perìgeion

un atto di poesia

Srečko Kosovel, Quel Carso felice

 

 

Quel carso felice Kosovel

 

 

 

Sempre più spesso il compito di provare ad alimentare la reciproca conoscenza fra culture e lingue diverse passa attraverso l’azione di case editrici piccole per dimensioni, anche se grandi per prospettiva ed obbiettivi. È il caso di questo volume, Quel Carso felice, edito da Transalpina, che racchiude una preziosa selezione di poesie di Srečko Kosovel curata da Michele Obit, che ne è anche il traduttore. Sull’affascinante figura di Kosovel, che ancora oggi è oggetto di studio e continua scoperta, le migliori parole possibili sono proprio quelle del saggio introduttivo di Michele Obit, di cui pubblichiamo di seguito un estratto.

 

IL LUOGO DELL’INFINITO RITORNO

 

Noi lo immaginiamo,, mentre attraverso le sue lenti sottili si immerge in quel paesaggio che non è cambiato poi tanto da allora — sono passati quasi cent’anni —, solo la strada è oggi asfaltata, ma non mancano i muretti ed i ciliegi, e la vita contadina qui non si è ancora arresa allo strapotere delle industrie e dei centri commerciali. Qui è Tomaj, oggi poco più di trecento abitanti, sull’altopiano carsico sloveno, nel comune di Sežana. La casa dove Kosovel ha vissuto gli ultimi anni della sua troppo breve vita, e da cui osservava quel paesaggio così mirabilmente descritto, esiste ancora, ed è diventata una casa-museo che offre ai visitatori oggetti, libri e sensazioni di quella che è stata una vita breve e intensa, sofferta e poetica.

Srečko nasce il 18 marzo 1904 a Sežana, ultimo di cinque figli. Il padre, Anton, di origine contadina, è prima maestro e poi direttore della scuola elementare del paese. È appassionato di musica e dirige un coro. La madre, Katarina Stres, originaria di Sužid presso Kobarid (Caporetto), è stata dama di compagnia di una nobile famiglia triestina. Srečko è il più giovane di cinque figli, il beniamino della famiglia. Più del fratello Stano e delle sorelle Karmela, Anica e Antonija avverte, allo scoppio della Prima guerra mondiale, lo strappo da un’infanzia serena, vissuta in un ambiente armonioso e denso di attività culturali, anche all’interno della stessa famiglia Kosovel. Famiglia che nel frattempo si è trasferita a Tomaj.

Nel 1916 Srečko si iscrive alle scuole superiori di Lubiana, dove è costretto a vivere in misere condizioni, in austere camere d’ affitto condivise con i compagni dei corsi. Gli anni di Lubiana sono caratterizzati dall’intenso studio e da una vita ascetica, che però non gli precludono la partecipazione alla vita culturale della città. Ma sono anche, e forse soprattutto, gli anni in cui nell’animo del poeta trova forma quel sentimento che gli sloveni usano indicare con la parola hrepenenje, termine che si potrebbe tradurre con desidero, anelito, ansia, non fosse che contiene qualcosa di nostalgico, il rimpianto per ciò che non è accaduto e tanto meno accadrà. Questa è la brama che Kosovel prova per il suo Carso, per un paio di anni raggiunto solo durante le vacanze scolastiche, poi, conclusa la guerra, ancora più lontano: un confine lo separa dalla sua casa e dai familiari. Da una parte il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, riconosciuto dalla Conferenza di pace di Parigi nel 1919 (per Kosovel, come scrive in una lettera a Dragan Šanda, poeta e professore di francese, la condizione degli sloveni è quella di chi si sente «sotto i tacchi dello jugoslavismo»), dall’altra l’Italia fascista, che perquisisce l’abitazione familiare perché il padre non vuole iscriversi al partito.

Il Carso, comunque, resta la ‘casa’.

[…]

Siamo agli inizi del 1926. L’attività del poeta è sempre più intensa e febbrile, non risparmia le sue energie, vuole dire e fare tutto nel poco tempo che – ne è cosciente, lo testimoniano i suoi scritti – gli rimane. In febbraio partecipa a una lettura in un centro minerario sloveno, rientra febbricitante a Lubiana. A Pasqua si trova a Tomaj con famiglia, e qui le sue condizioni peggiorano, soffre di febbri ed emicranie. La diagnosi è meningite. Muore la sera del 27 maggio. Ha solo 24 anni. Accanto alla casa c’è una stradina che conduce al cimitero del paese, poche centinaia di metri. Lì è sepolto, nella tomba di famiglia. I suoi resti riposano in quel Carso che l’ha visto nascere e morire, vivere e combattere. Con le parole, l’unica arma che avrebbe mai potuto usare. Con quelle parole che saranno in gran parte riscoperte anni dopo la sua morte: nel 1931 Anton Ocvirk, storico letterario sloveno, cura e commenta le poesie scelte di Kosovel, ma solo negli anni Sessanta viene pubblicata per la prima volta la sua opera completa, e ancora agli inizi di questo secolo sono stati trovati e messi a disposizione dei lettori, in Slovenia, degli inediti. In italiano è possibile leggerli grazie ad ottimi traduttori come il già citato Brazzoduro, come Jolka Milič e Darja Betocchi, anche se poche volte le pubblicazioni dedicate al poeta del Carso trovano la forza di uscire dai confini regionali. Ma il suo è uno spirito che aleggia ancora oggi nella letteratura slovena e in quella che nasce lungo quello che non è più un confine, e non si può non pensare a Kosovel quando si parla di un’Europa incapace di riconoscere e valorizzare le sue tante culture. Non si può non pensare a quella vita «slovena, contemporanea, europea ed eterna»1, e allo stesso così legata ad un territorio ben definito come il Carso, il luogo dell’infinito ritorno.

(1)Da una lettera a Dragan Šanda

***

 

Jutro na Krasu

 

Sam grem po dolini kraški,

kadar vanjo jutro sije

in se morje zdrave sile

v mlado dušo mi razlije.

 

Sklonil bi se in pokleknil

pred ognjenim veličastvom,

kakor kral bi šel po Krasu

v duši s silo in bogastvom.

 

In pod silo mlade duše

bi se zemlja premaknila,

naša zemlja, bratje moji,

k soncu bi se primaknila.

 

Mattino sul Carso

 

Solitario vado per la carsica valle

mentre su essa il mattino rifulge

e il mare dalla salubre forza

nell’animo giovane si riversa e indulge.

 

Chinarmi vorrei e inginocchiarmi

davanti a questa ardente maestosità,

come un re camminare il Carso

con nell’animo impeto e prosperità.

 

E sotto il vigore di un animo giovane

la terra finirebbe per spostarsi,

la nostra terra, fratelli miei,

al sole lentamente accostarsi.

***

 

Sredi noči

 

Sredi noči, ko bori vzvršijo,

ko se drevesa iz sanj prebudijo,

kadar gre veter čez poljé,

se prebudi moje srce.

 

Med mesečino se polje svetlika,

topol, jagned in trepetlika

tiho šepečejo preko poljá

z nekom od onkraj sveta.

 

Sobice večnosti vse so odprte,

duše naše več niso potrte,

zlati odsevi sijejo k nam,

čutiš, da nisi več sam!

 

Nel mezzo della notte

 

Nel mezzo della notte, nel lamento dei pini,

mentre gli alberi si destano dall’onirica visione,

quando il vento la campagna ammanta,

il mio cuore trova nuova ispirazione.

 

Al chiarore della luna il campo favilla,

il pioppo, il salice e anche l’ontáno

a chi sta al di fuori del creato

sussurrano suadenti per il piano.

 

Le piccole stanze d’eternità aperte,

nell’anime nostre la speranza è in volo,

brilla il sole dorato su di noi

e senti di non essere più solo!

***

 

Bori

 

Bori, bori v tihi grozi,

bori, bori v nemi grozi,

bori, bori, bori, bori!

 

Bori, bori, temni bori

kakor stražniki pod goro

preko kamenite gmajne

težko, trudno šepetajo.

 

Kadar bolna duša skloni

v jasni noči se čez gore,

čujem pritajene zvoke

in ne morem več zaspati.

 

»Trudno sanjajoči bori,

ali umirajo mi bratje,

ali umira moja mati,

ali kliče me moj oče?«

 

Brez odgovora vršijo

kakor v trudnih, ubitih sanjah,

ko da umira moja mati,

ko da kliče me moj oče,

ko da so mi bolni bratje.

 

Pini

 

Pini, pini nel muto orrore,

pini, pini nel silente orrore,

pini, pini, pini, pini!

 

Pini, pini, tetri pini

come guardie sotto la vetta

per le lande pietrose

sussurrano grevi e stanchi.

 

Quando l’anima sofferta si china

oltre le vette nella chiara notte,

sento i suoni soffocati

e più non so dormire.

 

“Stanchi sognanti pini,

muoiono forse i miei fratelli,

muore forse mia madre

o è mio padre a chiamarmi?”

 

Senza risposta mormorano

come gravati da sogni angosciosi,

come se morisse mia madre,

come se chiamasse mio padre

e sofferenti fossero i miei fratelli.

***

 

Slutnja

 

Polja.

Podrtija ob cesti.

Tema.

Tišina bolesti.

 

V dalji

okno svetló.

Kdo?

Senca na njem.

 

Nekdo gleda

za menoj,

z menoj

nepokoj

in slutnja

smrti.

 

Presagio

 

Campi.

Una casa diroccata lungo la strada.

Oscurità.

Silenzio del dolore.

 

Lontano

una finestra s’illumina.

Chi sarà?

Un’ombra l’attraversa.

 

Qualcuno guarda

alle mie spalle,

al mio fianco

l’inquietudine

e un presagio

di morte.

***

 

Sam

 

Človek ni žalosten in ni vesel.

Svet se je čudno daleč pomaknil,

blodiš in tavaš kakor izgubljen,

vse je odplavalo, sam ne veš kam.

 

Lep obraz je ugasnil v sivi temi,

v meni odsevajo goli kostanji

in listje, ki pomendrano v dežju

gnije pod drevjem.

 

O, zakričal bi, da bi odmevalo

vse od gora, od gozdov, od dolin,

pa se bojim, da sam bi ostal

s potisočerjeno praznoto.

 

Solo

Non è triste l’uomo, né felice.

Il mondo si è allontanato inspiegabilmente,

vaghi e brancoli come sperduto,

non sai per dove, tutto è dato alla corrente.

 

Il bel volto nella grigia oscurità si è spento,

in me i nudi castagni riverberano

e le foglie, che calpestate nella pioggia

sotto gli alberi marciscono.

 

Oh, vorrei gridare, voce che riecheggia

dai monti, dai boschi, dalle doline,

ma di restare solo ho timore

con il vuoto che si ripete senza fine.

***

 

 

 

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2 commenti su “Srečko Kosovel, Quel Carso felice

  1. Amfortas
    13/03/2018

    Poeta nato a 10km in linea d’aria da casa mia, per dire di vicinanze che non sono solo geografiche mi di humus culturale.

    "Mi piace"

  2. Pingback: #273 – Srečko KOSOVEL – Ammirazioni

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