di Camilla Ziglia
Una quarantina di testi brevi o brevissimi trascina ipnoticamente il lettore, si lega in un flusso di coscienza che travalica i singoli frammenti per restituirsi intero in ognuno dei due lunghi capitoli Un varco, carsico e Lo strapiombo di essere intera. Costruita su una sintassi labile, priva di punto fermo finale e maiuscole, ogni poesia sporge sulla successiva e conduce così a un incantamento onirico.
Viceversa le immagini sono slegate e vivide, attinte dal sogno o dalla memoria senza distinzione, accostate in lampi d’intuizione che scardinano i nessi logici. La d’Ari stessa in epigrafe suggerisce il proprio modello surrealista citando Paul Éluard, ma non commette l’ingenuità di aderire con intento avanguardista a una temperie ormai storicizzata. La sua poesia in oscillazione tra inconscio e ricordo mostra le pareti dell’abisso dondolando, come in culla, da un paracadute appeso a un ramo, però non tralascia i segnali del corpo: la percezione sensibile decripta il linguaggio del mondo in fase pre-logica, bypassando il pensiero razionale, scavalcandolo senza interpellarlo. Surrealista è questo stato di sospensione (riscontrabile a vario titolo in Mirò, Apollinare, Breton stesso) che compare in più vesti: il paracadute dell’incipit programmatico, il cestino della bicicletta, il funambolo, «ciondolavo» (p.42), «appesa / ciondolando» (p. 50), «fogliolina / che cavalca nel vento la caduta» (p. 49). L’autrice muove da una ricerca disillusa di sicurezza a lungo sperata, mai raggiunta né nei rapporti con il mondo né in quelli con un “tu” sfuggente, con un “noi” che «residua, non sazia».
Resta la visione dell’abisso da una posizione problematica di messa in discussione continua della tenuta dell’io («abito l’orlo del salto») e si aprono voragini, pozzi, strapiombi, crepe fra schegge aguzze in paesaggi carsici o desertici, assetati e scarni. In antitesi ambientazioni lussureggianti, linfatiche, stagnanti e paludose come di foreste pluviali in cui si aggira la “bestia” felina, l’approccio animale e istintuale al mondo («mia foresta libertà oscena»). Questi gli sfondi di molti sogni, quotidiani invece quelli dei ricordi, ma gli spazi e i momenti sfumano gli uni negli altri in un torbido indistinto, color “ocra”.
Ben sottolinea Mario Famularo nella prefazione quanto contino la fisicità, il particolare anatomico, l’organo di senso che legge l’elemento naturale «emblema trasfigurato di una coscienza primigenia […] che è motore della voce poetica della d’Ari e al contempo occasione di scoperta del mondo». L’orecchio ascolta il silenzio, il canto del mondo e si fa esso stesso silenzio, canto dell’anima, poesia, «soglia d’acqua», «nodo scorsoio che stringo / e allento, l’estrema torsione / di abisso e canto».
Il legame comunicativo inconscio-corpo somatizza i dolori dell’anima nelle ferite degli «occhi che tarlano», delle «gengive bucate», delle «labbra franate sui cocci», e dei palmi delle mani (pp. 21, 26, 27). Ricorre più volte l’immagine delle stigmate, laica nel contesto, cristologica in allusione, così come la “preghiera” in incipit («canto il silenzio d’edera preghiera», v. 1) che chiude ad anello in explicit («[…] io prego / e non dimentico», ultimi versi).
Riporto la motivazione del premio di Mauro Barbetti (in postfazione), perché riassume un concetto di poesia che condivido e che trovo in questo libro: «La poesia della d’Ari non ha nulla di salvifico o consolatorio, ma ha il pregio di lasciarci meno soli nel transito e ci confida […] una possibile lettura del mondo».
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Da Silenzio, soglia d’acqua (Arcipelago Itaca, 2020)
un varco, carsico.
da attraversare scalzi
vuoti d’aria a piene mani
l’arsura che stringe i polmoni.
lasciarsi prosciugare.
versare la voce nel calco di luce.
scomparire
*
morbida falce la notte, luna
che danza in penombra di stanze
socchiuse, di piccole antenne
retrattili agli angoli bui. è l’ora
della mietitura, lo scampolo
di ieri che a quest’alba
districando ricuce
*
il coleottero spicca iridescente
cielo di felce a spiovere l’ombra
del giaguaro che schianta le vertebre
a sera. mia foresta libertà oscena
chi può dire cosa è umano?
*
si lanciava l’arzilla bicicletta
occhi stretti a volo per la china
il cuscino a fiorami sul cestino
che non restasse il segno
ma dal ciglio ogni volta sbucava
un branco, feroce d’aspetto
tu imprecavi e non era dei cani
il tremore, io sfioravo in
preghiera la tua pancia tesa e
si svoltava, ocra metallica a sera
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