perìgeion

un atto di poesia

Giovanna Amato, “L’inizio della scrittura”

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di Giorgio Galli

Un’atmosfera aurorale e surriscaldata attraversa la prima raccolta di Giovanna Amato, ottima narratrice che al suo esordio in poesia sciorina una naturalezza adolescenziale e una perizia da poeta maturo. La brevità dell’opera, il tema amoroso, l’intensità e gli sprazzi d’ironia mi spingono ad accostare L’inizio della scrittura (Fusibilia, 2018) a un altro piccolo prodigio dell’anno scorso: Zamalek di Eliza Macadan (oggi riedito da Terra d’Ulivi). Ma, mentre Zamalek è il frutto di un periodo disincantato della vita, questa poesia è immersa nell’identificazione tragica con la vita propria di una sensibile giovinezza. E, mentre le incursioni di Eliza Macadan nel fantastico sono visionarie e incendiarie, la più giovane “collega” dispiega in questo Inizio i timbri malinconici delle fiabe per adulti di cui è autrice. Fiabe meditative a amare, che quasi sempre sublimano un nodo doloroso nei rapporti umani senza che nella trasfigurazione se ne perda il nucleo caldo e dolente.

Giovanna Iorio, nella Prefazione, scrive che l’energia che si sprigiona da questi testi è “simile alla forza impetuosa eppure mite della primavera”, e definisce i versi di Giovanna Amato “incalzanti eppure lievi”. Stralcio ancora dalla sensitiva Prefazione:

«Io non nascondo di aver tremato leggendo questa impetuosa raccolta, come una foglia […] sono rigenerata dalla sublime sincerità di questo ardore che accende ogni parola de L’inizio della scrittura.

Quando non brucia l’amore ha “il suono limpido e serale / come al sabato santo, al mio paese / il gloria sciolto a furia di campane”.

Eccola dunque, tra tempeste e ore serene, la voce pura dell’amore. Non abbiate timore a farvi travolgere dalla passione che divampa tra questi versi: vi aspettano parole ardenti e pagine in cui assaporare la quiete.»

Verifichiamo questo slancio sulle parole stesse dell’autrice:

 

«Alziamo gli occhi per festeggiare un trionfo

alla volta affrescata di un trigramma.

Ma per chi di noi sa vedere, la gloria è un angelo di stucco,

tortile e sporgente dal soffitto.

Possiamo interrogarci su chissà quale impalcatura

(l’opera umana che assidera la gravità)

alzata in tempi remoti, quando bambina, mia bambina,

c’era chi provava per quel cristogramma

e per quel marmo da curvare con le mani

la bruciatura dei primi martiri che io

provo per te.

Ho una voce d’organo nel petto.

Le ali di stucco dell’angelo non possono vibrare

ma il brusio degli altari mi parla, mi parla,

stordisce ogni pensiero che non ti riguarda

mio agnello mia colomba.

Usciamo all’aria.

La guida alza la voce per coprire

la sirena di un’ambulanza di passaggio,

vita che prosegue

anche se io sono innamorata di te.»

 

C’è una semplicità da Cantico dei cantici, una ieraticità tremante in questi versi. E una grande musicalità. Musicista e appassionata di musica, l’autrice sembra approdare alla poesia soprattutto per ragioni sonore. Il suo verso -sia imbrigliato nell’aurea gabbia della metrica, che sguinzagliato nel metro libero- ha una qualità profondamente “cantata”. Lo possiamo vedere in questi altri due esempi, il primo febbrile, il secondo pieno di grazia:

 

«È possibile che le rondini non siano ancora arrivate

se io ti amo, possibile che quei due sulla panchina

insistano nel litigare, possibile che Hugo non abbia scritto

nient’altro anche se ti amo, possibile che sia

tramonto qualche secondo più tardi e l’alba

arrivi prima, possibile che io ti ami e il polline

perseveri nel farci male. Possibile

che quei turisti abbiano un’altra lingua madre,

che un uomo canti al lato della strada, possibile

che il travertino assorba il colore del sole anche

se ti amo, possibile che i preti sfilino

con in cuore la loro fede rovente, e il glicine finisca

dove inizia il ciliegio anche se io ti amo.

Possibile che nessuno mi ceda il posto in autobus perché

ti amo, possibile che io non ceda il posto a chicchessia,

possibile che io riesca a leggere le scritte su

un cartellone da sinistra verso destra, che la giacca

sia troppo calda per questo cielo di primavera, che di notte

dorma, che senta la sete quando è il tempo di bere

anche se ti amo.»

 

«Io lascio sempre il mondo come l’ho trovato.

Sprango sempre il portone, lo chiudo

se lo trovo soltanto accostato.

Non disturbo la corte del piccione

dal passo sbilenco e il collo dilatato.

Quando ho finito di usare il sale lo sistemo

nel punto esatto da cui l’ho prelevato.

 

Signore fino a qui spietato,

fa’ che io non sia anche con lei come il volpino

che abbaia al dobermann solo quando è legato.»

 

Con sensibilità estrema, quasi patologica, Giovanna rimette l’amore al primo posto nel fare poetico, e attraverso l’amore definisce il proprio io lirico:

 

«Io sono la ridicola

precipitosa fuga di un vettore

da un punto astruso al piano cartesiano.

Sono lo schiaffo e forse la risata

che Dio ha spedito indietro al suo mittente

quando chiedeva amatemi, e tra tutte

è stata la mia bocca a dire: sì.»

 

«Il mio amore si è ricoperto di cardi

e si è ripiegato per la paura di te.

Ha parlato

solo quando la primavera ormai era meno timida,

la primavera dei platani, il verde che nasce ogni anno,

e quella che tu mi hai barricato nel petto

foglia per foglia, come chi nasce la prima volta.»

 

L’ardore dell’io poetico sfocia in un aforisma gridato che è quasi un Credo:

 

«Amino di più soltanto i santi.

Di meno, non lasciarti amare mai.»

 

Il campo semantico dell’amore è esplorato con una specie di ebbra lucidità, e la sua esplorazione si fa pellegrinaggio e calvario, si fa carne nella ricerca di una comunione con l’oggetto d’amore sentita come irrealizzabile ma necessaria (potrei sbagliarmi, ma vedo un richiamo rilkiano in questa mistica di un amore così sentito e così poco vissuto):

 

«Tu non la sai la tragedia che mi hai messo in petto.

Io sento i sandali di tutti gli eroi battuti nella polvere

di quelle creature che gridavano per le torsioni degli dèi

chiedo il perdono per tutto quello che non ho commesso

e prometto di espiare una pena che sto già scontando.

Eppure nessuno scenario mi è più caro di quello che mi hai tracciato intorno

e nessuna vita è più viva di quella che sto vivendo

mentre mi sento cieca e zoppa, e più che fratricida

e mi ostino a salire in cima al Citerone.

Tu sia benedetta per questa peste che mi corrode, sia

benedetta tu per questa peste che mi sgretola.»

 

Le verità che l’autrice enuncia e rende poetiche sono semplici, e perciò richiedono coraggio:

 

«Se mi sbagliassi e tu fossi davvero

soltanto quello che dipingi e nulla

di te portasse addosso la scintilla

del pianto sconsolato, del tremendo

riso precario, se fosse il mio sguardo

a darti in pasto al nero? Se soltanto

fossi una tra le altre, meno di altre,

e tra le tante poca, e mi ostinassi

a imporre albero e frecce a uno scenario

di qualche tuo martirio inesistente,

e non ci fosse niente

in te dell’animale condannato

del leccio che si arrende alle stagioni

dell’astro che si asciuga via dall’orbita

segnata, dal tragitto prefissato?»

 

Dividendo idealmente L’inizio della scrittura in tre parti scandite dalle poesie Interludio primo e Interludio secondo (l’uso di una terminologia musicale rivela sia la coerenza ispirativa sia la consapevolezza di sé dell’autrice) posso dire che la terza parte non ha la stessa compattezza delle precedenti, e intarsia versi e passi potenti in tessuti non sempre all’altezza. Il componimento finale, però, intitolato Canto dell’innamoramento umano, è tra i più belli. La capacità di Giovanna Amato di cogliere tutte le tensioni del campo espressivo dell’amore la porta a fare un canto generale di questo sentimento indispensabile e antico, a muoversi dentro un universo per eccellenza lirico col passo dell’epica -pur conservando la sua mano delicata e tremante. E le auguro buon cammino dentro la poesia, perché abbiamo bisogno di una sensibilità come la sua, del suo coraggio colto di dire cose semplici.

 

«E quando il viaggiatore

posò il suo primo piede sul tuo suolo

ultima Thule,

si tolse i sandali per sfiorarti scalzo.

Tu non l’hai visto il volto di corsaro

mentre affinava gli occhi dal riverbero

dei ghiacci, non l’hai vista la sua mano

seguire tra le crepe dei tuoi sassi

le lingue fiammeggianti dei tuoi fuochi.

Tu guardi un oltre ancora

che all’uomo non è dato intravedere.

Seduto sulla sponda

della tua falda estrema, il viaggiatore

ha preso il viso tra le mani e ha pianto.

E non per il tuo sole

che non tramonta, non perché altri piedi

ti avrebbero calcata, terminale

terra di tutti e patria di nessuno;

piangeva per l’esilio

che presto si sarebbe consumato.

Abbi pietà. Divoralo. Non scopra

che fuori dalla tua alba sconfinata

c’è il deserto.»

Informazioni su Giorgio Galli

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena. Vive a Roma dove per due anni ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato "La parte muta del canto" (Joker, 2016), ritratti biografici di grandi musicisti del passato; "Le morti felici" (Il Canneto, 2018) e “Le voci sopravvissute” (Gattomerlino, 2020), piccole collezioni di brevi prose poetico-narrative; il racconto lungo “Il matto di Leningrado” (Gattomerlino, 2021) e la raccolta di poesie "Canzonacce" (Delta3, 2021).

Un commento su “Giovanna Amato, “L’inizio della scrittura”

  1. vengodalmare
    08/04/2019

    Poesia onesta, bella, sensibilissima. Vero, il Cantico finale ne è la prova,

    Piace a 1 persona

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