di Giusi Drago
L’Antiterra di cui Paola Nasti ci narra – in versi e brevi prose – in queste sue Cronache è un luogo che precede la Terra o forse un pianeta opposto e postumo, che viene descritto a partire da un crollo di civiltà. Sin dai primi versi è straniante riconoscere un’ambientazione quasi fantascientifica: si tratta di un mondo parallelo alla terra, di una seconda terra di confine o del confine fra una terra e un’altra. Le poesie non rivelano se l’Antiterra sia un approdo o una prigione da cui fuggire, aprendo così nella percezione di chi legge crepe d’angoscia; è tuttavia evidente che un tema centrale del libro è la migrazione, sebbene essa rischi di risolversi in un grido:
resta il fluttuare, il girovago moto intorno al pianeta
la richiesta inevasa di un porto, il grido per ottenere
il grido per non perdersi del tutto
La scrittura della Nasti ha qui la tendenza ad abbattere la distinzione formale fra verso e prosa, sicché le Cronache dell’Antiterra sono una mescolanza di brevi prose e di versi spesso narrativi: il comun denominatore fra brani in prosa e versi è una narrazione di tipo favolistico. C’è una sorta di tono epico, ma di un’epica della favola, dove si racconta di una collettività, si nominano personaggi e si descrivono situazioni ma senza mai precisarne i contorni, ed è proprio da questa assenza di contorni che emerge il tono favolistico, senza tempo o dopo il tempo: illo tempore, lo spazio del mito. Gli elementi concreti e riconoscibili vengono subito resi volutamente irriconoscibili grazie a questo “scontornamento” delle figure e delle situazioni.
Eppure questa scrittura non abdica alla precisione del dettaglio; anzi, la sua forza sta proprio nel contrasto fra accuratezza della visione, cioè capacità di cogliere il particolare, e indeterminatezza dell’universale. Lo scontornamento sarebbe una sorta di alone d’universalità, e anche di rifiuto a categorizzare: un legittimo dubbio sulle nostre comuni categorie che può assalirci in ogni fase di smarrimento e di rinascita.
mi chiede dove, gli rispondo: quando
mi chiede di mostrargli dove sono le tracce
non so indicare tracce, ma minuti
[…]
l’attrazione è massima
si esercita la forza dell’indistinto
Parlando di rinascita mi trovo in sintonia con Viola Amarelli che ha definito le Cronache dell’Antiterra un “Bardo”. Nella filosofia buddhista il Bardo designa una condizione intermedia, un confine, un punto di passaggio, il più importante dei quali è quello fra la vita e la morte: secondo la filosofia della chiara luce, se in punto di morte si è raggiunto il massimo della purificazione, si può essere inondati dal chiarore, cioè si attinge una comprensione chiara e profonda. Il termine riguarda quei passaggi di stato o di coscienza che preparano una rinascita (i tibetani distinguono vari stati intermedi, per esempio l’intervallo tra il sonno e la veglia o tra il sonno e i sogni). Nei versi dell’Antiterra molti sono i segnali che indicano il rischio, le fatiche e le incertezze di un tale percorso. Il chiarore è presente in questi testi, e sembra farsi a tratti spietato: gli occhi sono costretti a restare aperti e quel che vedono riguarda tutti e non è consolatorio.
Solo talvolta, in condizioni di transizione e di trapasso, la luce che “come sempre collega” le varie dimensioni sembra mitigarsi e divenire meno bruciante:
dici che cambia solamente
la consistenza dell’acqua, della luce,
che la pioggia sembra più molle e il fuoco
non brucia più la pelle – la illumina
DELL’ANTITERRA
La disgregazione del regno era cominciata. Le strade molto lentamente andavano assumendo un’aria polverosa, gli impiantiti scuri perdevano di lucentezza, la mente già correva a distese di sabbia. La desertificazione non era ancora sopraggiunta eppure la sabbia era entrata nel paese, nelle sue vene di asfalto e acqua, nelle case, attraverso i bovindi e i lucernai, nelle bocche rosate, tra i denti ingrommati di giallo, e tra i denti strideva con grande fastidio di tanti. I bambini non vollero più andare a scuola. E finalmente ci riuscirono. Era bastato dire: non vado, per non andare; per uscire fuori ai giardini, ai cortili dei palazzi, e incontrare altri bambini, altri adolescenti improvvisamente divenuti liberi. Non si potevano conoscere né riconoscere. Il tempo speso lontano da quei giardini, da quei cortiletti tra i palazzi, aiuole di cemento sormontate da edifici di cemento, era durato l’arco breve delle loro brevi vite. Non c’era più spazio per loro neanche nelle chiese, che cominciavano, sin dall’alba dei primi giorni, a popolarsi e ad affollarsi.
***
potevamo già scegliere tra le due schiere
di quelli che odiano tutti
di quelli che non amano nessuno
la schiera intermedia inesistente
non scegliere sarebbe stato atto di coraggio
***
Finiti, per sempre, i giorni dell’Impero, della grandezza ostentata con vigore e sconsideratezza, senza ombra di esitazione, per i quattro angoli dell’universo. Un nuovo rito, che qualcuno aveva pomposamente denominato: nostalgia delle origini, li teneva raccolti dalle prime luci del giorno nelle chiese, che del resto avevano soppresso ogni forma di liturgia in nome di una nuova religione, atta a fornire un conforto calibrato su nuovi bisogni, sulle nuove e nuovissime necessità di speranza e di attesa. Ciascuno avrebbe aspettato il suo turno per accedere, in file ordinate per uno, alle piccole cabine del diorama. Lì sarebbe stato possibile, per pochi spiccioli, entrare e guardare, per un tempo variabile dai dieci minuti all’ora. Distese di foglie d’erba, riprese sotto forma di video da telecamere appoggiate al suolo, in modo da rendere ogni piccolo movimento dei fili verdi, ogni luminescenza riflessa, ogni apparire d’insetto o di umori atmosferici. Oppure potevano scegliere lo spettacolo delle dune, del loro meticoloso disfarsi sotto l’alito del vento, la vicenda di smottamenti lentissimi e misurati dal rigore inflessibile della forza eolica. Potevano scegliere. Nessuno avrebbe mai potuto eliminare, nemmeno a viva forza, la libertà di scegliere lo spettacolo da godersi senza fretta e senza considerazione degli altri in coda ad aspettare. Faceva parte del rito. Qualcuno poi trascorreva molte ore della giornata guardando in alto, seduto su una panchina tra i palazzi, il cielo bianco puntellato dallo stridio degli uccelli che, altissimi, continuavano a volare su quello schermo d’aria delimitato dai cornicioni dei palazzi. La mattina presto, soprattutto, il suono della grande suoneria risultava a tratti vicinissimo, a tratti silenziato, e questo saliscendi rendeva bello l’ascolto. Si trattava, infatti, di una musica involontaria. Anche questa era una possibilità.
MIGRAZIONI
quando dissero che l’orizzonte non poteva essere cancellato
che non era possibile andare in altro luogo
curvai lo sguardo verso le scarpe bianche
fingendo indifferenza – rimandavo
il punto della resa, la connivenza con i decreti
che mi colpivano come sassi
ci colpivano tutti come sassi
la migrazione, impensabile prima, divenne la realtà
quando ormai più nessuno ci credeva
quando la spinta contro la rete
era diventata insostenibile
il passaggio fu come un’espulsione
facile fu l’approdo, morbido e senza dubbi, un atterraggio
sopra un campo di spugne gialle
***
per le barche non c’è approdo
disse
per i natanti non c’è gomena che tenga, le ancore
non possono saldarvi, disse, ad alcun fondo
resta il fluttuare, il girovago moto intorno al pianeta
la richiesta inevasa di un porto, il grido per ottenere
il grido per non perdersi del tutto
così disse
***
il grido che non puoi fabbricare
se non ti erompe dai visceri
(senza necessità non c’è alcun suono)
le bocche si richiudono
cucite le rime
niente più bacia
non sponde, non rime, non baci
la partenza soltanto
***
hanno detto: possiate rivedervi
per un’ora soltanto, qualche minuto appena
si sono ricongiunti. non si erano più visti
da quarant’anni. ciascuno oltre il proprio confine
militarizzato. il tempo non c’è stato di piangere.
le lacrime
son risalite indietro
dentro il lago gelato di ogni cuore. ciascuno
ai due lati del 38° piange, invisibile
dietro le palpebre oblique. la distanza
è quello che li unisce. le braccia troppo corte
perché le mani possano toccarsi. la distanza
è una corda invisibile che non tira
***
quando partimmo non era ancora l’alba
il cielo era più buio del previsto,
del prevedibile, e si opponeva all’esodo
sotto i piedi la strada, che era polvere
gli occhi che si infilavano nel buio
erano spade, sfuocate macchie, grigie senza contorno
anche quelli dei bambini erano così
c’erano bambini
***
per coprirci avevamo le coperte
leggere impermeabili, sottili
incapaci di calore
il freddo ci mordeva tutto il giorno
prendevamo dalla strada i mattoni,
li portavamo in casa, a coppie,
per farci compagnia, per riscaldarci
***
tempo di andare
i teli già sui mobili
le tende tirate e la luce che le attraversa
la gabbia degli uccelli volati via
gli specchi che riflettono poltrone
il parato antiquato, sollevato in più punti
non nasconde più il muro, lo mostra e non è male
il nuovo ospite già per le scale, presenza discreta
prima di bussare alla porta
adesso consegna le chiavi
illustra gli angoli migliori della casa,
i servizi resi fedelmente negli anni; nasconde le magagne
il gelo degli inverni, le macchie di muffa alle pareti
gli insetti che vi alloggiano, che non accetteranno facilmente
di cedere il passo, i vicini di casa rumorosi
che forse resteranno per sempre
mostra il contatore dell’acqua,
tira qualcosa fuori dal nascondiglio
perché si prepari a nuova vita
finalmente l’uscita
Le immagini – tranne la prima, il cui autore è Gao Xingjian – sono opera dell’autrice.
Paola Nasti vive e lavora a Napoli, dove è nata nel 1965. Insegna filosofia al liceo. Si interessa di scrittura, arti figurative e illustrazione. Sue poesie e scritti sulla poesia sono in antologie, riviste, blog letterari, libri d’artista. Dalla fondazione è redattrice della rivista di poesia Levania.
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Un poemetto di disturbo e di pace, che narra il transito di ognuno di noi, calibratissimo e consapevole, in terre che sono-non sono le nostre, così come accurata e partecipe è la lettura che ce ne restuisce Giusi.
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