di Cupido
Si può ricostruire la linea di universo di un libro di poesia?
Ho incrociato questo libro su una bancarella dietro a Castel Sant’Angelo, lo scorso agosto. Il libro è del 2004, ossia già vecchio (anche se miracolosamente ancora disponibilesul sito dell’editore). Sulla prima pagina un certo Stefano ha scritto “Tanti auguri di un sereno Natale e un eccellente 2005”. Chi era il destinatario del dono? Perché il destinatario rivenduto il libro così presto a una bancarella dell’usato? Domande che resteranno tali.
Il libro è una raccolta di haiku. Centocinquanta, accuratamente numerati. È presentato della presidente del Centro Urasenke, Michiko Nojiri, in un musicalissimo italiano non tradotto, ed è preceduto da una nota dell’autore, Mario Gravina. Gli haiku sono accompagnati ciascuno da un breve commento in appendice; sembra che a Gravina prema trasmettere puntualmente al lettore anche quello che la poesia non dice, o che lui teme non dica; ma il commento si può anche ignorare, se si vuole, e a me che sono curioso non dispiace. Ogni haiku è caratterizzato da una parola riferita alla stagione (kigo), come prescritto dalla tradizione: anche in questo Gravina rivela qualche incertezza, incatenato com’è alla regola formale, e disposto al tempo stesso ad accettare come kigo termini arbitrari e alle volte bizzarri (che kigo sarebbe “Dario Bellezza”? e “intifada”?). Ciò detto, il libro è una delizia. La qualità degli haiku è molto buona, a tratti eccezionale. Ciò che Gravina capisce benissimo, al di là della teoria, è che l’haiku perfetto è quello composto senza assumere alcuna “posa” nei confronti dell’oggetto osservato. Che quel che conta non è dimenticare il proprio io ma guardare ad esso come a uno dei tanti oggetti del mondo. Da buon occidentale, l’autore non riesce sempre nell’intento (a volte la “posa” è quella dello spirito sensibile, rapito in religiosa contemplazione: e anche questa è un di più, si traduce in un tono troppo consapevolmente dolce), ma quando se ne dimentica, il risultato è stupendo.
21
nel silenzioso
bosco Camaldolese:
l’upupa ed io
46
mi emoziono
a guardare in faccia
una formica
66
non tra i vivi
ma tra i morti trovo
la vera pace
105
in questa notte
appaiono diverse
anche le stelle
110
mentre l’aspetta –
un passero saltella
vivacemente
144
vento di bora
mi piego in avanti
per non cadere
Ora, leggendo l’opera, mi accorgo che più di essa mi interessa il percorso dell’oggetto-libro che la contiene. Perché è giunto fino a me, e per quali strade? Traspira dalle pagine un senso di Dio molto preciso, una fede non dissimulata che è piuttosto rara in un libro di poesia contemporanea (“fede non solo cristiana”, specifica Gravina in nota; ma intessuta di simbologie cristiane, e legata a doppio filo a una cristianissima speranza). La seconda sezione, in particolare, è quasi un libro di salmi. Il volume fisico, lo ripeto, è del 2004. Se l’avessi letto allora, l’avrei sentito molto più vicino; ne avrei condiviso appieno l’ottimismo e la fiducia. Ora giunge a riscuotermi come uno schiaffo in faccia, come un rimprovero ad alta voce da parte dell’uomo che ero allora: perché ti sei fatto più cinico? Davvero il male del mondo è tale da giustificare questa tua involuzione? O non è anche questa una posa che ti sei costruito?
Il libro era da sempre nel mio passato, e io nel suo futuro. Il punto dello spazio-tempo in cui eravamo destinati ad incontrarci è questo, e non un altro. Ancora fatico a decrittare il messaggio, ma sono sicuro che un messaggio c’è.
La sua linea di universo proseguirà, credo, nella tasca di un uomo senza fissa dimora che a volte incontro sulla soglia della chiesa dei Cappuccini a Trieste.
Mario Gravina, Il volo dell’aquilone (Empirìa 2004)
… e nelle nostre teste senza fissa dimora. Grazie.
Contemplazione, stupore del luogo, di noi nel luogo.
Non è fuori tempo.
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quanti sdoppiamenti, Guido q!
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quanti doppi, guidoq!
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Davvero sentiti questi versi ma quasi fuori dal tempo, eremitici.
È un ottimismo convinto non puramente formale che si fatica a trovare nell’era social, la volontà nascosta di scorgere la bellezza nell’alcova di uno sguardo attento e amorevole.
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