perìgeion

un atto di poesia

Lucetta Frisa, “Nell’intimo del mondo”–parte terza

frisa

di Giorgio Galli

«La prima lotta fu uscire da un ventre

verso l’asciutto vuoto verticale,

l’ultimo è il ritorno all’acqua.

Lo sai che i pesci tacciono muoiono

non tentano nessun limite nuotano

nella rete chiusa del mare.

Può ancora respirare chi continua a scrivere

lettere agli annegati

e chiedere eternamente quale fessura

fine di sasso separi

chi fugge da chi resiste.»

Si apre così Se fossimo immortali, silloge del 2006 in cui Lucetta affronta subito, di petto, i suoi motivi cardine.

«Come i pazzi che ritornano sempre

indietro negli assoluti e si vedono

sterco bava sputo merda muco

insetto e stanno in questo luogo ad occhi

torti pelle e capelli strappandosi

volendo non esserci nell’estremo

buco da dove si esce ma subito

aria luce mondo tutti insieme

feriscono e loro restano vivi

senza vita morti senza morte e

la distanza vorrebbero dei pianeti,

se non c’è nessuno che si avvicina

a loro con lo sguardo onnipotente

di chi prova un assoluto amore.»

Pienamente insediata nella forza fratturale del suo dire, sottolineata da tormentosi enjambements, la poesia passa dal tono epico e gnomico a un nuovo fervore invasato, per sostanziare il quale inscena le figure antiche del saggio e del folle, riunite in un’unica figura ancor più antica e archetipica, quella dello sciamano. Nei nove componimenti intitolati Autoritratto notturno, la poetessa si raffigura come essere sciamanico, figura evocatrice e abissale, reincarnazione, più carnale e umana, dell’Orfeo rilkiano che riunisce in sé “i due regni” dei vivi e dei morti. Un Orfeo terrorizzato, sbigottito, contemporaneo. Se la nominazione è creazione, questo potere pesa all’Orfeo odierno, simile al Cristo smarrito di Scorsese e perciò eminentemente tragico.

«Ogni mattina ho il compito di rifare il mondo.

Ripeto ciò che gli dei fanno con gli uomini

dopo la notte, li rigirano al rovescio

li sbattono nell’aria fredda li scrollano

dei sogni per prepararli all’altra vita.»

[…]

«Ti prego, fammi credere di esserci

-senza lacrime lo dico-

credere che tutto è vivo

scorre si muove domanda non dà pace

credere che anche le cose morte

di notte si vestano di un corpo.»

I poemetti di Ritorno alla spiaggia (2009) s’inscrivono nel cammino di Lucetta come un atto di lucido coraggio: lontana da compiacimenti autobiografici, attenta a distanziare l’io poetico dall’io biografico, essa qui rompe lo schermo per vagliare su se medesima, sull’esperienza della morte della madre i suoi temi portanti. L’esperimento richiede un nuovo stile, lo stile di poemetti-flusso che raccolgono l’universo dell’autrice in un omnium poundiano, che afferra il lettore per la gola e lo immerge nel liquido amniotico di una confessione così architettonicamente ben congegnata, così formalmente riuscita da costringerlo all’empatia.

L’emozione dell’aria, del 2012, è un nuovo confronto con l’Oltreparola. Lucetta sceglie l’arte più ineffabile, la musica. Interlocutrice purissima della poesia, più vicina ad essa della pittura, accomunate entrambe dalla vicinanza alla danza, al grido, alla preghiera, alle espressioni umane originarie, la musica non dialoga con la poesia come con un’arte distinta, ma si riversa in essa, invade il suo campo, e del pari ne viene invasa. Il risultato è simile a un orgiastico misticismo pagano, come in questi versi ispirati a Les amusements di Couperin:

«hai ripreso a fumare: note suonate parole scritte

girano intorno a un buco d’aria ferma

l’Elefantine L’Adolescente Les Délices Les Amusements

suonami Les Barricades mystérieuses Les Baccanales

Tendress bachiques Fureur bachiques

e verso il vino mi sfilo la t-shirt

tu cominci a battere il tamburo

-Africa nera insieme a Couperin-

come si fa a imitare il bàttito

della terra antica e reale

che viene dalla luna ma non da questa»

Oppure accade che le due arti si rivelino a vicenda, come a contatto con La reveuse di Martin Marais, che coglie senza imbarazzo e con grazia il carattere minerale che la musica rinascimentale assume spesso agli orecchi dei nostri giorni:

«lo stato della grazia

è la più alta illusione illuminata

dal sole animale

la sognatrice

entra nelle creature

scuotendosi la polvere aliena della mente

le rispondono

i minerali e gli astri»

Capita che la musica di Messiaen medi la trasfigurazione fantastico-mitica della morte tipica della produzione dell’autrice:

«stanotte

nel cielo caldo

i punti delle stelle

sembrano mosche intorpidite

o uccelli in posa a luccicare

in un’altra gabbia

Si suona nel lager ma nessuno vola

e qui un velo di note

ci allontana dall’orrore e noi

noi si aprirà le dita

per segnare l’ombra delle ali

sulle tombe

perché gli uccelli la vedano»

La musica di Frescobaldi permette invece di addentrarsi in un paesaggio limbico, sospeso: paesaggio connaturale a chi sente che la morte è una radice e respira alla congiunzione degli opposti:

«La mia carezza resta a metà –

si crea a cerchio la sua aria

piuma che non va

né su né giù.

Dove siete anime dei cieli promessi?

qui non ci sono voci

né parole, nulla progredisce

o torna, si danza o si fa finta

su passi sottili

distanti dal pensiero

e io ti chiedo: dove sei?

e tu rispondi: dove sei?

non c’è nessuno qui, neppure noi»

Ci siamo già occupati dei Sonetti dolenti e balordi (2013), vertice dell’arte di Lucetta, sintesi della sua forza fratturale e della componente sciamanica, profetica, drammaticamente sapienziale. Nella produzione dell’autrice essi manifestano non un avanzamento ma una riflessione, un consolidamento, una poderosa pietra tombale che funge anche da cippo segnaletico di un percorso arduo e franto, sempre orgoglioso e ferito. Dopo questa mirabile sintesi, Lucetta col poemetto Perseidi (2015, qui pubblicato per la prima volta) sembra rivolgersi a un oltre sempre più lontano e sempre più arretrato nell’origine, cercando una comunicazione sempre più sciamanica con le stelle, i bambini e i morti, in un processo di essenzializzazione, di rarefazione dell’immaginario che si riflette anche nella brevità del verso e nella parsimonia di parole, e dove i toni cupi e drammatici sembrano cedere il passo a chiarori spogli e disperati:

«Parlerò solo alle stelle.

Sono pazza forse ma proseguo il discorso

che facevo da bambina

parlando senza parole

non sapendo parlare

[…]

L’ombra

era uno specchio vuoto.

[…]

Se parlo alle stelle

so di parlare ai morti

perché a noi

tocca solo l’immagine

slontanata

della vita.

E mentre sono qui

sto morendo da un’altra parte

o forse non esisto

non esisterò mai.»

La gnome è sempre più secca e assertiva, guarda a Eraclito, a Hölderlin:

«Tutto ciò che vedo o non

vedo

nasce e muore lontano.

Prima.

Dopo.

Mai adesso.

Mai ci sono arrivi

né partenze.

Mai c’è

il presente.

Nessun volo raggiunge l’altro.

[…]

Chi ha un corpo ha un segreto

da conservare

fuori di sé.»

L’origine, adesso, non è solo lontana, ma alta, troppo alta:

«Nel buio

catturo le luci stellari

memorie di eventi possibili

di un mistero che si assottiglia

sempre un po’ di più

ma mai

perderà la struttura.

Dicono che è lassù la nostra origine.

Lassù

ci sono padre e madre

e sta a noi

farli tornare qui.»

Diradandosi, la scrittura ammette la propria sconfitta: non si può giungere ad alcuna compresenza, ad alcuna origine e ad alcuna fine. Solo sentirle entrambe, da metà strada, col proprio armamentario di sensi e di sogni:

«I profumi della notte

s’incontrano a metà strada:

verso di noi scendono

quelli astrali

verso di loro sale

l’essenza tellurica.

Di notte l’erba e gli alberi

hanno odori che raccolgono

tutte le profondità

scoppiano dall’invisibile

una linfa nuova

trattengono i suoni

inudibili

di giorno.»

L’incontro delle stelle e dei profumi della terra, l’incontro tra origine e fine, tra umano e divino, non è possibile. E’ solo un’illusione, una finzione, come la luce di astri già morti che arriva, con millenni di ritardo, quaggiù. L’intero percorso poetico canta con voce mesta e ferma il proprio fallimento, la poesia ammette in pochissime parole la propria sconfitta:

«Salute a voi come siete

salute dal nostro al vostro

tempo

che mai s’incontreranno

Salute a voi

e a tutte le finzioni.»

D’ora in poi, quale poesia sarà possibile?

ARTICOLO COMPLETO IN PDF

Informazioni su Giorgio Galli

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena. Vive a Roma dove per due anni ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato "La parte muta del canto" (Joker, 2016), ritratti biografici di grandi musicisti del passato; "Le morti felici" (Il Canneto, 2018) e “Le voci sopravvissute” (Gattomerlino, 2020), piccole collezioni di brevi prose poetico-narrative; il racconto lungo “Il matto di Leningrado” (Gattomerlino, 2021) e la raccolta di poesie "Canzonacce" (Delta3, 2021).

Un commento su “Lucetta Frisa, “Nell’intimo del mondo”–parte terza

  1. francescotomada
    09/03/2018

    Ho letto con attenzione tutto l’articolo, e voglio ringraziare Giorgio per la cura e la profondità di quanto ha scritto. Quella di Lucetta è una parabola di grandissimo spessore e profondità, e merita tutto lo spazio e l’attenzione che le può essere data.
    Grazie ancora, a entrambi.

    Francesco

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