a cura di Giorgio Galli
Da tempo dico che la migliore poesia italiana degli ultimi anni è scritta da donne. È una poesia lontanissima dagli stereotipi sulla “scrittura femminile” e caratterizzata da una precisione di linguaggio che ha il suo antecedente illustre in Emily Dickinson.
Un esempio di questa scrittura è Corpo di pane di Elisa Ruotolo (nottetempo, 2019). Si apre questo piccolo libro e fin dalle prime righe se ne viene travolti: “Usatelo bene, il vostro dolore / ché non diventi mercanzia / né attiri corvi al pasto della pietà”. Dove troviamo un incipit così potente? Lo troviamo, ad esempio, nell’ultimo romanzo della stessa Ruotolo, Quel luogo a me proibito (Feltrinelli, 2021), che inizia con questa frase memorabile: “Tutto è cominciato prima di me”. Il che vale a dire che c’è una perfetta coerenza fra la Ruotolo autrice di poesie e la Ruotolo narratrice, che il suo mondo espressivo si presenta rocciosamente compatto.
Cosa resta, della lettura di questo libro? Direi la sensazione di un biancore accecante, di una lingua che illumina una zona oscura per definizione, quella della psiche, provocando nel lettore una reazione perturbata di fascino e di panico. Priva di tecnicismi, spoglia -in apparenza- di qualsiasi armamentario retorico e ricca però di invenzioni metaforiche, la lingua di Elisa Ruotolo si dona al lettore come un corpo sacrificale. Ciò che l’autrice mette in scena è, senza alcun tentativo di mascheramento, la propria interiorità. Si mette a nudo con una singolare crudeltà Elisa Ruotolo, arrivando a definire il giorno della propria nascita “un errore anagrafico” e procedendo di errore in errore fino a “l’errore nella preghiera che fa sorridere Dio” -altra invenzione memorabile.
Il secondo aspetto affascinante della raccolta è il conflitto che si crea fra la limpidezza del dire e l’energia selvaggia, la “forza d’urlo” di un’interiorità che esplode oltre i limiti della parola. È il contrario di quanto accade nella poesia di Gisella Genna, altra autrice di una sola e stupenda raccolta: lì tutte le tensioni si posano nella pace inquieta della forma, qui invece l’io poetico drammatizza la propria mancanza di pace e la traduce in una scrittura di cristallina carnalità. Versi e componimenti sono fortissimi, e al tempo stesso pieni di grazia, come in Le parole si sono ammalate che declina il dissidio amore/scrittura con una semplicità commovente. Ma questa commovente semplicità contiene una tensione implacabile. Il verso è come un argine allo straripare dell’intensità: c’è una lotta tra parola e verso, e pare quasi di vedere l’autrice che cerca di deviare il corso disperato e candido delle parole, di costringerlo ad andare a capo.
Affiora, tra le pieghe di quest’energia che ara lo psichismo del lettore, il sentimento della nostalgia della vita da parte del poeta. Un sentimento comune a molti poeti, se Cioran definiva la personalità umana del poeta “la negazione stessa della vita”, e che conferma come ci si trovi di fronte a una poetessa autentica, che vive la sua condizione senza sconti.
Saper fare poesia con parole dirette è un dono. I più procedono nel terreno oscuro della poesia moltiplicandone l’oscurità. L’autrice di Corpo di pane moltiplica le occasioni di chiarezza, e solo la sua ricchezza interiore e linguistica fa sì che si moltiplichino anche il mistero, la polisemia, le porte che questa poesia ci invita con violenza a spalancare.
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Usatelo bene, il vostro dolore
ché non diventi mercanzia
né attiri corvi al pasto della pietà.
Badate di nasconderlo con cura
allora procuratevi bende pesanti
cerotti che tengano
stampelle che fingano passi
medicamenti di carità.
Tenetelo via dall’affollamento del mondo
e non parlatene se non sotto minaccia
di un’arma carica o avvelenata alla punta.
Non fatene commercio di misericordia
non spartitelo per debolezza
né tenetelo da soli
se le mani non ubbidiscono.
In casa basterà fornirsi d’una luce scarsa
-lampadine a risparmio energetico
meglio se d’un tipo scadente
che sfrigolino nello sforzo di mostrare
senza riuscire-
che non promettano durata o allegria.
Alimentatelo di stenti quando sia insopportabile
o di delizie, se vi dà di che vivere
o morire.
Se dovesse sanguinare, dolore o ulcerare
o diventasse dichiaratamente malattia
abbiatene comunque la cura dei figli
spruzzatelo di gocce a benedirlo
e spezzate il vetro delle fiale sui comodini.
Il giorno in cui guarirà
gioitene moderatamente
come si fa coi miracoli
che non concedono per sempre
non risolvono
perché lo sanno anche i santi veri
quelli senz’altare
che la carità -quaggiù
non esiste.
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Non ho nulla.
E sono ciò che possiedo.
Vorrei essere utile
-l’anello che salva il dito dal taglio
-l’errore nella preghiera che fa sorridere Dio
-la carogna dell’animale a farti sentire vivo
e l’addio che accetti
senza rammarico.
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Ho pietà
ne ho così tanta da poterne morire.
Fa male ogni filo d’erba che sale dalla terra
fa male il buio quando strazia la luce
ma anche il chiaro che lo insidia.
Il duro del mondo è il dettaglio di metri
che abito, è l’argine che non doma il fiume
ma lo arrabbia, è il sentiero carrabile
che mangia le scarpe e va fuori paese.
Se pure pregassi i grani non verrebbero alle dita
il male non sgualcirebbe né cadrebbe in briciole
se pure accorressi ai porti o ai monti
si finirebbe ai fondali o si cadrebbe in valanga, comunque.
*
Abbiate pena di questa pietà
abbiatene la cura degli altari
nonostante l’avarizia dei miracoli
che cadono altrove, sempre altrove
a gloria di un dio che non ne chiede.
*
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Vorrei essere pane
e lasciare che tu mi prenda
come capita
-per avidità
appetito
o abitudine dell’ora.
*
Vorrei essere pane
perché tu avessi almeno
il dovere di poggiarmi
alla tua tavola
-in offerta
senza più la libertà d’affamarti.
*
Vorrei essere pane
perché l’unico dolore
sarebbe quello del coltello
che incide la crosta.
Poi saresti lieve
pur nell’ansia di conoscere
il mio cedevole bianco.
*
Vorrei essere quel pane
che tu dovresti avere lo scrupolo
d’impastare
e per il quale ti leveresti
a trascurare le notti.
A farmi crescere
sotto il panno di cure
della tua carne.
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Le parole si sono ammalate.
Oggi le ho trovate pallide, se ne stavano contro il muro di casa
a contarsi le sillabe. Di sicuro erano in febbre per l’incuria che ho
a serrare gli spifferi e dirigere le correnti.
Per averle dimenticate al freddo mentre rigovernavo la mia vita
altrove, mi hanno fatto lo sgarbo d’infettarsi
e ora stanno lì in un angolo a dire insensatezze
nominando i miei fantasmi e a tossire senza pace.
Le ho sgridate, le mie parole: siete grandi, grandi abbastanza
da accudirvi se mi distraggo o m’incaglio in un impegno
o in un amore. Ma loro non mi hanno dato da dormire
stanotte scottavano, deliravano ancora
e io ho perdonato loro la verità che cantilenavano
mentre il mercurio passava i quaranta.
Ho chiuso le finestre e dato fuoco al camino
per tamponare ogni vento ho stracciato le mie vesti
-ché non serve stare composta se sommo mancanze.
Domani staranno meglio, le mie parole
e non diranno più che le trascuro per abitare altre stanze vive
ma mentre le assisto so che il malanno s’annida altrove
e già il mio amore -nella stanza in fondo-
comincia a starnutire.
*
*
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Ho paura di te, cuore mio.
Hai occhi disoccupati e ti fidi e dimentichi
e perdoni facilmente.
Hai anche desideri scomodi
come ginocchia sbucciate di fresco
sotto il vestito corto della domenica.
Ami come potrebbe fare una donna pubblica
e poi vorresti una morte comoda
-che una valvola, un ventricolo, un atrio
smettessero inaspettatamente di collaborare.
Hai la docilità degli agnelli alla tosatura
e l’oscurità del primo serpente
che tradisce ogni nato.
Lo so, vorresti trovare mani con cui spartire
le valigie, ma vai a spiegarla agli altri -questa tua
stanchezza.
Oppure spiegala a me, che di te ho tanta pena
se batti e batti
inutilmente.
Trovo queste poesie spettacolari.
Grazie.
Francesco
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Molto Like…
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Il meglio che posso dire è che ho messo questo libro nella lista degli acquisti.
Grazie.
Nino
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Molto belle , dirette e autentiche. Hanno la vera “voce” poetica.
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