perìgeion

un atto di poesia

Alexandre Vialatte, L’incongrua assolutezza dell’adolescenza

di Enza Silvestrini

 

 

Occorrevano la tenacia di un traduttore-poeta come René Corona e il coraggio di un giovane editore come Prehistorica per restituire al lettore italiano un autore troppo a lungo sottratto. Esce così, per la prima volta in Italia, il romanzo Battling il tenebroso di Alexandre Vialatte (1901-1971), uno scrittore che ha attraversato i baratri del secolo scorso conoscendo la brutalità della guerra, la furia tracotante dei totalitarismi, la difficoltà di ricostruire un mondo ridotto in macerie materiali ed etiche. In lui molte acque confluiscono e si mescolano: la pigrizia della provincia dell’Alvernia lacerata dalla concitazione della Storia; la cultura letteraria francese e la passione per la cultura tedesca (che lo porterà, per primo, a tradurre e a introdurre Kafka in Francia); la struttura del grande romanzo ottocentesco e le nuove tendenze narrative. Eppure, alla confluenza di queste diverse acque, Vialatte sa trovare una sua originale voce proprio aderendo a questa dualità. Una dualità che si incarna anche in questo romanzo scritto a 27 anni, nell’arco di poche settimane, durante un soggiorno in Germania, ma a ridosso del suo ritorno alla provincia natia.

Battling il tenebroso[1] è il romanzo dell’adolescenza, della sua asprezza, della sua assolutezza, della tenera ferocia in cui dissimulare le “ingombranti anime” emerse dalle nebbie dell’infanzia, da un passato, individuale e collettivo, i cui “scarti” si accumulano sotto i banchi in forma di ritagli, fotografie, francobolli. Un’adolescenza che scorre in una purezza torbida e irregolare, martellando i sensi e i desideri, forgiando idee e pensieri, comportamenti e ribellioni, coltivando una disperata speranza che si chiama futuro. Di fronte a questo movimento impetuoso ed eroico sta, di contro, l’insieme monolitico e statico degli adulti. Sono padri, madri, professori, il preside della scuola, autorità varie, le figure di un paese che affoga nella noia del pettegolezzo: adulti completamente ignari o dimentichi della passione che scuote gli adolescenti. Tra loro non è possibile neanche lo scontro poiché una profonda distanza li compatta in due universi paralleli, destinati a non incontrarsi mai. I sentimenti, la rabbia, la paura, i pensieri di questo mondo adolescenziale sono costantemente equivocati da adulti troppo duri o troppo deboli, ma sempre indifferenti.

In questo lago di incomprensione nuotano i protagonisti: tre ragazzi, ingabbiati nell’aula del doposcuola dove vivono i loro 16 anni, alle prese con la vita, la noia, la complessità delle relazioni in un’oscillazione, tipicamente adolescenziale, tra lo sviluppo di un’identità personale e l’adesione a quella del gruppo dei coetanei. Questa oscillazione psicologica nella scrittura è resa attraverso il continuo passaggio dall’io al noi come soggetto logico della narrazione. Il narratore, infatti, pur essendo interno (è uno dei tre ragazzi) resta senza nome, poco più di una funzione. Ai margini della storia, il narratore adolescente la percorre, ne osserva i dettagli, conosce ciò che è accaduto e lo comprende profondamente, è testimone di eventi, destinatario dei discorsi dei protagonisti. La sua narrazione si sposta nei tempi che ricompongono l’ordito. La prospettiva di fondo è quella della memoria: l’età adulta, attraverso il filtro della memoria, accoglie dentro di sé l’altro tempo dell’adolescenza. Per innescare questo procedimento non c’è bisogno della proustiana madeleine perché basta “chiudere gli occhi” per voltarsi indietro e ritrovarsi ancora nell’aula scolastica insieme ai compagni. La distanza temporale è una frontiera mobile che si sposta ancora più indietro (un flashback nel flashback) per ricostruire l’infanzia del protagonista emersa come un relitto, “un periodo non vero della sua esistenza”. Questa mobilità si nutre di molteplici indicatori temporali, che connettono gli eventi in un passato, più o meno lontano dal punto di origine (i sedici anni), e dell’irruzione dell’ecco che vivifica il tempo trascorso.

Escluso il narratore interno e anonimo, la narrazione gioca su un doppio personaggio: Battling (soprannome di Fernand Larache: doppio anche il nome) e Manuel Feracci, due modi speculari di affrontare il mondo. Battling, che viene solo citato all’inizio, compare realmente solo dopo le prime cinquanta pagine. Lui, che è “nell’età crudele”, entra in scena con una battuta volgare[2] riferita a Erna Schnorr, giovane donna tedesca, oggetto di desiderio dei giovani studenti e di curiosità morbosa per il paese. In questa prima frase egli già rivela il desiderio di assolutezza che governa la sua “strana anima” e che si alimenta di false idee ricavate da insufficienti esperienze. “Anima ipertrofica e ingombrante” con cui deve adattarsi a vivere e che nasconde sotto lo scudo della volgarità. È la difesa, ossia l’estremo pudore, lo strumento con cui Battling prova a stare nel mondo.

Manuel, un po’ più grande, trova invece nel cinismo il suo modo per razionalizzare un mondo che rapidamente trasmuta da quello aperto e sconfinato dell’adolescenza a quello piccolo e chiuso dell’età adulta.

La loro diversità si misura nell’amore, un rito di passaggio verso la maturità.

Nell’universo amoroso Battling precipita già da ragazzino tra il fumo e i fondi di bicchiere tracannati nell’osteria paterna. Non è un caso che il suo primo turbamento amoroso sia diretto a una giovane quattordicenne, Maria (in realtà il suo vero nome è Sophie) che un giorno Battling trova al posto di sua madre, partita in sua assenza per luoghi e ragioni che non saprà mai. Questa sostituzione tra Maria e la madre, la sua condizione di ragazza incinta, lo stesso nome (quello della Madre per eccellenza) fanno della ragazza il punto di passaggio dalla donna-madre alla donna-oggetto del desiderio. Desiderio oscuro e ambiguamente edipico, avvertito come una debolezza, che egli nasconde in una lettera anonima e piena di volgarità indirizzata alla ragazza. Battling odia per non amare e, di contro, può amare solo odiando a causa di “quell’umore che gli faceva trovare gioia nella pena e pena nella gioia”. Così quando Maria in un gesto di affetto gli si avvicina, lui accosta il labbro al suo orecchio, per sussurrare “Vecchia carogna” e morderlo con forza. È una ferocia vendicativa indirizzata contro sé stesso, verso quelle possibili carezze che gli appaiono improprie.

Questa prima esperienza segna le altre.

Due donne, Erna Schnorr e Céline, due modelli femminili opposti: l’artista tedesca e la cantante di locali notturni; la bruttezza piena di fascino segreto e la pingue bellezza; una personalità originale ed ecclettica che vuole farsi mediocre per essere come tutti gli altri, e la venale mediocrità che vuole distinguersi cavalcando un divismo da periferia.

Erna è uno straordinario personaggio femminile.

Lei, la pittrice tedesca in cui Vialatte riassume la cultura della Germania degli anni venti, è un motore della storia. Approdata nella cittadina di provincia per raccogliere l’eredità di una prozia e quando è già piuttosto popolare come artista, coltiva la speranza della banalità: confondersi nell’opacità borghese stando a riparo dalla “società di raffinati ed eccentrici”. Non riuscirà mai a raggiungere la desiderata “amicizia dei bottegai” perché viene considerata un elemento spurio che la comunità di provincia non può assorbire, ma solo guardare con la diffidenza delle madri timorose e con l’avidità delle malelingue che tessono “la sua leggenda orrida”. Anche in lei, che è una giovane donna appena più grande dei protagonisti, prevale una volontà di mascherare la sua ansia di vita e di arte, il suo desiderio di essere amata e la consapevolezza della finzione dell’amore[3]. Persino quando le viene diagnosticata una malattia inguaribile, continua a custodire la sua autenticità, ma anche ad alimentare il desiderio di essere una persona comune progettando una tomba di tale cattivo gusto da passare inosservata, una “tomba da negoziante orgoglioso” dove non sarà mai tumulato il suo corpo.

Sulla sua inquietudine, carica di presagi di morte, è naturalmente diretto il desiderio di Battling e di Manuel. Sono anime gemelle nella loro ricerca di pienezza che né il mondo né l’arte sanno offrire.

Sarà Manuel però, anche grazie al suo temperamento artistico, a catturare e a sprecare l’amore di Erna con quel suo cinismo che consuma ogni possibile nobile grandezza mediante un processo di straniamento.

Di contro Battling, assoluto e romantico, potenzia anche nell’odio la grandezza, ma resta, realmente e simbolicamente, chiuso fuori dalla casa di Erna, a spiare dal giardino i suoi movimenti senza mai avere accesso all’interno. Da questo spazio esterno egli, per ben due volte, lancia nella casa di Erna, profittando della finestra aperta, il segno del suo furioso amore che prende la forma di un bouquet di rose rosse recise nel giardino. Il giardino spogliato di tutte le sue rose è altra immagine del suo animo pesante, così come il gesto di masticare i petali fino a tradurre la loro bellezza in un liquido amaro che avvelena la gioia.

La dinamica del doppio segna anche l’elemento spaziale: contro lo spazio borghese della città che trova il suo sfogo nel Caffè dell’Alhambra si erge quello del bar In Mexico che “rapiva le nostre menti chimeriche”. Con il suo nome esotico, i suoi manifesti di capi indiani mescolati ai ritratti dei re di Francia sulla tovaglia cerata del tavolo, il caffè si inserisce in un altro spazio-tempo fatto di una “campagna visionaria”[4] in cui si alzano le nebbie della sera. In questo spazio-tempo altro, fisico e illusorio insieme, tra il fumo delle prime sigarette, le letture poetiche e rum scadente, si attutisce il moto del reale e si apre il mondo dell’immaginazione che mescola elementi e personaggi della realtà per creare un universo nuovo governato da un fantastico Ubu Re: il professore di fisica, lunatico e pazzo, diventato re di Polonia. È un’arte combinatoria, di reale e immaginario, di corpi e parole, che dice molto della capacità artistica di Vialatte.

È, invece, nello spazio del caffè Alhambra, dove la città può trovare una sospensione dai suoi ritmi abituali, che avviene l’incontro con Céline[5], nella quale “l’equilibrio sentimentale della città sembrò definitivamente leso”. Ma l’equilibrio che si rompe definitivamente è anche l’incastro dei sentimenti, tra amicizia e gelosia, che oppongono Battling a Manuel: Céline che potrebbe rappresentare una rivalsa diventa per Battling una nuova sconfitta. Anche in questo caso Manuel è arrivato prima di lui a sciupare un amore possibile. Questo amore è un dichiarato equivoco, ma potrebbe ugualmente riparare l’orgoglio e la dignità di Battling. Lo smascheramento di quest’ultima illusione segna la fine. Fragile e titanico, egli si sottrae alla banale mediocrità del mondo consegnandosi a un assoluto che, tuttavia, non può incarnare davvero.

Tutto, anche la morte, nell’universo di Vialatte può diventare una farsa: ironia e tragicità si tengono per mano saldate attraverso il cemento dell’incongruo ossia del non omologabile, del non riducibile alle categorie logiche consuete.

La lingua di Vialatte crea questo universo attraverso un’appassionata capacità di domare le parole oltre il loro senso abituale, di assecondarle in una loro dimensione selvaggia, veloce e ritmata, di addomesticarle tenendole insieme ad altre affinché brillino di nuova luce. Sorprese dalla loro stessa straordinaria versatilità, le parole assumono profumi, colori, suoni, danno corpo all’invisibile. E proprio in questa volontà di esplorare fino in fondo ogni possibilità del linguaggio, l’autore Vialatte e il traduttore Corona[6] si incontrano in quest’opera.

È un’opera, del resto, centrata sull’educazione, sulla possibilità di trasmettere (soprattutto attraverso il linguaggio, appunto) il sapere e i valori propri di un tempo da una generazione all’altra.

I giovani protagonisti impattano contro un blocco di questa trasmissione: anche l’antico sapere perde consistenza nelle bocche di professori sbiaditi che sminuzzano la conoscenza edulcorandola in un calderone di tiepide nozioni private di ogni potere eversivo ossia di passione. Così questi ragazzi devono educarsi da soli leggendo poeti frementi, vibrando di collera e nascondendosi dai maestri noiosi e retrivi che non sospettano neanche quali capacità liriche si celino nell’animo di questi giovani.

Anche in questo caso siamo a un bivio. Da un lato ci sono le letture clandestine[7] che nutrono le giovani menti, la loro vocazione creativa evidente soprattutto nell’invenzione di quelle figure ibride (come Ubu Re) che tengono insieme realtà e immaginazione. Dall’altro c’è il “ronzio” (termine illuminante) in cui si cuoce una pappetta molle fatta di “Cado, cadis, cecidi; quante pecore rimangono al pastore? […] Annibale fa saltare le rocce delle Alpi con dell’aceto…Voltaire ha detto…; aveva ragione?… Quirites […]”; ci sono le pose da artista, gli atteggiamenti, i tic, e tutte quelle rappresentazioni mistificanti in cui l’arte autentica affonda: le “vibbrrrazioni”, le “sensazzzioni”, le “palpitazzzzzioni” gli svenevoli “ma è in-cantevvvv-ole!”, “ma è adorrrabile!”.

E anche in questo caso lo scontro non può compiersi.

Esemplare in tal senso il passaggio che analizza le ragioni per cui Erna, pur potendo andar via, decide di restare in una sfocata cittadina di provincia. Forse qui, lungo le strade dalle “curve ardite” è più facile incontrare “una qualche figura allegorica – l’Amore, lo Sport, la Verità –, non in un peplum antico […] ma figure superbe, nude, selvagge”. Ma subito la possibile autenticità viene risucchiata da due figure più forti, Sicurezza e Misura, e dall’inserimento implacabile dell’elemento del mercato, della legge del consumo. Così l’Armonia qui “è meno costosa che a Postdam” e la Nostalgia è “meno famelica che a Nordorney”.

Eppure, nonostante tutto, anche in questo ronzio, in questa impossibilità dello scontro, i maestri finiscono per fornire, loro malgrado, agli allievi gli strumenti da cui saranno distrutti: “Gli insegnanti, i maestri imprudenti che insegnano a leggere ai loro allievi non sanno il torto che fanno a sé stessi.”

Il nuovo avanza portando con sé lo stupore dell’incognita.

Ciò che resta, suggerisce Vialatte, è la sorprendente incongruità della vita, il suo continuo deragliare sui binari del possibile dove passato e presente, realtà e immaginazione possono ancora incontrarsi nella promessa “del cielo delle cinque”.

 

 

[1] Alexandre Vialatte, Battling il tenebroso, (traduzione e nota di René Corona; postfazione di Pierre Jourde), Prehistorica 2020, p. 21.

[2] “È una vera sgualdrina!”. Ivi, p. 51.

[3] “Baciami dai, piccolo mio, mentimi per bene. Dimmi che mi ami.” Ivi, p.159.

[4] Ivi, p. 95. Il caffè sorge a circa mezzora dalla città.

[5] Anche fisicamente Céline è il contrario di Erna. Contro la sua figura da nuotatrice, “i tratti decisi, la fronte bombata, le labbra spesse e gli occhi pallidi” (Ivi, p. 35), Céline, spumeggiante e frivola, troneggia con il suo “bel petto d’anteguerra” il trucco rosa e bianco, “la nuca grassa”, i capelli tagliati secondo il gusto del tempo, “le mani corte e lo sguardo tirannico”. (Ivi, p. 121).

[6] René Corona, docente di lingua francese a Messina, è saggista, traduttore e poeta. La poesia di Corona (si veda in proposito la sua ultima raccolta La conta imprecisa, Puntacapo 2019) si caratterizza proprio per il piacere della parola, l’ampiezza del linguaggio che mescola parole colte e letterarie e quelle popolari fino al dialetto. Sul modo di tradurre un autore complesso come Vialatte, Corona firma, in coda al romanzo, una preziosa Nota saugrenue del traduttore, in A. Vialatte, cit. pp.217-221.

[7] Ad esempio le letture di Rimbaud, di Laforgue e di poeti ironici che ci raccontano anche di una svolta letteraria nella cultura francese del tempo. Su questo tema si veda l’analisi particolarmente illuminante di Pierre Jourde che ricostruisce nella postfazione (ivi, pp. 197-215) i riferimenti letterari (dalla cultura popolare a quella del Romanticismo, dal Naturalismo al nuovo secolo) dell’universo disegnato da Vialatte.

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Questa voce è stata pubblicata il 17/03/2021 da in recensioni, scrittori con tag , , .
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