In ricordo di Raymond André
di Antonio Alleva
Era la X edizione del Premio Giorgi. In giuria, con me, Mara Cini, il compianto Gregorio Scalise, Loredana Magazzeni. Così, fragili, debolmente spillate tra le mie mani, ecco una serie di poesie inedite:“Le vetrate di Saint Denis”.
Il primo contatto. E quel premio: un’edizione unica, forse, per valore. Tra i partecipanti, nomi forti, la Calandrone ad esempio. Nessun dubbio, poi, nella scelta: “Le vetrate di Saint Denis” sarebbe presto diventato libro compiuto, complice l’editore Manni.
E la premiazione, anni fa, nitida nel ricordo, in un maggio emiliano, a Sasso Marconi: un maggio di luce.
Qui il secondo contatto: una persona gentile, meravigliosamente piena nel suo sguardo timido, di chi sembra lì per sbaglio, di chi non vuole disturbare. No, Raymond, tu non disturbi mai, verrebbe ancora da dire. Porti con te fiori come armi di distruzione di massa. Dai vita.
Oggi, a distanza, rieccoti Raymond: tu, sans papier del mondo, poeta dalla parola cosmopolita, senza confini. E la tua poesia mai compiuta, mai definitiva. Rileggerti ancora, adesso. Come e più di allora. Per tentare di scrivere ciò che resta sotteso.
Parlare di un autore porta a misurarsi con il suo sistema pregresso, implica una complicità interna: ebbene nulla è delineato per sempre, nulla è completo quando si apre alla poesia di Raymond André. C’è, ed è certo, immediata empatia, folgorazione analogica. Ma non bastano le parole per circoscrivere, comprimere in un senso, delineare.
La tua forza, Raymond: una sintassi prelogica, la poesia come archetipo. Tutto è rigorosamente pensato e detto sottovoce, tutto apre a inferenze di senso, suggestioni. E sono atomi, sostanze prime, le parole: affiorano semplicemente, cercano te, lettore, identificandoti in Maurice, o in qualsiasi presenza reale e fantasmatica di un mondo che si dà e scompare a intermittenza, misurando il battito del cuore e il ritmo dei versi alla ricerca di un ictus, di un punto di accumulazione dove sostare un po’, prima di risalire la corrente, come accade ai salmoni.
Raymond: autore senza schemi e senza padrone. Libero di migrare e fonderti al suono della trombetta di Henrì. Poeta di più mondi che confluiscono in una terra di nessuno, la Rue des Étrangers dove abita la parola plurale, quella che unisce e accomuna. Oltre i confini.
E la tua poesia, oggi? Verrebbe da chiedersi; è lei che ti sopravvive, o sei tu, per sempre, lì dentro, che detti il ritmo, dai dolcezza inquieta ai versi?
Credo sia una forza biunivoca a vincere, quella che unisce lettore e autore, dando origine alla completa osmosi tra scritto e recepito: Raymond, in te agisce una sorta di incantesimo, una ruah che è immanenza di spirito. Il linguaggio si espande in ogni forma: è runa, mistero e segno, pastiche e codice.
Leggerti, Raymond, significa oggi entrare in una terra-altra, dove nessuno manca e tutto appartiene a un luogo condiviso, familiare. Occorre decentrarsi, allora, porsi, parafrasando Kafka, nella prospettiva del suddito in attesa del messaggio imperiale: non arriverà mai, forse, ma è nell’attesa ciò che conta: qui è la poesia, nell’attimo interminabile che svela qualche verità, e irrompe come forza inconscia, primordiale.
È la tua grandezza, questa, Raymond: fondere luoghi e immagini, presenze e assenze, realtà e ombra. Nasce qui il tuo romanzo mai interrotto, la tua vita che è scrittura, polifonia. Basta poi un “tana libera tutti” e si apre l’umanesimo, l’attenzione al mondo: poi nessun cuore manca.
Liberaci, allora, Raymond. Oggi come ieri. Fallo sottovoce, come sempre. Con le tue briciole di pane che attendono un pettirosso d’inverno. Che le molliche nutrano. E vincano la neve.
Ivan Fedeli
Milano, 3 gennaio 2022
Senza vela
Vedi: qui sul sagrato di Saint Denis
in una sua esile gravina depongo il baco da seta
la scintilla la fune del prigioniero il grano
verde oro delle mie parti
la mia stenotipia stentata l’arco la freccia di paglia
la mira del trapasso del Tuo scudo da parte a parte
con l’alzo calcolato sulla parte umana del mio cuore
Posso vivertTi solo così. Nella metastasi delle palpebre
sull’uscio e la sua soglia della porta del mattino.
***
SALE D’ATTESA
piove da quattordici giorni
senza tregua
cresceranno i fiumi è una pioggia fine
do not cross
guardo i binari dal ponte parallele a terra
le traversine di quercia
che le uniscono negli spacchi delle stagioni.
Sembra dicano qualcosa di vero intonro alla vita
soprattutto sul resto
sento una fisarmonica dentro un’aria di Smetana
buona per le giostrine con i cavalli di legno
les menages aux chevaux de bois
viene dalla stanza di sopra.
Mi è stato dato il riguardo lo spazio che si deve all’ospite
nel passaggio nella terra dei cuori
***
L’ANGELO
ora prima
impossibile da spiegare con quella spiga penzolante
lo stelo piegato tra le labbra una selvatica gramigna raccolta sulla sponda
lo sguardo fisso sulla foce aperta del fiume sul paesaggio perfetto
imperativo categorico – non voltare pagina per assenza di trama
quando le parole per miracolo rinunciano al loro destino privato –
o scrosciano come ora sulle nostre croci di legno sulle nostre tende
Eventi a Sud
“Plaza Magdalena”. Siviglia.
Tagliata netta dal sole.
Più puro il bianco della pietra
celeste l’azzurro delle imposte.
Resiste ancora un angolo di buia ombra
tempio di una gitana
nera donna assorta
che da un bastione di porto
con gli occhi insegue il mare.
Lunghi sciolti capelli, lunghe onde.
Mi afferra la mano
mi accorgo che è cieca.
Mi fissa negli occhi.
Con la punta delle dita
cerca e indaga i segni ciel mio palmo.
Mi perdo nell’incanto del suo vedere
dimentico delle predizioni.
Un caldo vento rapisce
i colori dei gerani sui balconi
scioglie le nostre mani.
***
Splendid hotel
per oggi non resta che cercare da vivere altrove
nell’avamposto di un dove con l’inevitabile uscita sul retro
***
DALLA TERRA DEI CEDRI
ora devo andare (come al solito) quando si prova a placare il grido della terra
risalgo lassù dal bosco notturno del mondo come dice Bartleby
verso le tende piantate sui pascoli
un piccolo fuoco per la notte e dormirò con la corrente del fiume
per ricaricare domani il sogno
riaddestrare il battito del polso perché ancóra più tenera ti sia la cura
della mia prossima parola
***
02709/00 22.15 – 02/09/00 22.40
03/09/00 21.42
Abitano le viscere della distanza, nei vicoli fuori mano
li accendono i loro fuochi, illustrano il buio
intonano il concerto per la prossima improbabile mèta
senza colpa lo sguardo del prossimo inverno sta arrivando
nell’imperfezione del ricordo e con segni dell’esclusione
vento di maestrale, gelide nebulose di polvere e salsedine
refoli trai tavoli del caffè spogli come tigli raccolgono
le voci che li hanno incrociati e la nostra dispersa appartenenza
***
Amour de lohn
spesso vivo come un ricalco su vetro
quando inserisco i miei rotoli perforati nella pianola
a manovella
giuro: l’organetto non lo venderò mai all’asta.
Neppure tu i tuoi occhialetti quando togli la polvere dalle cornici
nel gesto luminoso che accompagna ogni minima circostanza
il tuo modo di porre il sigillo sulle alberature dell’attesa
e mi pensi così:
mio bracciante
testado selvaggio scorticato sans papier io prego per te
il dono di una musica che non conosca più la pena degli intervalli.
UN BUON CUSTODE
Da Bartleby
a Henrì.
Tra poco, mon ami, il 23 febbraio prossimo venturo (anno domini 2022), saranno dodici gli anni che ti hanno portato via. È tempo che il buon custode torni a salutarti.
Qui i dati di fondo della condizione umana non sono mutati, si nasce e si muore senza volerlo, ci si ammala e si guarisce, si uccide e si prova ad amare, ed è monotono il pendolo tra l’orrore e le altezze dello spirito.
Nel frattempo l’economia globale ci domina per filo e per segno, tarpa le ali ai giovani e al futuro, in Occidente si procrea sempre meno e di contro migliaia di migranti affollati di figli continuano a fuggire da guerre e miseria, bussano alle nostre porte, reclamano accoglienza. D’altronde per secoli gli abbiamo prosciugato le terre, però questa storia non se la ricorda quasi più nessuno. Qui addirittura s’invoca l’alzata dei muri, il retrivo odioso “vade retro, pezzente!”, e in certi posti ai muri hanno aggiunto cani d’assalto e filo spinato.
Come vedi, mon frère, i tuoi sans papiers si moltiplicano, moltiplicando le terre dell’esilio. Per il resto, è presto detto: tra ricchi e poveri il divario s’allarga, i padroni del vapore si raffinano per tenere ben saldo il potere, usano la tecnica che gira a mille e sforna robot e assistenti vocali digitali: e ci ipnotizzano con cromatissimi touch-screen che contengono il mondo in un palmo e ne riducono la percezione alle dimensioni di un rione. Ti aggiorno: di venerdì milioni di giovani incazzati coi padri, secondo loro incoscienti spreconi, manifestano nelle piazze del pianeta affinché si affronti l’emergenza climatica. È vero, stavolta il dio del profitto e dei consumi s’è fatto prendere la mano, le sue ciminiere hanno cambiato i connotati all’atmosfera e tra non molto l’aumentata temperatura solleverà gli oceani.
All’unisono (atavica, beffarda dinamica del vivere umano), la stazione spaziale accelera gli esperimenti, d’altronde Hawking l’aveva detto: la terra non basterà più comunque, pur se i governi dovessero riuscire, con 30 anni di ritardo, nel loro tragicomico correre ai ripari. Pensa che certi ricconi già vanno su e giù per turismo, col prezzo del biglietto potremmo sfamare i bambini del Togo.
Blocco all’istante l’indignato urlo della vecchia morale, pane raffermo per la bocca degli ingenui: giacché abisso e volo sono impastati da sempre nell’animale uomo.
Dimenticavo di raccontarti la vera, grande novità. Si chiama Covid-19, o – meglio – Sars Cov2, popolarmente noto come Coronavirus. Ci ha assaliti. La scienza ne addebita la genesi ai pipistrelli delle devastate foreste dell’Amazzonia, i servizi segreti a un laboratorio di Wuhan, megalopoli cinese da cui è partito. Chissà se lo sapremo mai. Di certo, Sars Cov 2 e le sue mutazioni han messo alla berlina popoli e nazioni, sono due anni che viviamo in piena pandemia. Vedessi che spettacolo gli uomini con le mascherine, i politici che si azzannano in Tv persino in una così drammatica circostanza, e vai con i lock down le riaperture le zone a colori i green pass i si vax i no vax (la mania degli inglesismi ha dilagato!)… morti a milioni, e quanti poveri cristi nelle terapie intensive. Se ci fosse l’Oscar per i suoni, nel 2020 avrebbe stravinto la sirena delle ambulanze.
Ma era ora. Che l’homo sapiens riprendesse una sberla così potente – abbassa la cresta, omino col senso di onnipotenza! – gli urla in faccia l’invisibile moscerino a forma di corona, e gli rammenta che: – tu sei solo un ospite nella natura tragica bellissima e indifferente –. Voluta monca da dio o chi per lui.
Ti sarebbe piaciuto essere ancora qui, mon ami. Son certo che ce ne saremmo andati a giocare a bocce, come facemmo nel pomeriggio di quell’11 settembre mentre le torri di New York bruciavano e i cuori ingenui urlavano vendetta contro la retriva, spietata scimitarra di Allah.
Tuttavia, resta immutato anche il chiaro oltre lo scuro. Non mi riferisco alla vecchia speranza del Sol dell’Avvenire, bensì alle minime cose di ogni dì che confortano e spronano la resistenza dell’istinto alla sopravvivenza: brandelli di quiete e sprazzi di gioia, qualche rumba di allegria con soffi di leggerezza, l’avanzata delle donne verso la presa del potere (che siano benedette!), lampi di residuo stupore… ma soprattutto sopravvive Henrì, il tuo gelataio col carrettino nelle strade di Bernissart, e poi il gioco, il sorriso, la superiore intelligenza dei nuovi bambini.
In conclusione, due righe tutte per noi. Io Bartleby, tu Henrì, e il perché tra noi ci chiamavamo così già lo spiegammo nella curatela di Rue des Étrangers, il tuo libro postumo. Ti aggiorno: l’Inter ha rivinto lo scudetto, pare sia pronta a riaprire un ciclo di supremazie, però adesso la proprietà è cinese e comunque le montagne di denaro che governano l’ambiente hanno sciupato l’incanto dello sport più bello del mondo. Da ultimo la poesia, mon frère, la poesia, questa strega che rovina e esalta le vite. Si continua ad ignorarla, mai che appaia sui grandi palcoscenici, tuttavia ancora sprizza entusiasmo e sangue, circola in un gomitolo di strade, scorre per mille torrenti, … e io e te persistiamo impavidi, giulivi e traviati scolari, taccuino e lapis alla mano, tu sotto al tuo acero, io sotto al mio sicomoro, ad appuntare i nostri rapiti scribilli.
Ma ti confesso che a volte avvampa la voglia della tabula rasa, la resa alla fatica di conciliare due vite, l’urgenza di trasformarsi in uno di quei tuoi 15 passeri infreddoliti, prima di sloggiare per la migrazione dal nostro pentagramma preferito:
i fili dell’alta tensione.
Salutami il caro Belaqua, se puoi.
Tuo
Antonio Alleva
Raymond André (1956 – 2010) era nato in un villaggio di minatori al confine tra Belgio e Francia dove aveva compiuto i primi studi.
Laureato in filosofia, ha poi vissuto e insegnato letteratura a Bergamo, Castelli e Teramo.
Ha pubblicato Segnali d’ombra (Andromeda Editrice 1999), Le vetrate di Saint Denis (Manni 2004), silloge con cui ha vinto la X edizione del Premio Renato Giorgi.
Suoi testi sono giunti finalisti ai premi nazionali S. Egidio 2001 e 2004, e Poseidonia Paestum 2003.
Nel 2009, il Circolo Mario Luzi di Boccheggiano (Gr) – organizzatore del Premio Città di Montieri – gli ha conferito il 1° premio nella sezione Miniera e il 2° premio nella sezione Inediti.
È presente in Ondate di rabbia e di paura, la voce dei poeti dopo l’11 settembre (Rai-Eri 2002), 4 poeti abruzzesi (Edizioni Orizzonti Meridionali 2004), La parola che ricostruisce, poeti italiani per L’Aquila (Tracce 2010), L’orma lieve (Le Voci della Luna 2011) e in Amici e poeti a cura di Simone Gambacorta (Duende 2011).
Nel 2014, per i tipi di Il Ponte del Sale, è uscita la sua raccolta postuma Rue des Étrangers, a cura di Antonio Alleva e Patrizia Vernisi.
***
Non conoscevo né l’autore né l’uomo Raymond André.
Nelle parole di Ivan e del suo caro amico Antonio Alleva si intuisce una persona ricca e intensa che si percepisce anche dalle sue poesie qui riportate.
grazie.
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Era un poeta e un uomo di grande spessore umano. Scomparso troppo, troppo presto.
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