di Giorgio Galli
L’estate del 2017 fu un’estate violenta: la temperatura superò i 40 gradi e il sud Italia fu devastato da incendi di quasi certa origine dolosa -e mafiosa. A Nocera inferiore, in provincia di Salerno, abita una giovane poeta per la quale quell’estate dovette essere un punto di svolta: una di quelle catastrofi che imprimono una nuova direzione a una vita artistica. Bruciati da quell’orrore finirono non solo i paesaggi cari all’autrice e gli animali, ma gli stessi versi della sua raccolta precedente, Temeraria gioia: che era caratterizzata da grovigli di parole e immagini che si accumulavano e rotolavano in orizzontale, interrotti da improvvise “sparate” verso l’alto, da sciabolanti ascensioni verticali. L’autrice vi esprimeva un dolore radicale e un altrettanto forte attaccamento a tutte le forme dell’esistenza. La sua solitudine era una solitudine panica, risonante di cromìe sfolgoranti. Era, l’autrice di Temeraria gioia, una poetessa prigioniera in una foresta di mangrovie, che dall’intrico dei rami mandava allucinati SOS, ma in fondo sperava che nessuno venisse a salvarla perché voleva salvarsi da sola. Il moto continuo di estasi e angoscia era per lei l’humus su cui stava nascendo la sua forma poetica. Giustamente non voleva abbandonarlo.
Poi tutto è bruciato. E di fronte a quel paesaggio disanimato la poetessa aveva bisogno di una nuova forma espressiva. Davanti al suo sguardo s’erano spente le luci favolose, e s’era accesa in compenso la lampada di chi desidera indagare, andare a fondo, la lanterna del minatore o del pescatore.
Dico subito che questa ipotesi non l’ho verificata con l’autrice. E’ suffragata solo da un ricordo: ero in contatto con Eleonora in quei giorni, e ho presenti le foto che mi mandava, il suo stato d’animo, le poesie che iniziava a comporre -e di cui forse sono stato tra i primi lettori- così diverse da quelle di Temeraria gioia, e di cui lodavo il nuovo tono secco e diretto.
«Dalle carcasse dei gatti lasciate
nella cenere di questi disastri
sale un fumo di arancia rossa
amarissima, riconosciuto veleno:
forse la ricorderemo questa strage
nella malattia, come non sai se di gioia
o rabbia o noia piangono abbracciati
quei due seduti avvinghiati
sopra la panchina, dietro il campanile,
mentre ci avvolge tutti la stessa nube
rubina, l’uguale sorte tremenda.»
Già possiamo osservare la presenza, nell’incipit, del trauma originario dell’incendio, e la “fuga” verticale rappresentata dall’immagine dei due abbracciati nel bel mezzo dell’incendio. Ma si può osservare anche l’attenzione, tra il realistico e il mitopoietico, con cui l’autrice inserisce nel suo quadro due dettagli identificativi di un piccolo paese e della sua piccola vita: la panchina e il campanile. Anche l’incendio è identificato da dettagli: le carcasse dei gatti -negli incendi dolosi si vocifera sovente di animali usati come inneschi-, la cenere, il colore spaventoso della nube. E’ un incendio interiorizzato, che quasi subito perde i suoi tratti realistici per assumere l’aspetto di un incubo. C’è un lavorio mentale che distacca fin dal principio la realtà da se stessa e la assorbe nell’universo poetico dell’autrice. La seconda parte inizia infatti con “forse la ricorderemo questa strage”, che indica l’anticipare al presente l’elaborazione futura della memoria, tipico di una forte interiorizzazione. La strofa è dominata dall’immagine dei due che si abbracciano sullo sfondo del disastro. Cosa suggerisce quell’immagine, all’io poetico?
Costruite su sottili contrasti, le due stanze della poesia registrano prima lo sgomento di fronte all’orrore, poi una volontà di resistenza all’orrore, simboleggiata dall’abbraccio. Anche altrove è possibile rilevare una suddivisione in due parti, magari non segnalate da un cambio di strofa, ma da una sintassi concitata e un improvviso accendersi del tono:
«Rispondendo sempre ad una sete
mi attardavo, era il tuo l’ultimo profilo
inarrestabile, mentre ad uno ad uno
si spegnevano i vicoli e moriva
l’autofficina. Pochi ragazzi e alcuni
operai si nascondevano nelle cucine,
idratavano la gola, poi si concedevano
ore di fantasia, annegavano al telefono
e fuori un altro secolo, un’altra storia,
la preistoria delle voci senza lingua,
senza bugia, la destra immacolata.»
Il dato di partenza anche qui è una realtà difficile -realtà sociale povera in uno spazio angusto- ma fin da principio la scena appare osservata da un io poetico in stato d’ansia; e negli ultimi tre versi un varco metastorico si spalanca e attira su di sé ansie messianiche: il piacevole svuotarsi del vicolo per il rientro a casa degli operai risulta così magico che pare preluda all’adempimento di tutte le promesse non mantenute, alla risposta a tutte le domande lasciate inevase dall’eterno. Qui il mutevole e l’immobile si contrappongono in modi diversi lungo la durata della poesia: dapprima rileviamo l’opposizione tra il movimento della scena e l’immobilità di chi la guarda; poi, dopo un breve passaggio, siamo presi dal contrasto tra l’immobilità del quadro e l’ansia espressa dai tre ultimi versi. E’ un varco metastorico futile, aperto da un pretesto futile, ma significativo delle vite prigioniere tratteggiate dalla poesia.
Metastorico è il clima di catastrofe che incombe su tutta la raccolta. Qui, per esempio, a dire Io potrebbe essere un giovane intrappolato negli incendi, con la sua giovane vita da precario, oppure un antico morto di Pompei o di Ercolano:
«L’arancio violento mescolato nel fuoco
fuma profuma di morte la stanza
ed io caduto fuori dalla vita non ho
ancora imparato a rialzarmi, sempre
in posizione orizzontale mi sforzo
di ricordare il primo giorno -quanto
avrò gridato, pianto, protestato?»
Eleonora Rimolo costruisce l’epos di questa terra originale attingendo a elementi fortemente realistici e stilizzandoli in architetture severe, dove la bilancia alla fine tende sempre verso la metafisica e la metastoria. Ma l’epos ha toni trasognati. Ricorda a tratti il Pavese poeta, anche per la musica ipnotica dei versi, che hanno un curioso swing creato dall’alternarsi di obbedienza e disobbedienza alla metrica, o conoscono abbandoni liberi come questo, trattenuto però dal tono di mestizia:
«Ho saputo della mareggiata al di là
delle colline, ho sentito il sale nella gola
che ora infiamma e mi tiene muta
dietro questi schermi. Mi manca sedere
sulle barche rovesciate, sentirmi giovane
insieme a te, seguire la danza dei pescatori…»
Anche la rappresentazione dell’amore oscilla fra lirica e mito, con in più il contrasto tra la crudezza del paesaggio emotivo e l’immaginario mistico che la racchiude. L’autrice pare muoversi, audace, sulla faglia tra epos da eros.
«Se solo non ci avessero inchiodati
a questa croce di primizie dolcissime
nemmeno ci saremmo accorti di essere morti:
tu adempiuto oramai al compito della vita,
io negligente schiava della norma, per sempre
adolescente.»
«Il grigio incenso della sagrestia e noi,
fiamme bambine contro la preghiera
informi dentro sacchi, spesso mute:
in quegli anni era tutto un rimanere
e il tuo sesso non cresceva
-non cresceva- sotto i miei baci
pesanti come sassi.
Impenetrabile eri
il cardine di ogni altrove,
la sola metafisica possibile,
il digiuno forzato del penitente.»
«Nella combustione l’obbedienza si perde
a questo dovere o a quest’altro e accade
che ognuno riguardi alla sua libertà
più teneramente: come quei feticci invano
adorati ci accordano il loro silenzio
i gabbiani così volano alti senza il grido
salvi dalle loro fascine: contano le ali,
si ritrovano lacerati e leggeri,
in numero dispari.»
Alcune volte la proliferazione d’immagini fa pensare a Temeraria gioia, ma ha segno diverso: l’autrice sembra passata da una primavera senza fine, da un essere “per sempre adolescente” a una disposizione adulta anche se non disincantata. Da uno sguardo quasi miracolistico a un altro duro, severo, ma non completamente laicizzato. Dall’identificazione tragica col Tutto al pensiero tragico di Tutto. Dopo il trauma dell’incendio, a muovere la scrittura di Eleonora è proprio il contrasto tra la coscienza di un reale meschino e criminale e il bisogno insopprimibile di qualcosa d’altro, qualcosa di meglio: che prende le sembianze di un varco metafisico e metastorico, che ha le accensioni dell’amore -salvo la consapevolezza, poi, degli aspetti meschini dell’amore- e che, in definitiva, è un quid non ancora ben identificato, non ancora ben incarnato a questo stadio dell’evoluzione della poetessa, e la cui tensione porta spesso a chiedere rifugio in un topos letterario: l’incoscienza del mondo animale, il sublime non-essere della natura. Non basta, e l’autrice lo sa. Ed è questa autocoscienza che la porterà a discutere tali conquiste provvisorie e andare avanti. Intanto però
«Accade. Senza rimedio come in un quadro
dalla finestra l’uomo seduto ricurvo sul letto
è una macchia di colore, una scala di grigi,
tono su tono dentro questa cornice di pioggia.
Qualcun altro se ne va senza essersi rialzato:
non si dura molto fuori dai propri ospedali.
Il Levante ha portato ai miei piedi
un torsolo di mela, fradici scarti che dovrò
ripulire con la tua voce annodata alla porta,
quando la vecchiaia era un debito
da saldare, e cadendo ogni volta non cercavi
soccorso, solo più tardi domandavi un sorso
d’acqua e con le labbra tumide chiedevi
ancora.»
Come in Temeraria gioia, anche qui ci sono passi che “sparano verso l’alto”, che aggettano anche dal corpo di poesie poco felici. Poco felici sono però anche i tentativi di misurarsi con la gnome, colla sintesi esplicita di un concetto. Evidentemente Eleonora Rimolo, che è critica, studiosa e docente, vuole nella poesia il canto più puro, la considera una riserva di canto, complementare e contrapposta alla quotidianità -anche accademica e letteraria. Dunque questi passi aggettanti riescono tanto più belli quanto meno concettualizzano e quanto più si muovono, invece, sul terreno ambiguo, congeniale a Eleonora, di confine fra epos ed eros.
(Eleonora Rimolo, La terra originale, LietoColle, 2018, collana Pordenonelegge.it)
Evidente che tra la prima raccolta e la successiva ci sia stato uno scatto, un passaggio- di tono, di sguardo; é una scrittura chiaramente in fieri, verso esiti ancora non preventivabili: starà all’autrice decidere in che direzione risolvere questa oscillazione fra realtà e simboli, che comporta quella – più ampia, esistenziale – fra fatalismo nichilistico e fede in un varco, fra oblio della cenere e ricerca dell’anello che non tiene
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Osservazione che condivido pienamente.
Francesco
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