di Nino Iacovella
Alla fine nessuno finge è l’esergo inziale di Una stagione nascosta. L’autore Vincenzo Di Maro, con ciò, intende ribadire che la questione della scrittura è cosa seria.
Il poeta non è un fingitore, al contrario dell’affermazione poetica di Pessoa, ma uomo profondamente immerso nella verità, nell’arte (in particolar modo nella letteratura), nella società.
Poeta schivo che preferisce la ricerca artistica, il lavoro silenzioso e appartato rispetto al chiassoso narcisismo della comunità dei poeti. E di questi tempi non è cosa da poco.
Di Maro nella scrittura fa precipitare la densità della sua solida cultura, senza dare spazio a semplificazioni, con i suoi simboli cavi, bui e materni, i cieli turneriani, il citazionismo dedicato ai maestri (Dürer, Rimbaud e François Coppée) e un coerente filo conduttore etico che, in tono elegiaco, affiora per confliggere con la realtà circostante.
La scrittura di Vincenzo Di Maro si contraddistingue dal netto contrasto buio – luce, dall’opacità del mondo interiore del poeta, dove ogni immagine lirica captata è cinerea, cristallizzata sul testo solo dopo aver perso tutta la forza della propria incandescenza. Poesia che insegue l’ineffabile senso dell’esistenza umana: dalle profonde oscurità del sonno al buio cosmico, nel vuoto che ci insedia e che riusciamo a eludere a stento.
Le ore della notte che pulsano / sul viso, la curva infiorescenza / della terra. Animato dal fosforo / dei droni, lo cheletro compone / un disegno sonoro. Non tu né io / ma un bagliore ustorio emanava dai / corpi, scandiva precipizi dalla gola. / Né mi mancate. La memoria / non è che un calco.
Tre sezioni: Tavole della sorte, Lunario scritto sull’acqua e Una stagione nascosta per una raccolta dove la parola è icona, coagulo d’immagini sulla superficie ombrosa dei versi, che tutto vogliono dire, senza mai disvelare.
Una stagione nascosta, Nem Edizioni, 2019, Varese
Lascaux, adesso
(Prologo)
Respira nella luce. Cosi lo ossessiona
la figura stellata di certe erbe nei campi,
tanto simili a dita che si piegano
raggianti, quando gioia trabocca nella donna
o la violenza della caccia esorta.
Ma ora immerge la mano che nei sogni
torna ignota ed arborea, stellata, come l’erba,
fin dentro il buio la segue perché guida
e sostanza, riverbero dell’altro,
corpo che vuole sorgere, parlare.
Allora avverte l’avo alzarsi in piedi:
l’avo sogna la razza, nel sopore
parla al morire, alla lenta crisalide,
al sibilo dell’erba quando il bisonte è in fuga
e la freccia lo cerca per revocargli il mondo.
Al vento, anche e tace nella grotta.
È accanto alla visione silenziosa.
Eppure fuori il giorno resta chiaro, la luce
mobilissima e alta sulle fronde, e già da molto
ciò che esiste ha un nome.
***
Gli indizi che la mente trasceglie
per dar luogo a impreviste
allegorie estive, il tempo le distanze
dal cielo rovesciato
delle lucciole. Lo abbiamo
attraversato anni fa, una sera
accanto allago: parole in una
mota di sensi, batea che filtra paglia
dorata sul fondale. Entelechia,
riconoscerti mentre
si allontanano, nello spazio
e non solo, nel più breve
stupore, quando
inutilmente tendiamo
alla luce, alla voce.
***
Natura non facit saltus
“Da questo mare si vedono le balene.”
Si, ma in quale acqua siamo, chi
mi si rivolge; dentro quale
colloquio, dentro quale sperata
comunione, quando temo
parlino in me i già morti, i non ancora
vivi? Sognammo le balene, i loro occhi
di libellula triste, che dà profondità
nutre il respiro.
Purezza. Leviatani che spiccano
scuri steli d’acqua per ergerli ai mattini.
Il promontorio, un grumo di foschia:
poi, l’iridescente fioritura
del saIto. E quanto poco, al volo
colossale, all’imminente
smarrita metamorfosi.
***
Preconizza la sua morte
Sostanza, verità: nomi, nient’altro. Lo imparai in un
istante: esiste l’atto. Una mattina – a Saint-Rémy,
può darsi – immersa nella piana tramortita
dall’acqua, una radice arcana
dell’albero celeste
butterò il volto al giallo, apri crepe al
Mistral che mi divelse, e caddi.
La tana del rosolaccio fu il mio scarlatto
inginocchiatoio: e non le fiorituremail fiorire
vidi, tono su tono all’atto della pioggia
e la stagione tra i due palmi arsi
che piegano il frumento nell’abbraccio
del Mietitore. E poi, bocconi nell’ossido terrestre
nel pulsar del fuoco che si sposa
al cuore, fino al puro colore
dello sparo.
***
Come occorre vivere, chiedo tra un fuoco
d’alberi, alla favilla che ossida il minuto
grano sul filo spinato. lo non
voglio pili immagini, ma verità che è bruno
d’ossa tra l’ortica e un tepore che dissipa.
Nella fila della formica o nell’umanità
vive quel che è creduto: se ascolti è che ricordo
il tuo poco avvenire, l’antichissimo
futuro che verrà.
***
Agli inizi d’inverno sterminata
la luce da levante, sino alla tua
intangibile chiarezza.
Milano cara, cui ritorno sempre
per dirti addio da un’accelerazione
di nebulosa: gente che svela il doppio
della specie, dà spazio all’ingannevole
evoluzione. Penso alla prospettiva di San Satiro
come un’ellissi di primavere.
Ma tienimi entro questa
memoria possibile, tanto dolente
quanto più illusoria. NeI breve strazio
della giovinezza.
Poeta che non conoscevo, di grande interesse.
Francesco
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