Distribuito in nove sezioni – di cui sette in versi e due in prosa –, Mario Fresa nel suo Svenimenti a distanza (il melangolo, Genova, 2018, pp. 144) ci restituisce sulla pagina il resoconto elettrico, vibrante, terremotato, di una condizione quotidiana febbricitante e convulsa, lavorando un pastiche linguistico organizzato con raffinata maestria. Una sorta di situazionismo letterario, che forse avrebbe potuto trovare accoglienza nei ranghi dell’Oulipo (l’officina di letteratura potenziale di Queneau e Perec), o un adeguato accostamento a una qualche matrice surrealista.
Fuori da un certo accademismo iperletterario, ma pienamente letteraria in quanto lavoro precipuo sul linguaggio, la parola poetica di Fresa si fa gioco di sé stessa e sembra farsi beffe del lettore, in un continuo rincorrersi e avvicendarsi di persone e situazioni, di dialoghi e di relazioni, mettendo a dura prova la sua capacità di attenzione e di focalizzazione: eppure è proprio in virtù di questo eccentrico dinamismo che la successione delle poesie e dei testi riesce a ricreare e restituire in forma di parola (ora poesia, ora prosa) il vorticoso quanto inarrestabile accadere dei fatti.
Gli svenimenti, da cui il titolo, e come scrive Eugenio Lucrezi nella “Presentazione”, appaiono quale via di fuga da un dolore, da una perdita, da una assenza, da un vuoto, e comunque dal caotico disordine del quotidiano. Ed è questo caos quotidiano il terreno ove lo sguardo, anzi l’azione poetica di Fresa si muove a pieno ritmo.
Frammenti di dialogo quotidiano, inserti poetici, riflessioni, motteggi aforistici, riferimenti di natura musicale e letteraria (ivi compendiati nella sezione finale chiamata “Bugiardino”) sono gli ingredienti di base che arrivano a formare un amalgama dissonante, una dissonante simmetria di suoni e immagini: cubismo, astrattismo dove si aprono fenditure di realtà da cui sbucano molteplici exempla dell’assurdo (e il pensiero immediatamente va al “teatro dell’assurdo” di Beckett, Ionesco e Jarry). I luoghi di questa sorta di auscultazione della realtà, operata dal poeta in totale consapevolezza e controllo, sono corsie d’ospedale, cortili condominiali, salotti domestici, aule scolastiche e per sovrannumero possiamo aggiungere mercati, bar, vagoni ferroviari, ovvero tutti i luoghi dove si instaura un dialogo e più di uno.
Con un andamento discorsivo e colloquiale, in prosa e in versi (e tra questi, preferibilmente il verso lungo), a tracciare un ininterrotto dialogo a più voci, l’autore crea così una corale polifonia che, a mo’ di direttore d’orchestra, egli dirige, guida, asseconda, sospinge sempre in avanti tanto che il linguaggio medesimo sembra germinare da sé stesso, in una spirale in perenne rotazione, in un gioco di specchi e di rimandi: Fresa dispone sulla pagina un ricco campionario di situazioni essendone lui il direttore, il demiurgo capace di saltare da un registro espressivo a un altro e di assemblare scrittura lirica e scrittura narrativa, elementi inconsci e frammenti onirici, procedimenti ellittici e pensiero filosofico.
Gli svenimenti, reali e presunti, reali o presunti, riappaiono come dei cortocircuiti della coscienza attraverso i quali scaturisce un surplus di conoscenza: dallo smacco dovuto allo svenimento, dal black out provocato dall’esperienza della perdita, deriva la voglia di riscatto, e quindi la scelta della rinuncia e della distanza, condizione necessaria per approcciare una qualche condizione di benessere, ovvero una distanza dal dolore che provoca lo svenimento-fuga, in una sorta di fantasmagorica processione infinita.
Il non-senso così costruito ricostruisce il caos dell’esistenza. Un tentativo di fare i conti con l’esperienza dell’assurdo sempre in agguato e di dare conto di come questa condizione, agendo con un rovesciamento delle parti, racconti l’imprevedibile o casuale ricchezza della realtà.
Se è vero che il sonno della ragione genera mostri (ogni riferimento a fatti e personaggi reali è puramente casuale), si può dire che il sonno della coscienza – quello procurato dagli svenimenti – può produrre un eccesso di creatività, un surplus di conoscenza che solo la ragione poetica consente di cogliere e di esprimere in forma di linguaggio e come tale comunicabile, pur nella forma di un paradosso.
***
Il bacio dell’impresario è davvero odioso. Ma non sempre. Lasciamo la classe sotto l’esile pioggia che finge di essere la nostra soluzione. Anche tu dovresti andare, e presto; ne hai già parlato con qualcuno? Delle rate, del colore degli interni, dell’assicurazione? E tua madre non può aiutarti? E mentre dico queste cose, i due amici restano proprio là, e assumono pose da pugili invidiosi della forza altrui: stanno seduti sul nero deprimente del tuo divano, con le rosate campanelle che ronzano e che cantano sopra il soffitto infiammato dagli affreschi che mostrano le molte bestie rare tutte stipate così, l’una sull’altra. Perciò, di scatto, Maria gli dice: ma non lo vedo più da qualche mese; l’hanno trovato con una specie di insolito sorriso, con l’anello sfilato e la nota degli ordini eseguiti con la solita premura.
***
… E poiché ho tutto l’onore di conoscerti, mi chiedo: dove vorresti andare? Ti sono forse d’impaccio? Ne hai ventidue, le dico, ma sono proprio belle. Ma la sorella, anzi l’amica, guardandoti negli occhi, ti ripete: «Mi pare che sia questa; e l’altra sarà tua, come promesso». Però mio padre non c’entra mica niente. Una volta, cioè, non l’hanno preso per un pelo. Infatti lo scrivemmo per bene: te la ricordi la cartolina? Non c’era nessuno che potesse spiegare, parlare… E anche lei svenne, all’improvviso; sembrava scompigliarle con amore.
***
Se dormo, come un’ombra cinese, mi sento
più giardino di ieri.
Che fare, allora, così dritto,
mentre cadi nell’orologio e vedi muoversi,
contro di te, l’essere puro
di un animale in gabbia?
L’odore me lo porto alla mia casa.
Forse nessuno lo vuole fare più:
dare le spalle alla finestra che ci parla;
vedi, ho fretta della tua voce.
***
Io ero tua sorella e cadevo come un taglio.
Riscrivimi, allora, in sette
lucide copie; baciami ancora.
Torniamo alla classe
generale; ripudiamo la sezione
dei fiati, le trattative
andate a male.
Detto questo, lei rinuncia, ma solo
per eccesso di stanchezza, al moto
dell’obbedienza (sta lì, con la sua povera testa…
col tronco enorme…
E si disegna, nella volata repentina
dello sguardo, una quasi provvisoria
felicità).
Negli occhi poi rimane una riserva
elastica di polvere
che si trasforma in un beato
muoversi nel buio.
***
1.
Nemmeno se mi appoggio sui fianchi
del temporale – e voi zitti, miseri di cuore! –
lei riuscirà a convincermi ad uscire,
a rimanere qui. Quando è così, mettiamoci
una pietra sopra, mi disse appunto, sulla soglia
del matrimonio, l’amico delle Funebri onoranze.
2.
La sua cenere, dice, quasi mi abbaglia
con le lancette in mano; oh, brutto segno.
Mettiamo, che so, che il conduttore voglia prendere,
all’improvviso, i suoi parametri lisci,
i suoi propositi da bravo inserzionista di macerie;
alla prossima città, traforerò l’armadio
di qualche segreto da ristorante.
Avrai capito, no?
Così ci inginocchiamo, adesso, per toccarla, e lei si crede
quasi un santo, una specie di banca di periferia.
3.
La seconda prova è questa.
Una volta interrogata, lei sbotta: Macché progresso o guerra!
Si difende, allora, più o meno come
un insetto-favola: diciamo quasi da farmacia.
Non ci basta capire! Non è legale e non abbiamo più
nemmeno le mani legate come un tempo.
Ma senta, le dico io di scatto, senza
più mezzi termini: uno, insomma, può abitarci proprio vicino,
contarli uno per uno, ma poi non lo sa bene
che i toni riappaiono così, senza che
lo vogliamo noi?
4.
D’accordo, avrà preso un bel po’ di roba.
Non so nemmeno usarla e quindi
cado per te. Stessa miseria: eterna sembianza di memoria
che non mi vuole più.
***
La malattia spiega che noi due ci conosciamo
fin troppo bene. Mi ha chiesto se la amo.
Intanto, quasi per gioco, lei continua ad ammirare
la sua ombra perduta da marinaio, e tutto
il muro si apre sulla sua lingua, magra e inutile
testa; siamo da sempre abituati a dividerci le braccia
e il corpo dalla furia di certi
bracconieri che non disperano di nulla,
pur di fermarsi un minuto
a ridere e a pulsare maligna mente:
persa dimenticanza e guarda, un acuto serrare
di fantasmi.
Anche parlare è crudeltà.
Perciò gli chiude le mani come se avesse
voluto preservarle da tanta pena;
e i telefoni, costretti ad ascoltare
un bianco raggelato,
registrano inumane delicatezze come:
«Ma quando è stato?»; «E perché?»; «Ma poi quando
ci rivediamo?»; «E dimmi un po’, ha sofferto?».
Ha fama di generosa, la morte.
***
Il rapporto tra noi è una
gengiva azzurra; e tanto si dimentica lo stesso.
(Come i gamberi e l’acqua nodosa,
che li fanno diventare eterni).
Ancora un ospite e odore
di esempi finiti male.
Meglio svenire in qualsiasi
continente che tra le tue braccia.
Neppure giurare o diventare ciò che si vede.
No: rallentare in una pianta morbida, ovale.
Risalire un po’ di meno.
Chi se ne è andato paga il conto
perché è solo: e tu, quasi sorella, entrando con un graffio
tra le facciate gigantesche, alle parole bianco e annoiarmi,
sei scivolata
con una rara facilità da polvere da sparo.
***
C’è un disastro da documentario:
lo assicurano entrambi, e ridono di gusto.
I funerali hanno il passo dell’oca.
Perfino la donna è stretta in una conferenza da macelleria,
e si dimostra attenta, qualche volta,
alla velocità.
Ma poi me lo rivedo bene, il famoso discorso
del cuoco raccoglitore, al pranzo dei vent’anni:
Noi, le avvertenze, aggiunge sottovoce, le facciamo
scivolare dalla custodia come se niente fosse…
Ripetiamo, allo stesso Corso, che i malati hanno bisogno
solo di questo: la loro forza è nel numero.
Altro che abbracci lievi.
Altro che contare su di te.
Fingere, nel caso, un soffio quasi umano fatto di
mutamento, di povertà celata,
di labbra che resistono al guanciale…
***
Sale su dalla preside e annuncia di volersi
licenziare, mentre lei, la sua collega, si trasforma
in un’edicola da spiaggia.
La mia voce squillava nell’aria oleosa delle fabbriche.
Secondo lei, quanti sono questi morti?
E questo, ripeto, non significa che c’è un conto scoperto, tra di noi.
La notizia è sulla bocca di tutti: la signora strafà,
quando le foglie cadono in una
relazione a distanza. Poi due, e poi basta.
Dopo un quarto o mezz’ora, gli respinge
la proposta di licenziamento. E poi, ti sembrano davvero
tutti scomparsi? Ma non camminano, vivi, in fila?
Sembra un’inutile millanteria…
Così, prima di uscire, ringrazia quasi tutti; però s’innervosisce
nei riti e si confonde, poverino – nessuna madre, con mano
tanto ferma, lo vede meglio di lui, mentre risale
sulla violenza leggera dell’auto-sosia,
cingendola di forza,
per trasvolare in una provvisoria felicità.
***
Qui c’è un’altezza liquida, confusa nella camera zitta
e sincera come poche: nodo legato subito al sonno.
Luigi, al primo posto, dice di avere
qualche ramo di anarchia.
Non gli va molto di studiare. Solleva piano
qualche risposta: magra balbuzie
di vero drago. Ma la gente non vuole
questi regali da lingua assurda: vuole carne,
esperienza, solidità; contare prima e poi
capire. Così, tutti d’accordo,
riaprono il film: nel primo tempo, il diavolo
getta la borsa al fiume
e continua a estrarre rubli sonanti: Uno ne togli
e un altro, come vedi, è sempre lì.
Spedisce a fondo ogni preghiera
e ride tutta, lei, come una fabbrica di povera
salita; il male attaccato alla parete spegne
la luce, e non risponde più.
***
Tutti anneghiamo alle nostre spalle come
una lingua sottile da caviglia:
un po’ di magro territorio che non ci fa
sparire come vogliamo. Smisto i santi in pacchetti
da mille, e li divoro come vengono, così, sotto le dita,
visto che – a conti fatti – lo spirito sconcerta
e parla fino al limite preciso della pelle.
Allora buonanotte, mi dice lui – sottile
come un dito: su questa terra,
dunque, non è rimasto più nessuno?
***
Perché, sia chiaro, io non accetto qualsiasi cosa,
mostrata o no; la giornata dura per obbligo, ricade
in suoni narrazioni; da lì, torme lampade ginocchia
si levano, illudendo, come due occhi vivi: calcoli amici,
a contrappelo. E tu, fosca cosiddetta giovinezza,
cosa pensi di me, sotto quest’uragano?
Non so neppure se poi ti riavvicini a fare
la dolce somigliante; avremo tempo e odore,
anche per questo. Leggerezza, di qua, da ricucire,
che proviene da te, carte alla mano.
Deità, sorriso, nascondimento.
***
Un luogo esiste almeno cinque volte.
I successivi due anni nessuno ne sa niente e lo teniamo
a bada, giusto ai confini della guerra. Per essere felici,
apriamo i nervi ottici e stacchiamo l’ombra netta
alla radice: un modo di spezzare il tuo cervello
quasi perfettamente in due.
Accade, allora, che lui – nel centro del dolore –
torni ogni giorno al mio indirizzo.
Riprovano a lasciarci sulla rotta,
senza mutare o restando con una certa età;
viene da dentro, come se lui non fosse un mostro
che ha un solo desiderio: passare dal fatto alla certezza pura.
Facciamo il tutto esaurito.
Se non ti volti nemmeno adesso – è tutta qui la mia
speranza – tu dormirai nel nulla,
come salvato dall’attesa.
***
Lo sguardo prende il posto di tutti e due, prima ancora di ritrovare
i corpi, la grazia, il mucchietto della miseria
visibile soltanto dall’interno; e il mondo finito a male, chissà
da dove. Se almeno potesse mettere i disastri nel loro
ordine giusto: è come pensare a te, dopo tutto;
e insieme si divertono a fare l’inverno tutto a brandelli;
dicono che è meglio prepararsi da quest’oggi,
senza essere toccati né desiderati; il vento arriva
fino alla casa e fa domande strane.
***
Per festeggiare, allora, abbiamo rotto le etichette dei citofoni, in rigoroso ordine alfabetico: e poi noi due, chissà se un giorno capirai, noi le abbiamo sfregiato le sue lunghe gambe nere, alla regina del bisogno, per rinforzarle i suoi orecchi, le sue guance, i suoi vestiti. Così ci rincorriamo sotto la dura luce, tagliando dalle frasi tutti i verbi, liberando i detenuti politici, le profetesse del quartiere, i ladri del prezioso sapone di esportazione; i poliziotti girano veloci, come sufi innamorati, senza curarsi delle nostre parole di commiato: e via gli affreschi, via le statue, via le tenere battaglie del tuo Voto di fiducia; meglio tornare dall’amico impreparato, schivando i sorci spiaccicati sulla soglia della camera nuziale, dono del gelosissimo Postino: quando potrò venire qui, io ti offrirò una serra, una divisa bianca, un manuale di poesia, un’arma da parata, un mondo vero e proprio.
Mi ci sono piacevolmente persa
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