La paura di Gilda
So ogni volta tre
cose: che forse
potrei impedire ciò
che farà. Magari
succede e non capirò
perché. Che mai però
sarà una colpa…
Quando lo
vidi salire le scale, tutto
sorrisi, centimetri, e fioca
intermittenza dentro. Fu
tensione da scasso o
lampioni di strada. Mi
fulminava la faccia
elettricamente, palo
da palo, con luce
compressa; era troppa
massa in un corpo
solo. Finché l’Ombra
intera mi fu sopra.
Cena con Tesla
Allora grazie per essere
qui, noi che siamo
bottiglie. Si vive sul nostro
Crodino (ognuno il suo; ce ne sono
altissimi come pali). Noi
beviamo senza invidiarli. Caro
il mio Tesla, vogliamo metterlo in
versi, lo sdegno sovrano della
carne per quella stracotta dei ruffiani? Mi
guardi – falsi eredi, una
guerra! – Vero. Io fumo, ti stendi, mi
chiedi la sigaretta.
****
Pesanti gli scalini
come sono le scale;
Omone o Michlen, venga!
In ogni
stanza, passi di
noi due quasi
fosse lui solo, tornato a
illuminare
le travi. Ma laggiù
sulla porta, che fanno i
sicari? Infilzano doppi il
Sebastiano vero poi
via! Così
la dispersione scuce
molecolari: da una
parte i Fanti, dall’altra
i Santi del nostro cognome e
mettono il copione a
teatro. (Ma Ingresso del
pensiero, lui era dal
secolo annunciato come
cima delle due ali).
Creò
la casa
con frecce che sembrano
fari, balenii a squarci di
lampo. Luce,
dappertutto! In
tribunale
fece un atto così
di croce che
tradisce. Oggi ha
i più
perfetti nomi in mano come chiodi
di garofano.
Ultimi lampi
Malinconia geniale se arriva
fango alle porte di casa! Ma
quando piove così a lampi per
strada, neppure un compare di
danza potrebbe o la chirurgia.
Cerco
di capire chi sia che ci stanca
avanti indietro; s’attacca al
garrese, giro
eterno, poi scappa
volando sui tacchi coi nostri
volti. Forse ancora
ci tiene al mondo la voglia di
qualche evento.
Credo di
reincarnarmi o sia avvenuta una
grazia! nel lampo di
chiaroveggenza invece
penso: Quello
piomba
nella barca ferma di noi; ci
solleva una mano e sente
l’odore semivivo dei polsi. Ma
schiaccia lo stesso col
piede la nostra
faccenda, la getta come niente dal
ponte. Rende insomma pulita la bomba.
La caverna
Siamo seri. Lui sposta
scrivendo aria e basta. NON
leggere Eliot più d’una volta (se ci
riesci), i più mediocri furti
nascono dal tabaccaio. Tosa
con le mani ogni cosa dal
mondo. Hai presente le siepi?
Che altro! C’è chi
starnutisce sinfonie celesti col
naso, ma ci sono lampadine
spente e bagliori fatui (Dal
tabaccaio ripeto, rubano
cartine fumando sigarette tutti
curvi al fuoco dell’accendino,
come rupestri nella parete)
Giano
Mento quadrato e occhi a
capanna; quando si rade, sul
collo gli spunta il gemello. Non
partorisce mica, sta eretto. Si
cretta, ecco, un vivaio piccino tra
le vertebre sacre e uno scrasch di
rumore
entra nell’ universo. Tutto qui.
***
Gente con braghe aperte
scappa dal water appena lui
gira
le facce come un panzer
lentamente il mortaio. Poi dal
buco compressi: il manicomio,
presto, un pompiere! forse….dov’è?
Sul bancone..Noo, l’elenco!!!” Lui esce-
silenzio- lui posa
in aria il petto senza gemello,
osserva la gente indiscreta che
c’è, spalanca il vetro, poi va, mento
verso, com’ un troiano alle porte.
Questo,Dio creò, tutto il resto
crebbe.
***
Dico invece che capire sarebbe
la più orgogliosa
coscienza di
spazio; stiamo in Terra e non
è una pineta per nani!
Pionieri in cantina
su schede infinite, marziani di
scienza, va bene, può darsi! ma
siamo chiusi. Per tale
nostalgia nei pori si cade a
vite sul fondo di bicchieri, ali
in su. Una
mosca al giorno toglie
di torno il Pensiero. Ok! Ma
non dormo! l’idea di Giano mi
riporta i piedi nei
gabinetti, vedo panzer, mortai, vedo
letti di manicomio, troiani e le porte,
vedo Archimede affogare
nell’acqua d’ogni
tazza e Platone com’eravamo noi. Lo
chiamano il Clone.
…
“capire sarebbe
la più orgogliosa
coscienza di
spazio”
…
che incoscienza, e che ritmo!
grazie, cara Annino per questi oltre che trasmetti e porti, i tuoi libri pieni di spazio e per le sorprese di chi riesce a considerare lo sbigottimento e l’aria che crei in “stanze” abitate dalla vita, anche da quella scritta con un tempo personalissimo nonché uno sguardo circolarissimo, geometrico (?),
creatore.
ciao perigeion
G. De Pietro
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come sempre grandi versi – in questi trovo una maggiore disponibilità ad aprirsi allo svelamento, alla partecipazione – in ogni modo versi che sempre coinvolgono l’emotività e il sogno del lettore per quel ritmo che obbliga alla seduzione, per quell’ariosità che dono libertà.
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Poesie elettriche ed elettrizzanti, per ritmo, immaginario e perfino per ideazione. Si allarga quel Pantheon pagano di cui parlavo in una recensione alle Perle di Lochness: vi si aggiungono Tesla e Giano, controfigure che impersonano il voltaggio e l’ambiguità della creazione, rispettivamente. Il prodigioso inventore Tesla poi, il cui nome a differenza di quello di Edison è stato a lungo – ironia della sorte – oscurato dal rivale (a livello storico le cose sono più sfaccettate, ma sappiamo che la poesia si nutre della forza dell’immaginario, non delle ricerche d’archivio) è un sodale naturale di Annino, il cui nome è ingiustamente oscurato nella grande editoria, ma i cui versi continuano a entusiasmare nuove leve come già i vari Fortini, Pagliarani e Giudici il secolo scorso. Importante è lasciare agli altri l’invidia, per mantenere intatta la freschezza della propria creazione – e Luce / dappertutto!, attribuito non più a Dio ma a Tesla, in una nuova Genesi industriale, la Genesi del talento umano. Come già notato altrove da Guglielmin, le immagini relative al furto già presenti in Annino ritrovano qui nuova linfa, facendo precipitare la guerra dei brevetti e dei furti – Tesla vs. Edison – e cercando di salvare proprio Eliot (il quale famosamente disse che i grandi poeti non copiano, ma rubano) dai propri imitatori o falsi-eredi con l’eretica esortazione di leggerlo una volta soltanto (il tema del clone, della copia, che si dirama nella parola-chiave ‘gemello’ già in Gemello carnivoro, è costitutivo delle due facce di Giano, e spiega anche la presenza di Platone, con l’idea che il reale sia solo una copia dell’ideale – ma per Annino il reale, se colto davvero, non è copia di null’altro, contiene già tutto).
Davide Castiglione
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La voce di chi pensa – solidale con altri che pensano – crea il cortocircùito nel tempo, e si instaura una conversazione con personaggi storici e con altri umani, fratelli, incluso il lettore. Che squadra! Con Tesla, Archimede, Rita Hayworth persino. Tutti quanti naturalmente soggetti perlomeno a minacce, se non addirittura cacciati, perseguitati o esclusi – presumibilmente perché non si uniformavano. Continua il discorso che già Davide Castiglione ha individuate, iniziato con Anatomie in fuga, l’arte popolare come copia, e il poeta irriducibile a ricordarci che lo spirito non abita “i più mediocri furti” e non è “il Clone”. La cosa più interessante è che in questi testi ci viene porta poesia come shibboleth, parola che chi pronuncia usa come trucco per riconoscere gli amici dal resto. Il poeta insomma enuncia qui il patto segreto tra chi scrive difficile e chi a questa difficoltà s’abbevera. E non è un affare elitista, è una conversazione a tavolino con tanto di crodino, è una complicità tra chi capisce perché abita il pianeta Terra, non una pineta per nani (quest’ultima l’immagine di una falsa coscienza di spazio). L’Arte Alta con il pedale basso d’altronde rimane una costante di questo poeta da sempre. Solo qui s’affievolisce l’allarme, si intensificano il colloquio, l’amicizia, la gratitudine.
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PS la differenza di una sola “a”
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In riferimento all’ultimo testo, mi è venuto fatto di pensare che, certo, sarebbe stato ben strano che una grande contraffattrice della realtà, e dell’ hic et nunc, come l’Annino, non si fosse cimentata, prima o poi, con Giano! Del resto parliamo di una autrice spesso avulsa dal presente, in vari sensi; bensì creatrice di una scrittura agganciata di frequente al passato, ma con un occhio sbieco, mentre con un altro occhio altrettanto sbieco è agganciata al futuro: le due direzioni che assumono le due facce bifronti. Gli stessi punti cardinali, a cui si associa il dio in questione, fermentano e ruotano all’impazzata sotto la penna della Annino.
In “Giano” l’altezza del mito si scaraventa sul quotidiano, come un giocattolo a cui si è sottratta la massima confidenza. Che lenti potenti, monta e punta il microscopio della Annino!: di una rasatura casalinga ma straordinaria ti fa vedere anche i pori, te li fa scendere ‘a vite’, su una faccia che ne produce un’altra, che anche è una mappa agricola su cui si raffigurano i campi dall’alto, i rettangoli delle serre, e per cui il rasoio è l’aratro che richiama, per me, l’ albo versorio dell’ Indovinello veronese, cioè la penna d’oca, la scrittura, e produce un piccolo rumore che si allarga, diventa grande (il mio sesto senso vede emergere la Annino da una lunga tradizione, come pure la vede sguazzare con gusto nel canone prossimo).
Si è detto, una poesia “piena di spazi”; qui in particolare di spazi chiusi: la cantina, il manicomio, il bagno dove ci si rade, dove si evacua, e l’onnipresente sorpresa, il solito diabolico slittamento: ma di che razza di bagno si tratta, un bagno affollato, un bagno pubblico? Dove in tanti scappano dallo sguardo di Giano: bellissima, magistrale, la similitudine fra il lento voltarsi di Giano e il mortaio del panzer.
E allora il sospetto è che Giano sia in fondo la nostra umana miseria che gode nella viltà del passato e in quella del futuro… veramente un’idea che non fa dormire, perché è assenza di sé, forse, ma soprattutto surplus, accumulazione di cose, di alto e di basso, di idea e di realtà, di fuori e di dentro, di caos e di messa in scena calibratissima, di piccolo e di grande; soprattutto questo: un ingrandimento, una dilatazione dei particolari che saltano in primissimo piano.
E la comica finale fatta di voci che si accavallano sparge il suo lievito sulla realtà, che certo, “non è copia di null’altro, contiene già tutto”, ma che continua a lievitare, a partire da un atto creativo: proprio come sembra fare l’autrice. “ Questo, Dio creò, tutto il resto / crebbe”.
Ugo Magnanti
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La voce di chi pensa – solidale con altri che pensano – crea in questi testi il cortocircùito nel tempo, e si instaura una conversazione con personaggi storici d’altri tempi e con altri umani, fratelli: Tesla, Archimede, Rita Hayworth persino. Incluso il lettore. Che squadra! Tutti quanti naturalmente soggetti perlomeno a minacce, se non addirittura cacciati, perseguitati o esclusi – presumibilmente perché non si uniformavano. Continua il discorso che già Davide Castiglione ha individuate in Anatomie in fuga: il popolare come copia, e il poeta irriducibile a ricordarci che lo spirito non abita “i più mediocri furti” e non è “il Clone”. In questi testi ci viene porta poesia come shibboleth, parola che chi pronuncia usa come trucco per riconoscere gli amici dal resto. Il poeta insomma enuncia qui il patto segreto tra chi scrive difficile e chi a questa difficoltà s’abbevera. E non è un affare elitista, è una conversazione a tavolino con tanto di crodino, è una complicità tra chi capisce perché abita il pianeta Terra, non una pineta per nani (quest’ultima l’immagine di una falsa coscienza di spazio). Quanta differenza in una sola “a”. L’Arte Alta con il pedale basso d’altronde rimane una costante di questo poeta da sempre. In questi inedita però s’affievolisce l’allarme, si intensificano il colloquio, l’amicizia, la gratitudine.
Pietro Roversi
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