silenzio, guglia vertiginosa senza paesaggio
e senza notte,
senza)
***
da Il dono di Eraclito, inedito, 2007
1.
trama volti dove traspare il taglio
il grumo arso di graffi
che alla pietà si stempera
e declina
in piume e acerbe fedi
di memoria
anche l’ultimo ritratto
sa di sguardi trattenuti a spilli
padre e madre
crocifissi alle pareti
nell’umidore che riassume
vita e nome
in febbrili transiti di anni
tracce di muschi
li alimenta
perché prendano fiore
nell’innocenza senza labbra
dei muri
voci profumate di assenza
mi parlano
lei dice figlio
sciogli i versi in grida
ora che imbarca il cielo il tuo silenzio
ora che
la rosa dei tuoi passi in rilievo
sanguina distanze sulla carta
già lacrima il giorno
la sua ferita d’aria
l’invisibile approdo del vivente
2.
solo il bianco
colma la meraviglia
di ciò che accelera luce
dentro l’ombra
la voce è pura forma
e parla il corpo
che si fa piena nuvola
lampo improvviso di grazia
un dove di ricordi
alla prova del respiro
e appena oltre già in atto
l’aridità del giorno
sull’edera autunnale
un orizzonte ansioso
la chiusa
assordante delle acque
sulle mani
che si spogliano dei giorni
davanti allo specchio muto
di un lume rovesciato
3.
insonnia
anche questo è segno
finissima polvere
che avresti detto orma
ala ancorata
a palpebre di terra
se agli angoli strappati dall’incuria
l’accordo che transita
tra pupilla
e
lingua
non diventasse volo
pozza fuggente di colore
dove pesca il tempo
le sue vesti d’acqua
vapore
che si sente respirare
mentre varca la soglia
delle tue lune
spente
crateri colmi d’echi
lontana vertigine di fonti
di accaduto
***
da Impronte sull’acqua, Le Voci della Luna, 2009
ti cammina sul braccio
la tenebrosa
sapienza di
chi regge lumi
al mattino, ti
acceca
il risucchio dell’olio
che sciama in vapore e
incendia il tuo
occhio
che spunta in un prato, dal
le gronde di un foglio
dove transitano stelle e
voragini, il profilo distante
di una voce
intravista per caso
si perde tra l’inchiostro e
la pelle, in
certa se
dire il distacco o
annegare negli specchi
del cielo, infinito
rantolo azzurro
*
ci sono versi scritti
con gli occhi, li
riconosci quando
tornano in superficie
spaiati in
sincronie di vuoto
e all’albero
toccano in sorte
che si fermò alla tua soglia
chiedendo ritagli di lacrime
un nome da respirare
crescendo
fino al prossimo cielo, domani
brucerà a una
fiamma di neve, e lo spazio
del suo ultimo grido sarà
l’orizzonte tra
palpebra e
palpebra
che si restringe nel
l’orbita di fiori di
sale
***
da inaura, 2013, inedito
crittografie vertiginose
nutriti di pagine bianche, inquieti gorghi di intermondo
per quanti varchi offre la mappa del vagare, evitando
stazioni di segni conosciuti, l’usato almanacco d’immobili
siti di zodiaco: là dove la visione si spoglia del suo cieco
equilibrio di lampi e ciò che passa e dura, e che non dura
è l’immagine mutante di quanto emerge a caso dal fondo
alluvionale delle pupille:
semine d’ombra
dislagate dalla matrice fossile di una pietra
orli di senso su trame fitte d’incompiuto per controllare
fioriture di lontane aurore, di parole:
che una metta radici
dispieghi in volute sonore prima di rituffarsi in sé
senza memoria alcuna del suo spazio
***
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Grazie a Nino e a Francesco (T) per il loro commento a questo libro, che quasi non considero mio: ho solo messo insieme le varie parti di un’identità complessa, dolorosa e ricchissima come quella di Francesco (M). Vorrei che poeti e non-poeti potessero leggervi una fra le storie più significative di una generazione poetica (1954) alla quale io stesso appartengo.
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