a cura di Giorgio Galli
Nelle prime pagine di Autism spectrum (Arcipelago Itaca, 2019, con postfazione di Anna Maria Curci) troviamo qualcosa di così dolorosamente limpido, così rispettoso nell’addentrarsi nella furia della sofferenza, da dare la sensazione di essere stati capiti. Accade così quello che accadeva con la tragedia greca: che la rappresentazione del dolore sortisca l’effetto di rasserenare, di rimettere in pace col mondo. Chi conosce cosa sia un disturbo di spettro autistico -e chi scrive lo conosce bene- forse non ha mai letto una descrizione degli occhi di un autistico più esatta di “cloro in un loro cielo”. Né una resa più sintetica del contrasto tra l’enorme dispendio di energie che caratterizza l’esperienza interiore dell’autismo e l’esiguità della sua presenza nel mondo. Definire lo spettro autistico per sottrazione d’essere è forse l’unico modo possibile non appena si esce fuori dall’astrattezza del discorso scientifico per procedere nell’ingranaggio umano in cui in cui i neurodiversi sono -come scrive la poetessa- “mal calettati”. Autrice di tese e metafisiche composizioni in dialetto e di un poemetto su uno dei temi più difficili della contemporaneità, il rapporto tra Europa e migranti, Sardisco ha quel gusto del limite che troppa letteratura contemporanea ha perso, quella pulsione-compulsione ad indagare il limite per meglio indagare l’umano, e sa solidarizzare col dolore umano. Qui si confronta col limite e col dolore forse per eccellenza -la disabilità- senza schermarsi e senza alleviare. E’ un confronto totale e urticante e l’autrice ne esce vittoriosa perché si mantiene salda nelle proprie caratteristiche formali -ne menziono alcune, all’ingrosso: le composizioni numerate progressivamente con una cifra preceduta da #, il ricorso al linguaggio scientifico, la tensione-attenzione fonica.
Autism spectrum è un libro nato dall’esperienza di Patrizia Sardisco come insegnante, e in questo senso è prezioso che abbia la postfazione di un’altra generosa insegnante, autrice e promotrice di poesia com’è Anna Maria Curci. Ma Patrizia Sardisco ha dedicato lei stessa alla sua professione un saggio al quale voglio rimandare perché costituisce la formulazione teorica -ben lucida- dello sguardo adottato in Autism spectrum. E’ stato pubblicato in tre puntate (1, 2 e 3) sul sito del Centro Culturale Libellula di Morlupo -curato da Viviana Scarinci- e, con una tensione linguistica non minore di quella che ha in poesia, l’autrice accomuna in un unico “gesto” il lavoro poetico e il lavoro pedagogico.
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Da Autism spectrum (Arcipelago Itaca, 2019)
#0
lo spettro non traccia nei normografi
senza riga e compasso
china a mano libera
la testa
disdegna
di segnalare non insegna
riconsegna
un lato umano asintotico
a ogni punto
*
#1
cosa non sei cosa non puoi
essere e divenire
per oggettiva documentaria
gnosi rigorosa
*
tranciante per sottrazione
il limite ti stringe dall’esterno
ti stringe lacciolo negativo in codice
in parola
*
così irriducibile
riassumi l’eco
dell’afasia del cosmo
che non ti sa ordinare
*
#2
convertitore
per elevati scambi d’energia
il tuo ciclo centripeto
consuma
*
troppo
mal calettato nell’ingranaggio antropico
ingombro e peso
fuori misura
acustica molesta
all’ordine simbiotico gaussiano
*
#3
hai percorso volando
l’enclave breve
di un acceleratore del pensiero
i piedi alati divine particelle
in moto sghembo in ascesa poi
la planata
e sei atterrata estranea esausta
straniati gli arti
crudi arrochiti alberi le mani
le disprassie fanno il vento contrario
nelle mani ammainate issate
contrariate contratte aperte e chiuse
gli occhi di più
cloro in un loro cielo
la testa disdegna/
di non segnalare /
a ogni punto /
senza riga e traccia/
un lato asintotico /
un compasso non umano /
che lo spettro insegna /
e lo riconsegna /
a mano libera/
chino nei normografi/
Salve.
A parte quale piccolissimo cambiamento di genere e l’aggiunta di un “che”, ho miscelato, in pochissimi minuti, tutte le parole presenti in una poesia qui sopra pubblicata. A me pare che la sua assenza di senso, in un caso come nell’altro, rimanga invariato, coerente. Chiedo al critico se, onestamente, trovandosi davanti da subito a questo mio testo improvvisato, si sarebbe accorto che è un “falso”. Ovviamente non può che dire sì certo; ma perché, esattamente da dove, da cosa? Ecco, io semplicemente vorrei capire, e sentire. Grazie.
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Caro Massimiliano, ti rispondo così, e non pretendo di esaurire l’argomento perché certe cose vanno anche sentite oltre che interpretate, e per sentirle occorre prendersi il tempo di farle emergere. Posso dirti che queste poesie provano a rappresentare qualcosa che si presenta in modo enigmatico, cioè la relazione con qualcuno che non è in relazione -o non lo è del tutto. Se uno ha presente il modo in cui si manifestano le forme di spettro autistico -specialmente quelle ad alto funzionamento- sa quanto è difficile anche identificarle come tali, e sa che l’autismo è un oggetto misterioso anche per la scienza. Piuttosto che tramite il senso dei singoli versi, la poesia comunica tutto ciò con il manifestarsi di vari campi semantici e con il ritmo del loro manifestarsi. È chiaro quindi che nel gioco combinatorio che proponi questo emergere e questo ritmo vanno perduti. Inoltre, nella ricomposizione che fai non usi i versi più perspicui come il “cloro in un loro cielo” da me indicato, per cui il percorso di senso, oltre ad alterarsi e sfrangiarsi, diventa più generico.
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Aggiungo che c’è un’altra dinamica implicata nella poesia ed è la reazione perturbata del neurotipico di fronte alle epifanie della neurodiversità, o meglio l’effetto disturbante che l’autistico involontariamente provoca -anche a dispetto della sua stessa volontà di comunicare- e la reazione perturbata del neurotipico. Rendere tutto questo linearmente avrebbe significato scrivere un’altra opera, non questa, ricorrere a categorie già conosciute. Il linguaggio apparentemente misterioso della poesia permette di proiettare sul linguaggio stesso quel reciproco e muto osservarsi senza potersi capire, permette quindi di restituire umanità ed empatia a qualcosa che è al di là delle convenzionali e codificate manifestazioni dell’umanità e dell’empatia che la società ammette. Destrutturando il discorso e provando a reinterpretarlo secondo le modalità comunicative socialmente convenzionali toglie senso all’intera operazione poetica che questo libro rappresenta, rimette etichette dove l’autrice le aveva tolte. Forse un buon punto di partenza è la lettura del saggio sull’ascolto scritto dalla stessa autrice, e che ho linkato.
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Questo commento mi piace, perché non si vergogna di mettere la poesia di fronte alle sue responsabilità.
Provo a rispondere a modo mio: che cosa significa un “falso”, in poesia? L’opera d’arte non è né vera né falsa; semplicemente è. Anche una poesia prodotta scomponendo e ricombinando un’altra poesia può essere un’opera d’arte, se viene intesa in tal senso da chi la crea e da chi la legge.
L’attribuzione di senso è sempre un’operazione soggettiva. Può darsi che tu, Massimiliano, non attribuisca alcun senso alla poesia di Patrizia Sardisco, e va bene così: purché tu non voglia impedire ad altri di farlo. Chi trova un senso in ciò che per te è insensato non sta per forza ingannando sé stesso. Perfino il testo che hai composto come uno scherzo può apparire sensato agli occhi di qualcuno. “Ma io lo scritto apposta perché fosse insensato”: non importa, anche questa è un’azione creativa, e come tale non è vincolata a un’interpretazione oggettiva.
La poesia non è scientifica. Non è falsificabile in senso popperiano. Piantare staccionate fra poesia e non poesia non serve a nessuno: toglie senso invece di aggiungerne, e rende la poesia una cosa morta.
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Buongiorno.
La sua posizione lineare e socialmente corretta, fatta di tolleranza e apertura mentale e difesa della soggettività, cela a mio parere la voragine che ci accomuna,
che si chiama Nichilismo.
Cioè, qui, nello specifico, l’incapacità non sta tanto nello stabilire quali siano le poesie che portano senso e quali no; qui lei afferma, per assurdo, quasi come me, che tutte le poesie possono avere senso, che il senso è soggettivo e immaginiamo indiscutibile. Perfetto.
La differenza con me è che per me questo discorso vale per questi testi ( e altri letti da altri autori di ricerca). Provi a cambiare i versi radicalmente che so nella Prima lettera di Babilonia di Fortini. Sarebbe giustiziato al primo tentativo di spostare una sola parola.
E’ o non è prova di qualcosa questa differenza? Lo sto chiedendo. Lei cosa dice?
Inavvertitamente lei ha confermato quanto segue: la mia “poesia rifatta” potrebbe avere per qualcuno senso pari o uguale – e magari essere superiore, o più valida non so – della poesia vera e propria pubblicata nel libro.
Questo fatto, mi scusi, questo suo sentire, questa possibilità assolutamente concreta, al di là della forma garantista e democratica, non le sembra invece il sintomo evidente di una impossibilità ( non sua ma della nostra cultura) di riconoscere una “poesia scherzo” da una chiaramente che ha intento tutt’altro che scherzoso ( libro, critica, etc)
Non è proprio questo il sintomo ( uno dei tanti) evidente per cui possiamo invece asserire che se già la prima poesia è debole di senso, anche le sue varianti probabilmente saranno portatrici della medesima debolezza, e quindi confuse una con l’altra ? o comunque di non presentare, ai più, una differenza sostanziale?
Mah.
E’ che sentiamo che le parti del sistema sono drammaticamente interscambiabili, come, per me e soltanto per me, le parole di queste poesie.
Grazie molte e buona giornata.
Massimiliano.
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Provo a dire la mia, anche se la risposta vera e propria spetta a Guido che ha sollevato il tema… Mah, se parliamo di valore letterario e non di “serietà”, le poesie di Charms sono quasi tutte ” nonsense”, eppure sono nonsense pieni di significato sia per l’espressività delle immagini prese in sé, sia per la resa tragica di un assurdo che era anche l’assurdo del sistema staliniano e della sua burocrazia… E La passeggiata di Palazzeschi che “senso” ha? Misurarla con Fortini significherebbe misurare le mele con le pere. È chiaro che stiamo parlando di personalità e poetiche non confrontabili. Personalmente non credo nel soggettivismo assoluto, e credo piuttosto in quello che diceva Umberto Eco: che la polisemia e la “semiosi illimitata” si fermano nel momento in cui si genera un’interpretazione aberrante. Ora, a me pare di poter dare un’interpretazione non aberrante dei testi che ho presentato. Posso sbagliarmi, naturalmente. Ma, se la sua poesia ricombinatoria funziona in un’altra poetica che non è quella di P. Sardisco e che, ad esempio, valorizzi proprio la possibilità di generare nuovo senso “rifacendo il verso” (letteralmente) alla letteratura cosiddetta “seria” -un po’ come Duchamp con la Gioconda, per intenderci- io non ci vedrei nulla di male.
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Vorrei anche dire che, nella proliferazione di linguaggi comunicativi che caratterizza l’esperienza del contemporaneo, la poesia è diventata un po’ un’isola linguistica -a volte letteralmente, veda la rinascita della poesia in dialetto. Ma, nella ricerca di una lingua ancora significante e significativa, non sdrenata dalla “comunicazione”, il poeta a volte finisce per andare anche oltre e parlare, anziché il dialetto, un idioletto. Questo è solo in parte colpa del poeta: è più colpa della pressione sociale che lo relega in questa scelta. E non c’è dubbio che la società di Fortini, e le sue strutture di significazione/comunicazione, fosse molto diversa dalla nostra sebbene cronologicamente poco lontana. (Ma con questo discorso ci spingiamo molto al di là.)
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Ho risposto qui: https://perigeion.wordpress.com/2019/11/28/di-sedie-e-poesie-per-lultima-volta
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La ringrazio molto della sua risposta articolata e del tempo che mi ha dedicato.
Bel sito. Vi seguo da un po’.
Grazie ancora.
Massimiliano.
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Il mio grazie a Giorgio Galli per la cura che offre alla mia ricerca, per il dono di tempo e di ascolto che mi riserva senza risparmio, per la delicatezza di queste note acutissime e generose: un grazie che estendo alla Redazione, per l’accoglienza in questo luogo fertile che amo frequentare.
Ringrazio, davvero di cuore, chi ha speso il proprio tempo per leggere e per commentare, convinta che ogni riflessione metta a disposizione uno specchio: ritengo che affacciarvisi sia un’opportunità conoscitiva da accogliere con quel gesto che sposta i capelli dagli occhi e dagli orecchi, col puro desiderio di vedere e tanta, tanta riconoscenza per il poco o per il tanto di luce che ci getta in faccia.
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