di Marco Ercolani
Arrivo da uno sproposito
da crude frasi e voci
che tempo distingue e imploro
d’amore animale – adagio
di natura senza cifrari […]
Precipito
da un residuo di secoli
alla rima dell’occhio
sapevo di trovarti
è un vedersi ininterrotto
Per reale si intende un reale che comprende la sua stessa inesistenza. Nella realtà totale tutto può essere reale e irreale. Le parole, prima di arrivare al poeta, sono sporche di silenzi e di suoni. Il poeta le raccoglie, per il tempo che durerà la sua opera, come fascine di un incendio, relitti di un naufragio, con il desiderio di trovarvi un senso, con la coscienza che i sensi sono già fuggiti via. Da questa coscienza affiora la petrosa, febbrile oscurità di questo libro-poema, Distratte le mani (Coup d’idée, Torino, 2017), forma cosciente di un grido che interrompe il silenzio. Se la poesia è un lavoro del giorno che comprende anche i sogni della notte, è nella veglia che il sogno prende forma. «I nostri poeti spesso dimostrano apertamente che la loro parola non è nata da loro stessi, ma piuttosto è […] come se parlasse prima di loro, come se il suono musicale di una poesia incomprensibile sopraggiungesse su di loro e li costringesse alla forma poetica – come se essi potessero essere ascoltanti solo nel momento in cui iniziano a parlare (Walter Friedrich Otto)». Daniela Pericone è “ascoltante”, prima di parlare. Quando scrive «È ora che suono / si plachi a scuotere via / ogni eccesso un gesto / in levare un lavare le scorie / osso d’un tempo a scucire / vertigine di varianti», è come se definisse una sostanza musicale dove la pietra dell’osso è anche vibrazione nervosa. Il poeta dice subito no a quanto è stato guardato e sentito prima di lui. Esige un linguaggio che rappresenti la sua percezione come per la prima volta. Non ammettendo la presenza delle cose così come sono state sentite e descritte finora, rifiuta lo statuto univoco del linguaggio. Vuole, con la sua ossessione non consenziente, ri-nominare se stesso e il suo paesaggio rinnovando un incantesimo petroso che presuppone lo stupor del lettore: «Serrata porta / dietro cui t’intesti / e senti che nulla / t’appartiene / di quel corteggio / intento ai piccoli / mestieri del nutrire / in clorofilla e battiti / la vita ignara / di sensi men che chiari. / Sola tu vai scemando / al fausto sole, fusto cresciuto / in ombra e insonnia». Il progetto poetico, cresciuto “in ombra e insonnia”, è sentirsi inadeguati davanti a qualcosa di eccezionale e di intenso che si vorrebbe descrivere, dentro o fuori di sé, anche se poi si fallirà nel dire ciò che si vorrebbe dire. In questo sentimento di scacco, non di rinuncia, comincia a nascere la poesia. Quando è nata, possiamo lavorarci, correggerla con orgoglio e disincanto, sicuri di non essere arrivati ma di percorrere il cammino segreto che forse, un giorno, ci condurrà a qualche mèta. Come osserva Antonio Devicienti nella postazione: «a me sembra che la poesia di Daniela possegga una spina dorsale, forte e pronunciata, il che significa forza e presenza a sé stessi e al mondo, uno stare ritti di fronte alle cose e disdegnare sdilinquimenti e facili effetti, inserendosi in una linea poetica “petrosa”».
Se la poesia è, fin dall’inizio, uno spietato venire a patti col silenzio, il silenzio genera ogni volta nuove parole, nuove visioni. Scrive Wallace Stevens: «Le foglie gridano. Non un grido di attenzione divina,/ né il fumo di eroi sfiatati né grido umano./ È il grido di foglie che non trascendono se stesse». Il poeta americano percepisce l’estremo realismo della scelta poetica: descrivere l’oggetto «foglia» e il dolore legato al grido della “foglia” è non raccontare di altre cose, non prospettare barocche similitudini o svianti analogie, ma concentrarsi sul “dolore” della foglia. Le immagini sono le immagini che la mettono a fuoco. Scrive Daniela: «poi la luna si combina all’oro / solleva carte, scompigli da nulla / cattura una matita – una riga / è musica che disordina / schioda e inchioda senza posa / un albero, in un verso, scuote l’aria».
La realtà, come suggerisce Cristina Campo, è “verità in figure”. Benché il silenzio sia sempre definitivo e sembri impossibile trovare ancora la necessità della “parola autentica”, resta la passione del poter dire «un albero, in un verso, scuote l’aria». La poesia si definisce non tanto come sorgente di immagini quanto come caverna vuota, roccia dove si tastano segni. E i segni sono calchi di parole. Probabilmente quei calchi dureranno per un tempo definito e non saranno affatto immortali, ma contribuiranno a definire il luogo dove si addensano e si polverizzano innumerevoli, incessanti jeux poetici: «tra prove ed errori / e tenta e ritenta s’affina / parola ma lenta / malcerta a risolvere / il punto se valga per tanto / o per poco soffrire, / perpetuo stupore è dedurre / la regola senza rimedio / il gioco, un destino a finire».
Un pensiero di gratitudine a Marco Ercolani per la dotta, profonda lettura, a Perìgeion per farsi casa alla poesia.
Daniela Pericone
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Grazie a Perigeion. Un grazie che non è mai formale ma sempre vivente.
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Grazie a voi, cari Daniela e Marco. Perigeion non esisterebbe senza l’intento comune di perseverare nella ricerca della bellezza.
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Poesia densa e raffinatissima. Molti con lo scarto linguistico, l’uso della lingua e degli strumenti delle figure retoriche sbandano. Daniela Pericone invece è sempre in controllo. Sa tenere insieme tutte le componenti dell’indicibile.
Grazie
Nino
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Grazie a Nino Iacovella, parole importanti che confortano la scrittura.
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