a cura di Giorgio Galli
Il primo tratto notevole della scrittura di Martina Campi è la mancanza di vocazione alla protesta. Sono esclusi dalla sua tavolozza i toni della rabbia e del lamento, anche nella forma attenuata dell’amarezza e del rimpianto. La sua voce è vibrante ma pacata. Il secondo tratto notevole è che mai o quasi mai usa il pronome io. Ad esso preferisce il noi e il tu. Non si tratta solo di una scelta stilistica -per quanto la poesia di Martina, come quella di Mandel’stam, come la pittura di Cezanne, sembri per scelta provenire dalle cose, come un canto degli oggetti, non egocentrico e non antropocentrico- ma della spia di una sensibilità autenticamente plurale, di un pudore autentico della soggettività. Delicate ma indistruttibili, sono davvero, queste, poesie di cotone. E sono poesie di silenzi.
William Kentridge ha realizzato, sul Lungotevere, un vasto murale non dipingendo sulle mura, ma pulendo lo sporco accumulato su di esse dal tempo. Ha lasciato “sporca” solo l’area delle sue figure. Ha lavorato, più che per sottrazione, per inversione, non realizzando le figure ma i vuoti. Martina Campi inverte in modo simile il rapporto fra canto e silenzio. Non è il silenzio una pausa nel canto, ma il canto una pausa nel silenzio. La sua poesia non è la più “tecnicamente” parca di parole, ma è una poesia silenziosa. Nel silenzio si ascolta. Martina lo sa come essere umano, che parla poco ma ascolta moltissimo. E lo sa come musicista sperimentale. Sa che in 4’33’’ di John Cage la musica altro non è che i suoni della sala da concerto, resi udibili dal silenzio del pianista.
S’incontrano molti sorrisi, avventurandosi in questa raccolta. Momenti d’ironia, di evasione fiabesca. Spunti surreali straniati dall’andamento discorsivo o notazioni quotidiane rese surreali dal verso breve. S’incontra una cura cristallina del suono dietro l’apparente ingenuità discorsiva. Ogni piccola gioia, in questa poesia, è medicina contro la più pura sofferenza.
*
Nelle conversazioni notturne, tenute per sogno,
le persone si attraversano annuendo,
corpi resti di lividi.
Le televisioni trasmettono immagini analogiche
dai contorni indefiniti, che possono essere corretti
con una semplice messa a fuoco dello sguardo.
Le poltrone poi, sono quelle conosciute,
accumulate nella memoria, con le tappezzerie e tutto il resto,
di qualche luogo appartenuto all’infanzia.
E ogni cosa è un messaggio (senza generalizzare,
né per la necessità di costruire coerenze),
regno d’altre sfuggevoli significanze.
Ogni scoperta fatta qui è piccola e raggelante,
segreto torbido, corpo che non ha materia
come quella donna, immobile sul pavimento.
Si vorrebbe fuggire, cercare i luoghi certi della pioggia
o fumare soltanto, in tumultuoso silenzio:
ma il fatto è che non ha veramente sanguinato.
Anche i cori, sono lontani
voci senza gola, anime appartenute ai viventi
alito d’ombre e tamburi.
Il gatto, con polmoni piccoli di gatto, infine
prende la sofferta decisione di fumarsi una sigaretta
e lo spazio, che trasporta distanze lunghe come lunghe
bugie, si mostra noncurante di ogni altrove.
*
Le catene di pioggia si rovesciano, allagano
e le strade di campagna si confondono coi fossi incolti
e le auto coi finestrini serrati azzurri si bloccano
e la città, vista da qui, sembra un miraggio.
Gli anni luce impiegati dal tempo non hanno tenuto conto
dei fili, dei legami, di un giubbetto inzuppato,
dei lacci delle scarpe, della suola, della gomma,
la scelta di non conservarsi al ricordo;
queste stagioni, di taglio impreciso, non hanno tenuto conto
di una bicicletta nera col cestino del pane, un soffitto bianco
sfondato da piedi bambini in fuga.
Di una voce che ha smesso di farsi sentire, da questa parte del mondo.
La città, vista da qui, sembra un miraggio
E gli alberi raccolgono pioggia tra le foglie
E noi ci facciamo acqua, sgocciolanti dai vestiti e dal volto
E portiamo in salvo le nostre borse, dalle correnti.
(Tutto intorno a noi)
*
Non è per piacere.
Non è per dolore.
Non è per spezzare
il corpo in due –
Ci interroghiamo sugli esiti,
come rondini stonate
all’arrivo dell’estate.
Ed è per sentire
fino a dove si può sentire
ed è per guardare – misurare,
quanto piccola e sottile –
la circonferenza che raccoglie
la differenza,
fra l’esserci o svanire.
*
Questa è l’ora
dei buchi nel muro.
Ora di pioggia e cotone
l’amore immortale alla parete
regge il buio, inghiotte i rumori.
Sonnecchiano i cuscini brillanti
sonnecchiano vicini
e le persone
si rigirano,
si ritagliano
le ore sottili
sotto gli ombrelli,
a chilometri di distanza
chilometri di corridoio
chilometri di sogni
e chilometri d’altri sogni
chilometri di sveglie
chilometri di stanchezze
chilometri di corridoi.
Forse il deserto ci somiglia.
(Corridoi sotto gli ombrelli)
*
Hai portato il sole e guardo fuori.
Il silenzio è necessario come la luce.
E ora, qui, non ci sono che fogli bianchi, ammucchiati.
Ho atteso tanto.
Tanto tanto ho atteso.
E ora.
Il silenzio è necessario.
*
Ci accadiamo lievi
neve dal cielo,
foglie dai rami.
(Una preghiera)
*
Come neve,
ricopre e poi disgela,
silenzia i rumori,
nel cielo artico
la stella del Nord
stilla anelli di latte.
Eravamo i soliti
a risalire le colline.
Apparteniamo al silenzio
ai ricordi cuciti di blu.
Sarà il rinvenirsi degli occhi.
(Canzone dell’ultimo inverno III)
*
Gli strati del freddo scivolano
le nuvole scivolano
giù
per alberi, semafori, muraglie
che non si riposano mai
né dubitano
del soffio caldo, e compassionevole
degli affetti e del mondo.
Non soffrono lo struggimento
della memoria.
(Martina Campi, Cotone, con disegni di Francesco Balsamo e una nota di Giampaolo De Pietro, buonesiepi libri, 2014)
Bellissimo libro, bellissima lettura!
ciao, caro Giorgio!
Giampaolo
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L’ha ribloggato su Istanze & Fantasmi.
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Grazie per questa lettura del mio Cotone, Giorgio. Grazie Perigeion.
Un abbraccio, Martina
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