Difficile dire quale sia il modo migliore di approcciarsi a una raccolta complessa come La memoria dei senza nome di Luca Ariano (Il Leggio Libreria Editrice, 2021), lavoro che l’autore stesso definisce come la chiusura di una trilogia iniziata con Ero altrove (Le Voci della Luna, 2015) e proseguita con Contratto a termine (QuDu Libri, 2018). Forse sarebbe bene leggere la concisa ma lucida introduzione di Alberto Bertoni e ancora di più l’illuminante intervista all’autore di Luigi Cannillo, in cui emergono i dettagli sulla costruzione di un lavoro che ricorda nella sua impalcatura – e per diversi rimandi anche nel linguaggio – i grandi romanzi in versi del Novecento italiano; o forse sarebbe invece meglio gettarsi a capofitto nella galleria di personaggi che lo popolano e soprattutto nel grande affresco che li contiene e fa da sfondo, che anch’esso affonda le radici nel Novecento – inteso qui come geografia di luoghi, di atmosfere, di rimandi letterari, culturali e musicali – per spingersi fino ai giorni nostri e affacciarsi sul futuro, che immaginiamo caratterizzato dalla telematica e dalla rete.
Di fronte alle sofferenze e alle ingiustizie del passato, così come alle incertezze di un domani che si prospetta disumanizzante, La memoria dei senza nome si configura come un grido di testimonianza su cosa significhi essere “persona”, con pregi, difetti, incertezze ma anche gioie improvvise e sentimenti totalizzanti, e appare ancora più necessario in un passaggio storico e sociale come quello attuale, in cui la frammentazione del reale rende sempre più verosimile il rischio di smarrirsi.
***
Cosa fai a Milano?
Tu che sei fuggito…
Quante Terese e Bell’Iridi smarrite?
Oggi non ci pensi accanto a Rosa
su quei Navigli… sulla Darsena ripulita.
Giochi a fare la guida:
«Qui lavavano i panni… qui pregava la Merini…»
I versi di Vittorio Sereni!
Senti il suo capo sulla spalla,
il cappotto blu Klein,
quel viso ancora vede prati dalla finestra,
quasi sperso tra cubi di cemento, guglie e marmi.
Ti senti come nel dopoguerra,
prima di ricostruzioni sussurrandole:
«Avrei dovuto… sì, mah…»
Ti ricordi di Primo che quasi si gettava
dal Ponte della Ghisolfa.
Non ascolterai l’Enrico e mentre cala
un crepuscolo lombardo
– scherzando su un vecchio poeta –
abbraccerai Rosa tra le ombre delle case.
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“On the wind, so Mary, climb in
It’s a town full of losers,
And I’m pulling out of here to win.”
“Nel vento, perciò Mary salta dentro
È una città di perdenti,
E io me ne sto andando per vincere.”
Bruce Springsteen
Da quanto tempo Fiulin
non trascorrevi una sera così?
In quella birreria
– una volta saresti fuggito
con una ballerina –
c’è Rosa tra il profumo di tè
e vodka, il sapore di dolci d’autunno,
poi nel parcheggio come in Thunder road.
Ti sei perso in quelle strade,
per arrivare ai suoi prati:
lei vide volti di partigiani trucidati,
contadini uccisi chissà come…
Arriverà la domenica, l’Enrico
si sentirà sempre in Viale Ungheria:
non sa dove finisce la periferia…
iniziano i campi;
vorrebbe con una donna passeggiare
in un viale alberato di ville Liberty,
di antichi caffè.
Questa notte attende un ballo
che lasci un brivido mentre cadono le foglie
e non sa chi le coglie.
***
Ti si sgretolano foglie secche
tra le mani, il vento le trascina
nel tuo cestino: cosa rimane?
Spedito l’ultimo pacco…
gli ultimi oggetti… ricordi
che si annebbieranno.
C’eri anche tu in piazza,
ora sei qui senza credere in nulla,
nemmeno una rivoluzione.
All’angolo del tavolo ad una cena:
Cosa cerchi? Forse un posto per te…
di assaporare anche tu il pasto.
I vecchi amici seguono le loro strade,
le voci lontane… e Rosa?
Anche lei vedrai andare via…
Non sono mai tornati i tuoi conti Enrico:
racconti a Fiulin di quei guai
in un repentino freddo ottobrino
che porta solo malanni.
***
Meno di una settimana a Natale
e tu Fiulin fuggi giù: chi cerchi?
Le tue origini? Avresti portato Giggino
un’ultima volta: scese per un funerale
con la sua 127 bianca.
Anche lui vide branchi di pecore?
Pascoli di bufale lì dove i Sanniti
sconfissero i Romani…
Tu quando porterai un fiore sulle tombe?
Sarebbe piaciuto a Giggino camminare
per quei vicoli tra panni stesi…
odore di cucina e fritto
– come quello di mammà –
e il mare così vicino.
Anche tu sei ripartito in un treno di nebbia
da Averno: loro temono dicembre…
che qualcuno non veda le feste.
Solo Rosa lontano ti sorride nel fumo
che ti brucia i polmoni e quell’abbraccio
è l’unico regalo che valga una stagione.
***