Istruzioni per la luce (Passigli) segna il ritorno di Luca Benassi dopo oltre un decennio dall’ultima raccolta pubblicata, escludendo plaquettes e antologie. Si tratta di un lavoro consistente come numero di poesie, denso come tematiche e al tempo stesso fluente per la qualità della scrittura che rimane costantemente di notevole livello. A mantenere alta la tensione giova la struttura stessa del libro – che inizialmente, lo ammetto, mi aveva un po’ spiazzato e invece adesso riconosco decisamente funzionale -: la raccolta si divide in sezioni che sono abbastanza nettamente separate le une dalle altre e che semplificando potremmo immaginare che seguano due fili paralleli. Il primo è quello di carattere più “civile”, “sociale” e anche “storico”: vi incontriamo delle successioni di testi che a volte sembrano comporsi in veri e propri poemetti, e che rivolgono la loro attenzione agli ultimi (che è il titolo della sezione di apertura, composta di alcuni splendidi ritratti a persone senza dimora) e ai dimenticati e ai perdenti della storia, lungo un percorso che va dalle Fosse Ardeatine a Hiroshima fino a Chernobyl. È un percorso privo di intenzioni didascaliche o moralistiche, ma ricco di pietas umana, capace di quella immedesimazione nello sguardo dei protagonisti che dona autenticità al racconto scritto anche da chi, come l’autore, non poteva essere presente.
Il secondo filo segue invece il percorso privato di Luca Benassi, il rapporto di coppia, la paternità, e racconta di un periodo che si intuisce ricco di viaggi, stazioni, cambiamenti e spaesamenti. Sono pagine in cui spesso la scrittura rimane più sospesa, quasi sussurrata – come si confà ai sentimenti – ma non diventa eterea: esiste in effetti sempre un radicamento, che sia una situazione (la telefonata, il passeggio, il tavolo da sparecchiare, l’auto da cui si scende) o una vera e propria geografia dei piccoli luoghi (la sezione Strade, ad esempio, dove ogni poesia porta il nome di una via o di una piazza).
Questi due fili paralleli che si alternano e che si inseguono, come sottolineavo, costituiscono il telaio della raccolta, e permettono a Luca Benassi di cambiare le atmosfere, i tempi e i ritmi della scrittura, così da costruire una serie di episodi capaci ciascuno di trovare il proprio climax. Contemporaneamente, però, esistono dei ponti e dei nodi che trasformano i due fili in una solida rete. Il primo è la scrittura di Benassi, e verrebbe da pensare, prima ancora, la sua prospettiva: esiste infatti una profonda coerenza etica fra l’uomo che scrive delle Fosse Ardeatine e quello che ama la compagna e i figli, e questa coerenza è ciò che dà all’autore il diritto di rivolgere il proprio sguardo di uomo (incompleto, incompiuto e pieno di difetti come tutti, ma anche solido e trasparente) anche verso la storia e le vite degli altri. Il secondo è l’idea di luce. La luce non è soltanto un elemento del titolo, perché questa raccolta fornisce davvero delle istruzioni per cercare la luce, quella luce così presente in ogni passaggio, che sia il baluginare delle stelle come “punte di freddo fra le viti”, che sia la deflagrazione tragica di un ordigno atomico, che sia quel cielo chiaro che i minatori di Marcinelle un giorno non hanno più potuto rivedere. E mi sembra che questa luce sia anche un messaggio di speranza, non la speranza ingenua e infantile, ma la ricerca ostinata e tenace di un uomo che conosce la durezza della vita e non si arrende, continuando a cercare quella bellezza che è “un contrasto di effetti / una linea di sole fra le palpebre dei rami”.
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(Nereo)
Nereo era un clochard originario di San Bonifacio, in provincia di Verona; era un uomo colto che amava i libri e aveva lavorato all’estero. Da oltre 20 anni viveva in strada a Roma, conosciuto da tutti, fra via Po e Corso d’Italia, con la cagnetta Lilla, spostandosi a ridosso delle mura aureliane a seconda del vento. È morto alle prime ore del 7 gennaio 2018, a 73 anni, travolto da una macchina che ha proseguito la sua corsa senza fermarsi.
Più del fiuto di Lilla era il vento
a dirmi dove mettere i cartoni
fra via Po e Corso d’Italia,
a sistemare gli stracci, i libri
e il telo verde, con la sua ciotola piena di carità.
Il vento giurava fedeltà,
come nei romanzi d’amore
come un fiato caldo in ottobre,
oppure una lama che sapeva di frutta
con la tramontana di gennaio.
Che amassi la parola più del denaro
lo sapevate tutti.
Bastava il tempo a darmi dignità,
il caffè offerto all’alba, le luci lucide
dopo il temporale, un uragano di pollini
di malva e menta, aggrappate alle mura.
Me ne sono andato con clamore
questo sì, senza neanche dare l’ultima
carezza a Lilla, senza girare l’ultima pagina
del libro, che non ho finito e non finirò.
Ora lo sfoglia il vento
sotto un cielo
che pare un mare rovesciato
limpido come questo addio.
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(Gradara)
C’è una pace in ogni desiderio
un sentirsi muti negli orizzonti del vento,
un trattenere le mani
nella quiete dei borghi
nelle mura di pelle, nelle torri
liquide del sonno.
Da quella panchina puoi ascoltare
un bisbigliare di candele
allo spiegarsi lontano delle vele
dove ogni partenza è un farsi più vicino
ogni grido una preghiera
ogni stretta una promessa di bianco.
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(arrivando)
Mi chiami sempre a Senigallia
con i tre fischi delle porte
a ricordarmi di tornare.
Dove sei? mi chiedi
come se questo orizzonte alla mia destra
fosse un vuoto spietato da colmare.
Da qualche parte rispondo
e la risposta ti basta,
come le costellazioni sul terrazzo
il bacio, la mano forte che ti stringe
il passero che ruba
la nostra casa di molliche
dal mio palmo al ristorante.
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(Paul Tibbets)
Paul Tibbets comandò il bombardiere B-29 Superfortress, soprannominato Enola Gay dal nome di sua madre che il 6 agosto 1945 sganciò la bomba atomica sulla città di Hiroshima. Paul Tibbets non si pentì mai del suo gesto, affermando di aver portato a termine con successo la missione affidatagli. Morì nel 2007.
Da quassù tutto appare un gioco di segni
una pace orizzontale
fra i legni e la carta di quelle case
delle quali conosco il destino di luce.
Ho fatto pulizia nel cavo cuore
nello sguardo posato come una colomba sulla terra
e dato ragione all’altimetro
al chiaro sgombro del cielo.
La mia missione è questo pulsante nero
il suo click preciso a segnare la traiettoria
a questo ragazzo piccolo,
nella vertigine verticale dell’addio,
nell’atomo dissolto del suo grembo.
Se mi chiedete un giudizio
risponderò con il foglio dell’ordine
e la logica che non conosce l’occhio del male
nel dolore di questa nostra luce occidentale.
Certamente lo rifarei, battezzerei l’aereo,
segnerei di croce l’ordigno,
terrei ferma la barra, darei luce
e tenebra su questa terra.
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(Natasha Yuvchenko)
Natasha Yuvchenko, madre di Kirill di 4 anni e moglie dell’ingegnere Alexander “Sasha” Yuvchenko in turno la notte fra il 25 e il 26 aprile 1986, era ancora sveglia all’ora dell’esplosione. Viveva nella città di Prypjat, evacuata dalle autorità sovietiche il 27 aprile. Durante l’incidente, il marito Sasha assorbì una dose di radiazioni pari a 410 rem (4.1Sv). Fu ricoverato all’ospedale di Mosca e subì 15 trapianti. È ancora vivo.
Kirill non dorme, ha la gola di pianto
e l’odore delle patate bollite nel latte.
Sasha ha il turno, il bianco del camice
e l’appuntamento, domani
per i jeans e due pentole nuove
allo spaccio in fondo alla strada.
Se è una stella spuntata come la venere dell’alba
o una festa, laggiù alla centrale,
io non so dire,
ma dalle finestre gli occhi osservano il miracolo
il bianco che sale al cielo
nero come i capelli di Sasha.
“Lava il bambino” – mi ha detto Nikolai,
quando è tornato indietro, la mattina dopo,
senza prendere il turno –
“Cambia i vestiti e l’acqua prendila fresca”.
Sasha l’hanno portato via
con la pelle nera come i capelli,
che si stacca squamata
ad ogni cambio di lenzuola.
È il sangue – dicono – dolce e denso
colato come un succo fuori dalla vena.
Siamo andati via nell’ora più calda,
con il cielo ancora azzurro, senza odore
netto nel ronzare degl’autobus.
Sarà per poco, hanno detto quelli del Partito
e allora ho cambiato il calendario, piegato i panni
chiuso le finestre.
Ho guardato i passi di Kirill
già malfermi, il filo del respiro,
inquieto, già teso nell’affanno.
***
VENIRE ALLA LUCE
ai miei figli
Capita a volte, in autostrada
guidando fuori dal buio delle gallerie
o sui vagoni, quando il treno esce dai trafori,
che mi chieda cosa abbiano sentito i vostri volti
uscendo dalle labbra del cesareo
nel freddo delle garze, asciutti
nell’affanno del primo respiro.
Quale luce sorda,
nel blu di quella stanza d’ospedale,
o quale improvviso sole d’inverno
vi abbiano sciolto il petto in pianto
e inciso la linea tratteggiata delle palpebre.
Mi chiedo – adesso che i vostri occhi aperti
scrutano il futuro
dentro i fuochi più azzurri del desiderio –
quale somiglianza, quale incommensurabile
bramosia di pelle
abbiano avvampato allora, nella prima luce.
Fu per voi la vita
un’improvvisa lama bianca,
fu calore e coraggio, già nome di figli.
***