perìgeion

un atto di poesia

Cattedrali, Philippe Djian

Philippe

Scrittori, narratori e poeti alle prese con la pagina bianca

rubrica a cura di Nino Iacovella

Houellebecq lo considera un maestro. Nella sua trilogia c’è la storia di una fabbrica che dà lavoro, ma anche morte. Dice “Siamo tutti assassini; perché uccidiamo giorno per giorno la persona che avremmo voluto e non riusciamo ad essere.”

«Lavoravo per un assassino». È l’incipit del nuo­vo romanzo di Philippe Djian che, fedele a se stesso, trascina subito il lettore in un intrigo di personaggi e atmosfere che per duecento pa­role non danno tregua. Come la pioggia torrenziale che cade su Hénochville, una piccola città di montagna dominata da una fab­brica che dà lavoro ai suoi abitanti mentre uccide, inquinandolo, il fiume della regione. L’acqua, sor­gente di vita e di morte, è l’ele­mento naturale nel quale si muo­ve Patrick Sheahan, il protagoni­sta alle prese con uno strano se­questro. Assassini è primo volume di una trilogia che l’editore Voland pubblica adesso, quasi diciotto anni dopo la sua uscita in Francia, proseguendo la riscoperta delle opere di uno degli autori francesi più di culto, del quale Michel Houellebecq e altri si sentono di­scepoli. «Non sono maestro di nessuno. Ho fatto solo prima di al­tri quello che nessuno osava fare in Francia», racconta ora Djian, 63 anni, diventato famoso negli anni Ottanta con 37 °2 al mattino poi adattato al cinema da Jean-Jac­ques Beineix.

Com’è nata l’idea di questa tri­logia?

«Dopo così tanti anni posso dir­lo, forse c’è la prescrizione. Con­fesso: all’inizio non avevo in men­te nessuna serie. Antoine Gallimard, dopo aver letto Assassini, aveva commentato che era un ro­manzo troppo breve, quasi in­compiuto. Rimasi sorpreso e, im­provvisando, risposi che in realtà si trattava di una trilogia. Ma fino a quel momento non ci avevo asso­lutamente pensato».

Com’è riuscito allora a dare un ordine ai tre romanzi?

«In Assassini ci sono i personag­gi che abitano sul lato sinistro del fiume, mentre nel secondo volu­me, Criminels, ci sono quelli della­to destro. È solo in Sainte-Bob, no­me del fiume e titolo dell’ultimo li­bro, che si scopre che il narratore è uno scrittore e tutto il resto diven­ta chiaro».

Assassini, al plurale. Chi sono?

«Un assassino è chi uccide una vita che avrebbe voluto vivere. Melville diceva: “Resta fedele ai so­gni della tua giovinezza”. Purtrop­po capita molto raramente. Siamo tutti degli assassini. Uccidiamo lentamente la persona che non riusciamo a essere».

Trovare un incipit folgorante è sempre necessario?

«Senza, non comincio neppure. Quando finisco un libro, per due a tre mesi non penso più a niente. Poi, di colpo, torna il desiderio, la voglia discrivere. A quel punto non rifletto mai sulla trama e sui perso­naggi. Mi vengono in mente solo una serie di frasi. Una di queste di­venta !’inizio del nuovo romanzo. Allora posso partire per il viaggio. Senza sapere dove mi porterà».

La narrazione di Assassini si sviluppa quasi interamente a porte chiuse, con molti dialoghi.

«Uno scrittore non è un filosofo, uno storico a un sociologo. Credo che sia soprattutto qualcuno che costruisce il linguaggio. Nel mio caso, i dialoghi sono spesso lo strumento letterario più complesso per raffina­re lo stile, cercando nelle pieghe della grammatica».

Si definirebbe, come sosteneva Céline, un “homme à style”, un au­tore di puro stile?

«Certo, perché sono convinto che con Shake­speare tutto sia già stato raccontato. Céline diceva anche: “Se volete leggere delle storie, comprate i gior­nali”. Uno scrittore è fondamen­talmente un artigiano di parole. Sono sempre alla ricerca di una frase che contenga il mondo inte­ro, come mi è capitato di trovare con Raymond Carver a altri. Henry Miller, Vladimir Nabokov, Ernest Hemingway: scrittori che, attra­verso lo stile, hanno catturato la melodia di un’ epoca».

Quindi li considera anche su­perati?

«Per raffigurare il mestiere dello scrittore faccio spesso un esem­pio. È come tenere accesa una ra­dio che gracchia mentre cerchi di sintonizzarti su qualcosa. Oggi la stazione di Carver e Hemingway forse non trasmette più un suono nitido, pulito. La lingua è viva, si trasforma. Bisogna riscoprire il li­rismo o rafforzare il minimalismo? Non saprei. A me piace sperimen­tare. Posso scrivere frasi apparen­temente liriche e poi interromper­le con un improvviso “eccetera”, come si usa oggi. In un libro ho in­serito un pollice nero alzato all’ini­zio di ogni paragrafo, perché credo che i segni facciano parte del no­stro presente».

Nel 1981 Gallimard aveva rifiu­tato il suo primo libro, in quanto “al di fuori della letteratura”.

«Aveva ragione. Quando ho ini­ziato in Francia non esisteva que­sta volontà di sintonizzarsi con la melodia di un’epoca. C’era anco­ra un’idea ottocentesca della let­teratura. Oggi quello che crivo è meno sorprendente. Ci sono au­tori come Houellebecq o Virginie Despentes. Non voglio arrogarmi nessuna paternità. Scrivere non è una grazia che cade dal cielo. Solo duro lavoro».

La disturba quando la presen­tano come il più americano degli scrittori francesi?

«È una definizione senza senso. L’unica cosa vera è che gli autori americani mi hanno segnato profondamente quando avevo vent’anni. A quell’età un libro non deve solo provocare emozioni ma aprire porte, aiutare a costruire un punto di vista. È quel che è succes­so a me dopo aver Ietto Il giovane Holden. Dopo, non vedi più il mondo con gli stessi occhi. È stato allora che ho deciso di fare lo scrit­tore».

Intervista di Anais Ginori, La Republica del 29 luglion 2012

6 commenti su “Cattedrali, Philippe Djian

  1. Grazie. Molto interessante. Credo che proverò a leggerlo. Speriamo sia lontano anni luce da Houellebecq, che è davvero un pessimo scrittore.

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    • ninoiacovella
      10/06/2020

      Scrittori diversi. Ma Houellebecq non è un pessimo scrittore. Hai anticipato uno dei prossimi numeri di Cattedrali. Si parlerà di lui. Uno dei pochi che ha descritto la vita occidentale nel suo perfetto approdo alla spogliazione totale dei sentimenti umani.

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      • Sarà questione di gusti. Houellebecq mi sembra scrivere maluccio. Perché hai ragione tu, descrivere e scrivere sono due cose diverse.

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      • ninoiacovella
        10/06/2020

        Qui è una questione di gusti Max.
        Ma Houellebecq è un autore divisivo. Tutto nella norma quindi. O lo ami o lo odi. O lo esalti, o lo insulti.

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  2. “Uno scrittore non è un filosofo, uno storico a un sociologo. Credo che sia soprattutto qualcuno che costruisce il linguaggio”. Mi sembra una cosa da tenere a mente, specie nella poesia.

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  3. Nino, non è questione di amare o, addirittura, insultare. Io cerco di muovermi su altri binari. E’ proprio la scrittura di Houellebecq che non mi convince. Mi sembra un epigono di Boris Vian, e già Vian non era granché. E, nella semi-crudezza delle sue parole, nella sua quasi-crudeltà, mi sembra uno specchio rotto di Céline. Gli argomenti, diper sé, in letteratura, sono secondari. Oltretutto, se proprio vogliamo andare a fondo, la “descrizione” che Houellebecq fa della nostra realtà, è, purtroppo, solo una descrizione. Questo il suo enorme limite. Questa nostra organizzazione della società non è nuova, né mancano scrittori e poeti che ne abbiano già parlato in modo approfondito e con un po’ più di “arte” rispetto al francese.

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Questa voce è stata pubblicata il 10/06/2020 da in Senza categoria.
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