nota di Marco Ercolani
«Dormire era l’unico modo / per non sanguinare sul foglio intonso. / Nel buio il dolore si placava / dava tregua al respiro sospendeva / il lavorìo incessante della sopravvivenza».
L’ultimo libro di versi di Alina Rizzi, Gente che se ne va (Puntoacapo, 2020), è il libro più maturo dell’autrice, dopo La danza matta e Aritmie. I versi che ho appena citato siglano una sensibilità tagliente al dolore, espressa con uno stile raffinato, di misura classica. Se Alessandra Paganardi, nella sua introduzione, sottolinea la liturgia laica dello scorrere delle stagioni e del tempo, io vorrei osservare come la pagina scritta diventi più persuasiva quando la sofferenza psichica occupa, con impietosa intensità, la scena, che qui diventa simile a una gabbia: «Della cella non poteva dire / era incomprensibile / non c’erano chiavi. / Andava mimetizzando / ormai esperta giorni irreprensibili / senza la grazia dei sacrifici / la signora Bovary che produceva ancora / trent’anni dopo un grido / sigillato fra le pagine di sessantacinque / quaderni perfettamente allineati / in fondo sullo scaffale». La citazione letteraria della Bovary flaubertiana sfocia nella confessione di un grido esplicito, che non può più essere taciuto. Alina Rizzi, esperta in narrazioni brevi e artista visiva lei stessa, sa condensare, nell’ellissi della struttura poetica, una felice spontaneità descrittiva: «Leggeva precipitando nelle parole senza tollerare / interruzioni e si guardava leggere / soddisfatta del giorno che andava consumandosi / incontro alla sera. Il tempo cessava / di essere un cerchio / come non lo fosse mai stato». La storia che sottende il libro è la crisi esistenziale di una donna colta da prospettive diverse e in scene diverse, è il diario di una segreta e sincera disperazione (da sine-cera, senza cera, senza trucchi, senza coperture di comodo). «Ottanta pastiglie ottanta. / Non sono servite non / ci ha creduto abbastanza»; «Socchiudo gli occhi per osservare / il vuoto puntellato di tavoli / e sedie consunte dall’attesa – / la polvere mi parla / al risveglio obbligatorio dopo / i farmaci e il sonno». Alina racconta come, contro la potenza del dolore, i libri restino prodigiosi argini di resistenza, cura non definitiva ma sicuro balsamo contro l’angoscia più evidente: «Incornicio libri perché non tutto / vada disperso e mi ricordi cosa / è stato di me raccontando / del tempo rappreso in rari / densi anfratti in nere immagini. Osserva Alessandra Paganardi: «I versi di Alina Rizzi non offrono facili soluzioni o indicazioni terapeutiche. Alcune parti di noi vanno irreparabilmente perdute e non torneranno mai più. La scrittura non è certo una mappa per ritrovarle. Forse può diventare una specie di bussola per orientarsi a vista nel naufragio. Non trattenendo nulla, né sperando di farlo: semplicemente imparando, in alto mare e senza neppure il conforto di una spettrale casa di doganieri, a riconoscere persino al buio il volto di chi va, di chi resta». L’autrice, come attraverso le pagine di un diario interiore, guarda il suo dolore – a cui non è necessario dare un nome preciso – senza ritrarre lo sguardo, con sconsolata e spesso sarcastica amarezza. E se “A volte scrivere / è una maledizione” è proprio l’atto di scrivere (o solo di leggere libri) a mitigare le delusioni, a raccogliere la sfida del vivere, a dare un senso anche provvisorio alle pene sofferte: «…I libri / più del pane quotidiano / desiderava e non venivano / incistati tra la carne e i nervi». Un’osservazione, obliqua ma utile: il tono del libro è musicalmente una mezza voce, un parlato mai troppo lirico, una prosa intonata che non corteggia una lingua sperimentale e si sottrae a strategie linguistiche sofisticate o versificazioni erudite («Meritare l’oblìo / quieto e arreso / senza spigoli acuti / dove lasciarsi accadere»): si limita a trattare con sprezzatura e fermezza la materia ovvia e brutale della sofferenza esistenziale, il “lavorìo incessante della sopravvivenza”. Nel suo trattato di poetica e di retorica, Del sublime (“Perì Ipsous”), Longino parla della “adeguatezza” del mezzo espressivo come della forma necessaria di persuasione del discorso. Alina Rizzi, nella sua poesia minima e sgomenta, brusca e senza appigli, resistente e spezzata («Poi le mani, le lettere interminabili, i libri migranti») trova questa “adeguatezza” nel tono della sua voce, nell’esercizio lucido di una scrittura breve.
Puntoacapo, 2020
Fuori di sé
– È fuori di sé –
per quella parte ribelle
amputata all’origine
perfettamente tonda e tesa
che non lascia supporre
quanto ho perso di me.
Resurrezione
Nel giorno della resurrezione
il corpo si prepara attraversando
altro percorso bianco affanno
senza la forza di un credo qualunque.
Farmaci che entrano ed escono
in depositi rosso sangue ferite ammiccanti
poche parole raccolte dal lenzuolo
sudario in cui esercita la speranza
di volare all’orizzonte
di questa terra insana e densa
per cui le sue ali non sono calibrate
e si imbrattano nell’ansia si dibattono.
Vasi di bambole
Bambole rotte in barattoli di vetro
gabbie capsule del tempo
teche per santi.
Bambole disarticolate
distillate a futura memoria
monito del presente.
Bambole di carne
bianche e d’oro – preziose –
icone del tempo nostro
esposte ad ogni sguardo
portate ad esempio
impolverate dal silenzio.
Un giorno d’estate
Tornassi oggi che so tutto il male
futuro e innominabile – una voragine
ti osserverei distante e immobile
costruendo somme di parole
che rallentino guardinghe – la discesa
d’un giorno d’estate.
Un giorno in grande fretta
la scrivania ha sgomberato
libri fogli quaderni
per seppellirli in una scatola
poi nascosta da un telo.
Tabula rasa. Sarebbe stato spazio
per tutto il nuovo possibile
qualche vaga speranza
non un vuoto rotondo
in cui annaspare per giorni
senza risarcimenti. Credeva.
Ha riaperto la scatola tolto i quaderni
e sono tornati i fantasmi
le luci taglienti.