di Giorgio Galli
Più depositato e meno drammatico del precedente Oltreverso, Claustrofonia affonda nel rapporto tra memoria e dolore, tra memoria e oblio, tra lutto e lutto mal elaborato:
*
«chiedo quando il lutto fosse elaborato non ne ho memoria
è successo sento niente nel torace ho smesso
di pulsare verso un buio circolare lentamente
ammainata spenta senza dirmi una parola»
*
All’origine della poesia sembra esserci una memoria cicatrizzata, che lascia come traccia di sé un attonito deserto, in cui la figura umana è ridotta a una bambola:
*
«nel bieco patetismo di un pupazzo
– non sono mai stata così rotta -»
*
Quello che sto per scrivere non lo scriverò “da critico”: non ne ho l’autorevolezza e la competenza; sono un allievo della poesia, che leggendo impara e riferisce ciò che ha imparato. Nel caso di Claustrofonia è ancora diverso. Ho vissuto questa poesia, la ho abitata ed essa mi ha abitato. Ed è di quest’esperienza che scrivo. Esperienza di un’opera che mi ha scavato dentro, che mi ha coinvolto fino alle viscere sia per la materia del dire, sia per la perfezione della forma. Una forma ribollente perché levigata. Ho l’impressione che in Doris la poesia nasca già formata. Se fosse una musicista, sarebbe Miles Davis, che aveva un senso della forma così preciso da permettergli di unire la libertà dell’improvvisazione alla visione strutturale di chi il pezzo lo ha meditato a lungo prima di realizzarlo. Potersi lasciar andare perché la visione d’insieme è così forte che mai si può perderla. E’ il privilegio di pochi. E credo sia il privilegio anche di Doris.
Claustrofonia allude fin dal titolo al mondo dei suoni. A un mondo di risonanze custodito in un’interiorità ipervigile e iperavvertita. Suono e risonanza sono sempre presenti, sia come evento esterno, sia come traccia interiore. E Doris sembra averle entrambe presenti al massimo grado -radiografarle con antenne da pipistrello. Ma, oltre che di suono, la sua raccolta è piena anche di immagini. Che condensano e rendono sopportabile quel vivere –o rivivere- più intensamente che è la scrittura. La parola di Doris è pietra di fondazione, che forma le percezioni, risemantizza il mondo, scardina l’ordinamento del mondo con un nuovo accostamento tra i significanti. La parola come rifondazione del vissuto, come atto -anche- di rivolta:
*
«cerco la nota distorsiva – quella – capace di cancellare il nesso
l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo»
*
«ne ho abbastanza di metafore seriali
– catenazioni – degli oggetti presi in prestito
il vuoto manca almeno quanto il pieno»
*
A questa intensità, chi scrive si ustiona scrivendo, e il lettore che davvero accetta la scommessa di entrare in questo gioco si ustiona a sua volta o, come minimo, si abbaglia. Sono abbaglianti le immagini che l’autrice genera, frutto di un’attenzione insonne, che le permette di definire e contornare i dettagli anche alla temperatura emotiva più alta:
*
«mi decretai la morte il giorno di grano perpetuo
splendeva una stele sotterranea e
fu talpa farsi sorda di clausura
tremando poi – tellurica – nel raggio d’oltremondo
così tenero e malsano da penetrarvi il cuore
senza respirare trattenendo il cosmo esplodendo di piacere»
*
Unici di Doris sono il modo cui cui parla della solitudine e quello in cui parla dell’eros. In epoca cristiana, l’eros è vissuto come colpa o come trasgressione, sempre comunque come una rottura dell’ordine consueto delle cose. Doris ne scrive con sensibilità pagana, come di una cosa perfettamente integrata nell’ordine delle cose. Non una colpa e nemmeno un’eccezione. Un fatto. Anche la solitudine è un dato terrificante ma oggettivo, fotografabile usando parole nettissime:
*
«cade di dentro una povere sottile
sofferente tossica per provenienza
sigillante untuosa in ogni accesso di respiro
………….eppure spinge nella deprivazione
*
si è fatta adulta la solitudine rombante
non cede ai paramenti d’espressione
si lascia cadere con un colpo di coda
reggendosi bene al silenzio verboso
di un rigurgito rancido
*
furono giorni freddi senza appello, delle – madri –
vestaglie su grembiali da gettare
lenzuola stese dondolanti come strappi nella carne
le parole sì le parole [agiscono] frontalmente appese
come insetti sulla carta moschicida»
*
La stessa precisione -con un di più di ironia- l’autrice la riserva a se stessa in questa folgorante autorappresentazione :
*
«Sono un’illusione ottica e sonora un catarifrangente d’estesia
una di quelle cose che non stanno nel mondo ma ci passano accanto
vedono ascoltano mangiano ma non per davvero, lo mimano dentro»
*
Ma l’ironia può modificarsi in qualcosa di più perturbante, uno straniamento spinto fino al limite della dissociazione: uno sguardo esterno ed estraneo su se stessi:
*
«indossavo tacchi alti e un cappotto troppo leggero
per dirti – sono io – quella qui dentro»
*
A una semiosi sociale che polverizza l’individuo riorganizzandolo come essere seriale, o che lo sprofonda in un’interiorità preformata che in realtà è una forma raffinata e furba di alienazione, Doris oppone il radicamento in una pratica poetica vissuta come vigile abolizione dei nessi consueti, come violazione del “buon senso” in nome non dell’edonismo narcisistico, ma della lucida volontà di non farsi abolire. Senza far saltare i nessi logici, il dettato si attesta talvolta al confine di essi, in un tono rapinoso e ipnotico:
*
«come si altera un presidio dell’io così non disposto a recedere
ad ammettersi altro che non identico a sé
come si ottiene una tregua un lasciapassare uno scatto al traguardo
vedersi finalmente diversi nell’eguale alla parte più vera di un mondo
che genera il movimento abitato del volto la fiamma nell’occhio
il tremore della voce che traspare evidente all’udito più dolce
…………………….. vicino gemello»
*
In una vigilanza che consente tutta la gamma degli abbandoni, si elevano canti d’amore purissimi:
*
«delle distanze a perdersi non pervengono misure
potrei starti nel risvolto della tasca
infiltrata in cucitura tenendo quella briciola di pane
persa di merenda che non ti conoscevo ancora
farmi formica e tu gigante, risalirti il bordo
che viaggia lungo il corpo mascherato da universo»
*
Con quanta naturalezza la creatura che ama dice qui la sua fiducia nell’amato, il desiderio di rimpicciolirsi fin quasi a sparire dentro la fusione dell’amore. Non è l’abolizione dell’individualità, è al contrario il suo potenziamento, il suo cantare -per scelta- anche in un coro. Il desiderio di offrirsi e, offrendosi, rinascere a maggior vita. Perché l’attitudine di Doris verso la vita -e a ben guardare anche verso la poesia, questo luogo dove la carne s’imparola e le parole cercano la stessa vita della carne- è un’attitudine gioiosa ed entusiastica. Il male incontrato nel mondo può ferire, non spegnere una natura che può dire di se stessa: “li divoro i giorni”.
Atto creativo feroce e felice, la parola ricrea l’autrice e crea il suo mondo, ma è anche lo strumento con cui canta le lodi dell’esistente -quando l’esistente lo merita. Radicalmente ottimista, l’autrice oltrevede la bellezza anche nelle sue momentanee eclissi:
*
«in fondo sono così belle le stelle
nel blu solare di un giorno che non può vederle»
*
Un amore creaturale si riversa sugli animali, “poveri eroi celesti”:
*
«oggi ho visto i levrieri, parevano tristi con lo sguardo lontano
o forse ho scagliato la mia lontananza nei loro occhi, così antichi»
*
Infine la parola poetica è anche elogio della parola stessa, di quel linguaggio di cui l’autrice ama tutto, anche la pura inquietudine fonica, la vitalità in se stessa del significante, che precede la costruzione della parola, della frase o del verso:
*
«un rumore in costruzione nell’orecchio antecedente il verso
ora – crollo – senza stordirmi valuto il nome, orgia del suono»
*
(Doris Emilia Bragagnini, Claustrofonia: sfarfallii – armati – sottoluce, con prefazione di Plinio Perilli e postfazione di Laura Caccia, Giuliano Ladolfi Editore, 2018)
Una Nota di lettura davvero splendida che “entra” nei meandri del discorso poetico di Doris, evidenziando quanto la poesia dell’autrice “ricostruisca” la realtà in modo personalissimo, procedendo per lampi, intuizioni, accostamenti alogici eppure efficacissimi nel rendere quella solitudine, quel dolore che ci portiamo dentro come un ‘inevitabile lasciapassare, straziante ma necessario per scavare fino al fondo di ciò che siamo e viviamo. Da qui il linguaggio vigoroso, tagliente, quasi violento, che sovverte ogni certezza, la disintegra e la ricostruisce – giustissimo il rilievo sull’eros, presente e assai marcato, ma mai in modi “convenzionali”, casomai ridato alla sua essenza di pulsione naturale non ingabbiabile in strutture istituzionali nè tantomeno in “etichette” socialmente rassicuranti. Una poesia , come subito avverte Giorgio Galli – affascinante e insieme “ostica” al primo impatto, che richiede di “entare dentro” per essere “sentita” prima ancora che capita e inquadrata razionalmente. Complimenti a Giorgio Galli per l’ottima analisi (sapiente la scelta dei passi) ed a Doris per costringerci, leggendo e vivendo i suoi versi, a ripensarci, a scavare tra i cunicoli dell’anima e le ferite dell’esperienza. Un carissimo saluto ad entrambi.
"Mi piace"Piace a 5 people
Ti ringrazio molto, Francesco.
"Mi piace""Mi piace"
Bella recensione, libro di valore.
Grazie a entrambi.
Nino
"Mi piace"Piace a 2 people
grazie Nino
"Mi piace"Piace a 1 persona
mi accingo alla lettura dell’intero libro di Doris, già da questo spoiler comprendo che non sarà certo tempo perso, grazie
"Mi piace"Piace a 2 people
grazie Flavio
"Mi piace""Mi piace"
Un grande e sentito grazie a Giorgio Galli, per il finissimo ascolto, per il tempo e la preziosa attenzione dedicatami.
Grazie a Francesco, Nino, Flavio, ai lettori e a Perìgeion che mi accoglie per la prima volta…un caro saluto a tutti
Doris
"Mi piace"Piace a 1 persona