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un atto di poesia

"Dal deserto rosso": prendersi cura della parola per prendersi cura della realtà

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di Giorgio Galli

Uno degli aspetti più irritanti delle radiotrasmissioni d’oggi è la prosodia: una prosodia improntata al trionfalistico e all’erotico, secondo quanto detta la civiltà “della comunicazione”, veloce e sciatta dal punto di vista espressivo. È il modo di parlare di persone che non tengono alla parola. È così che parliamo noi ora: strascichiamo le parole, spesso le tronchiamo, non mettiamo aria tra una parola e l’altra. Tutto questo è indice di una profonda sfiducia in esse, di un disincanto della parola che nasce dal fatto che la parola è inflazionata. Permettetemi di ripetere un concetto che mi è molto caro e che ho già espresso altrove. C’è un punto di svolta nella poesia, ed è costituito da Fotografia dell’11 settembre di Wislawa Szymborska. Oggi si dice che le parole non hanno più spazio. È un ritornello che oramai, a ripeterlo, paga. Non è vero. È una bugia. Di parole ce ne sono fin troppe. Siamo sommersi di parole, inondati da parole che spesso non significano niente. Come quelle che si son dette sull’11 settembre. La gente non è più disposta ad abbandonarsi alle parole. Anche i poeti sono più smaliziati, non hanno più quella fiducia assoluta nel proprio mezzo d’espressione. La sfida di ogni poesia, che è dire con la parola quello che la parola non sa dire, che è fare della parola una cosa mentre la parola, per sua natura, può solo girare attorno alle cose, quella sfida non è più possibile. Un poeta di oggi è un post-poeta e fa della post-poesia. Szymborska lo ha detto, con grazia incomparabile, negli ultimi tre versi di Fotografia: “Solo due cose posso fare per loro [le vittime della strage] / descrivere quel volo / senza aggiungere l’ultima frase”. Il poeta contemporaneo si ferma proprio dove il suo collega antico e moderno avrebbero cominciato: dinanzi al mistero della morte. La strage delle Torri Gemelle assurge a simbolo di un mondo che non è più comprensibile con gli strumenti della poesia e con quelli della ragione. Ma la poesia è sempre sensitiva e concreta, e così finisce coll’avere un valore civile anche al di là delle proprie intenzioni: perché, nel gran baccano che si è fatto sull’11 settembre, solo il poeta, con la sua “dichiarazione di resa”, si è assunto il compito di invocare un silenzio rispettoso per chi aveva perso la vita, e per chi, con dolore, è rimasto.

Questa bulimia verbale ha travolto anche il mondo della letteratura -pensiamo alle dimensioni mastodontiche di molti romanzi che vanno per la maggiore, e ai cui autori vien voglia di suggerire un lungo esercizio nell’aforisma. E la proliferazione di parole rivela alla lunga la difficoltà di fare presa sulla realtà.

Questa primavera ci siamo trovati di fronte all’ennesimo evento traumatico di questo inizio millennio: la pandemia da Covid-19 e il cosiddetto lockdown. In parole povere, ci siamo trovati tutti chiusi in casa per il rischio di contrarre il nuovo Corona virus. Un’esperienza innaturale, che assieme ad altre ha contribuito a modificare il paesaggio interiore dell’uomo occidentale. Maria Borio prende come spunto di riflessione proprio questo momento e invita a parlarne poeti e scrittori italiani e stranieri. Il deserto rosso, quello del film di Antonioni, è la metafora-guida del percorso: un percorso fatto di alienazione e incertezza, dove non si sa cosa si deve guardare della realtà, e dunque cosa si deve essere rispetto ad essa. Maria Borio interroga tutti i suoi ospiti su Rai Radio Tre, dal 21 al 25 settembre, sul nuovo deserto rosso, sulla nuova alienazione e la nuova incertezza indotta dal lockdown. Ma sempre il discorso s’invola verso tutt’altre altezze, e si finisce per parlare del fatto che le aree cerebrali che si attivano nell’esperienza estetica sono le stesse che si attivano nell’esperienza empatica, si finisce per parlare dell’ambiente, si finisce per parlare del rapporto tra uomo e natura ed anche della propaganda, del controllo sociale e del potere dei social media. Nel corso di dieci puntate Maria dialoga con Franco Buffoni, Tom Schulz, Gian Mario Villalta, Maria Grazia Calandrone, Alberto Bertoni, Tommaso Giartosio, Laura Pugno, Stefano Dal Bianco, Jorie Graham. E per tutte e dieci le puntate non sentiamo mai quel tono trionfalistico ed erotico tipico della nuova comunicazione. Sentiamo invece toni di riflessione, toni che ci ricordano quelli delle trasmissioni del recente passato, quando esisteva ancora il modo di parlare naturale delle persone e il mondo della comunicazione non era intervenuto ad appiattirlo e inquinarlo. Già questo ci pone di fronte a un atteggiamento insolito e benvenuto: un atteggiamento di cura della parola, come accadeva nelle trasmissioni radiotelevisive d’altri tempi. Sembra di sentire le voci e gli accenti delle trasmissioni di Zavoli. Maria Borio rivolge le domande con la sua voce sommessa, così fuori dai canoni della società dello spettacolo, e gli ospiti le rispondono presentando le loro poetiche e le loro visioni problematiche in un tono tranquillo, con i loro accenti regionali e con la sicurezza di chi sa bene di cosa parla e non strascica le parole, non perde troppo tempo in “ehm, uhm, ahm” perché ha le idee chiare e la mente riposata. Pochi effetti sonori, nella trasmissione – il più tipico arieggia alla suoneria di un telefonino – rimandano alla dimensione timbrica del nostro tempo oppure ad una dimensione intemporale e quasi perduta -gli schiamazzi dei bambini che giocano. A volte le voci si sovrappongono, ma non come in quei talk show maleducati dove tutti si parlano addosso, bensì come nel contrappunto radiofonico dei documentari di Glenn Gould. Prendendosi cura della parola, i partecipanti alla trasmissione parlano di prendersi cura del pianeta, della coscienza critica dei suoi abitanti, della necessità di ripensare il nostro modello di sviluppo, della cattiva abitudine di adottare metafore belliche per descrivere questo tempo di pandemia. Temi concreti, perché scrittori e poeti sono persone concrete, che vivono questa terra e questa epoca.

Perché gli intellettuali veri, le voci critiche del presente, non è che non ci siano: è che non trovano il giusto spazio per esprimersi perché la gente non li vuole sentire. Maria questo spazio lo ha creato e ha permesso a noi di entrarci ascoltandolo. E noi gliene siamo grati.

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Informazioni su Giorgio Galli

Giorgio Galli è nato a Pescara nel 1980 e si è laureato in Scienze della Comunicazione a Siena. Vive a Roma dove per due anni ha gestito una libreria indipendente. Ha pubblicato "La parte muta del canto" (Joker, 2016), ritratti biografici di grandi musicisti del passato; "Le morti felici" (Il Canneto, 2018) e “Le voci sopravvissute” (Gattomerlino, 2020), piccole collezioni di brevi prose poetico-narrative; il racconto lungo “Il matto di Leningrado” (Gattomerlino, 2021) e la raccolta di poesie "Canzonacce" (Delta3, 2021).

Un commento su “"Dal deserto rosso": prendersi cura della parola per prendersi cura della realtà

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