di Giusi Drago
Leggere Omissis di Bellinvia è correre il rischio di finire “in un qualche strano giro / di metafisica realizzata”, come il pardo che scompare nel libro. Non è un caso che la raccolta si apra con un bouquet di poesie “grammaticali”, dedicate alle parti del discorso: nome pronome verbo aggettivo articolo preposizione congiunzione avverbio. La riflessione poetica sulle categorie lessicali fa parte di una strategia obliqua adottata dall’autore per entrare in contatto con la propria identità, la quale è anche una storia di relazioni fra classi di parole. Le poesie di questa prima parte, intitolata Dubbi grammaticali, sembrano quindi l’esito un’analisi grammaticale (in versi) che fughi lo scetticismo dello scrivente o gli permetta di renderlo manifesto. Quali sono dunque questi dubbi grammaticali?
Per rispondere alla domanda con un’altra domanda, chiamerò in causa Nietzsche: “Non è forse permesso essere alla fine un po’ ironici verso il soggetto, come verso oggetto e predicato? Non potrebbe forse il filosofo innalzarsi al di sopra della fiducia nella grammatica?” (Al di là del bene e del male, § 34). Bellivia si rivela, in modo intuitivo, piuttosto diffidente verso quella forma di “grossolano feticismo” insita nella logica del linguaggio e denunciata da Nietzsche anche in Crepuscolo degli idoli (in una parte intitolata La “ragione” nella filosofia, 5). “Tale feticismo vede dappertutto uomini che agiscono e azioni: crede alla volontà soprattutto come causa; crede all’‘io’, all’io come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto di ‘cosa’”.
La grammatica non è soltanto fondativa del linguaggio, ma anche implicitamente teologica. L’organizzazione del linguaggio, da Nietzsche chiamata metafisica del linguaggio – e che si basa, per esempio, sulla scissione fra soggetto e predicato e quindi fra essere e agire – è la stessa della ragione, del logos, tanto che Nietzsche giunge a dichiarare: “temo che non ci sbarazzeremo di Dio, perché crediamo ancora alla grammatica”. Fra le “seduzioni della lingua” da cui non riusciamo a liberarci, Nietzsche individua quell’ostinazione per cui il linguaggio pensa che ogni azione sia condizionata dall’esistenza di un soggetto, l’agente, separato dall’agire e in possesso di una volontà che detiene la verità dell’azione stessa: “Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; colui che fa non è che fittiziamente aggiunto al fare” (Genealogia della morale, § 13).
Anche Borges, per tornare nel campo della letteratura e non insistere troppo con la filosofia, scredita la grammatica come “arte illusoria, che non è altro che l’uso autorizzato” della lingua (nel saggio L’idioma infinito contenuto ne La misura della mia speranza). Borges vuole istigare a una “politica della lingua” che favorisca la consapevolezza che la lingua è sempre perfettibile, che ogni lingua è appena abbozzata e va ampliata. Pure lo scrittore argentino denuncia un feticismo, quello della perfezione della lingua.
Insomma, alla grammatica ci si attiene – o la si viola –, alla grammatica si tende a credere; ma questo non vale per un poeta come Bellinvia che sembra non dare per scontato nulla: i suoi sospetti grammaticali sono soprattutto dubbi e sbalordimenti relativi all’ordine e alle gerarchie del mondo. Dopo aver letto l’intero libro viene poi da chiedersi se non sia proprio la grammatica a occultare la “sacertà terribile / di ogni scrittura”, verso tratto dalla poesia raro della sezione Trenta mandate di chiave. Ma su questo tornerò in seguito.
Nella prima poesia del libro, nome, Bellinvia non si dedica certo – ci mancherebbe altro! – a una disamina concettuale della categoria di soggetto grammaticale e della supponenza dei nomi, ma vuole veder chiaro nell’azione del nominare, e per farlo ci sprofonda dentro, nella grammatica, neanche fosse un buco nero. E fin da subito le categorie grammaticali oggetto della sua attenzione sono smascherate come “esistenziali”: ne va della sopravvivenza del soggetto, di una persona, inizialmente senza nome, a cui si dovrebbe prestare soccorso (“Persona, non ti so aiutare”). Prendiamo i versi “ti do un nome, //un nome che ti possa aiutare anche / in futuro nel mondo”. La cosa pare dubbia anche a chi la dice: davvero i nomi possono aiutare anche in futuro nel mondo, o somigliano piuttosto soltanto a “un manico / con cui si dovrebbe / poter afferrare al bisogno / il tuo viso, che ora torna nel nulla”? Nel prosieguo della poesia viene attaccata addirittura la genealogia: ci sono madri e padri che non hanno fatto bene il loro lavoro di datori di nomi… da un lato i nomi potrebbero funzionare come giubbotti di salvataggio in caso di naufragio (nel Mediterraneo?), dall’altra però, se non sono chiusi bene e ben legati ai corpi, “i nomi / salgono e i corpi // affondano”. La poesia stessa non è forse un problema di corretta legatura?
Se nemmeno il nome è capace di indicare il soggetto e può volare via, figuriamoci quanto possono essere volatili i pronomi: “Pronome è soffiare/ una bolla nell’abbandono/ di un luogo” (forse il luogo abbandonato dal nome, al cui posto subentra il pronome). Ma a sorpresa Bellinvia ci dice che “pronome è rimanere / sempre a disposizione”. Il pronome esprime una certa volontà di sopraffazione, per questo pretende che restiamo sempre lì a disposizione e ci impedisce di partire (“senza mai davvero // partire”): penso all’incipit del Canto di me stesso di Walt Whitman (“Io celebro me stesso, io canto me stesso, / E ciò che io suppongo devi anche tu supporlo / Perché ogni atomo che mi appartiene / è come se appartenesse anche a te”) e a quella che Ben Lerner in Odiare la poesia chiama la “capienza dei suoi pronomi”. Una possibile scappatoia a questa prepotenza, implicita nel pronome, Bellivia la individua in una deminutio “se non sono altro / che una bassissima carica di me, una durata / finita” o in un altalenare fra alternative impossibili:
mi pianto su tacchi
magrissimi di palafitta,
sopra cui navigo da fermo
e a vista tra i poli della marea,
su e giù, fra i miei alti
e bassi, senza mai davvero
partire, ché pronome è rimanere
sempre a disposizione
Questi versi sono un buon esempio dell’uso strategico ed elusivo che l’autore fa dell’elemento autobiografico e la grammatica gli fornisce l’occasione per esplorarlo da una diversa angolatura. Anche nella poesia aggettivi Bellinvia non teme di trasferirsi in un universo pitagorico, dove l’opposizione fondamentale fra pari e dispari, notte e giorno si trasforma in una polarità dell’esistenza declinata in rotondo e appuntito:
La notte è pari, il giorno credo
dispari. Una arrotonda
la cifra del reale, l’altro
la fa tornare a punta. Poi ancora
la notte pari, e di nuovo
gli aggettivi precisi
Si tratta dell’ammorbidimento che la notte stende sulla “cifra del reale”, cifra che di giorno torna a essere spigolosa, costosa e appuntita. Interessante l’implicita dichiarazione di poetica: gli aggettivi devono essere precisi, tanto quanto il poeta deve essere concreto, e infatti chiede al suo cuore di essere “più concreto con gli altri”. Anche in questo caso mi viene in mente Borges che, dopo aver preso le distanze dagli aggettivi, conclude così circa il loro impiego in poesia: “Eliminarli può rafforzare una frase, cercarne con cura qualcuno significa onorarla, cercarne molti significa renderla assurda”. Nel suo saggio intitolato Aggettivazione, sempre in La misura della mia speranza, lo scrittore argentino parte da un riferimento all’invariabilità degli epiteti omerici per finire con la constatazione che, essendo cambiate “alcune regole del gioco della letteratura” nel corso dei secoli, “i poeti attuali hanno fatto dell’aggettivazione un arricchimento, una variazione; quelli antichi un riposo, una specie di enfasi”.
Nella poesia preposizione il verso “un dialogo diretto nell’attacco delle preposizioni” va interpretato nel duplice significato del termine “attacco” che si riferisce sia all’aggressività che all’interconnessione: l’autore dichiara di essere stato un adolescente “dalle frasi difficili da connettere” che, forse proprio per questa ragione, tirava sassate verso le persone. La preposizione esprime la direzione della rabbia del minorenne (così come in genere delle nostre attrazioni o idiosincrasie) fino alla sua imprevedibile meta, “una vera casa fatta di sassate”:
Oltre quello spazio magari
una vera casa fatta di sassate
perdute e rovine solo per me
si sarà ambientata, proprio
a un tiro, già crollata
per essere indistruttibile
Ecco qui una spirale di cortocircuiti del senso, emblematica di quel procedere analogico che caratterizza la scrittura di Bellinvia: la casa è fatta di sassate ma perdute, si sarà ambientata (da notare il futuro anteriore) proprio alla distanza di un tiro, eppure è già crollata, il che “per essere indistruttibile” è una bella impresa.
Sul tema della casa e di una domesticità impossibile (“angoli / che da decenni non sono // dimora specie dopo affitti rapidi”) molto belle sono alcune poesie della terza parte del libro, per esempio fango e tango e sacco.
In fango, che ha come motto a esergo un bel “restate tutti a casa” in odore di covid, si mette in luce l’affinità fra caverna e casa, perché la casa
senza rapporti, è una caverna.
La febbre dà un’ombra
che io non so. Tutto il resto,
come secco. Le idee a porte chiuse,
e qualcuno a morire per strada,
o a leggersi in Platone.
L’ombra è indecifrabile e asfittiche sono le idee “a porte chiuse”, mentre saranno altri a morire per strada. Fa eco a questa poesia sacco dove la casa con il suo mobilio studentesco è stampata forte sulla pelle di chi la abita, anzi cucita addosso alla persona come un abito: si tratta qui di una casa dalle porte aperte, e il poeta consiglia al suo interlocutore, chiamato “fratello”, di non fuggire più e di non aver paura dei ladri:
I tuoi ladri, per fisiche strane, quasi
riempirono più che togliere.
Smetti di fuggire, fratello,
non è colpa tua. La casa piena
o vuota. Abbi cura di te, se puoi
non dimagrire, non fermarti
al tuo interesse […]
Nella poesia tango la riflessione sulla casa sembra condensarsi nel correlativo oggettivo delle posate: le posate che si contendono lo spazio sulla tavola e lo contendono alla “briciola”. La faccenda fa paura, ma il poeta, che si aspetta il peggio rincasando, sorprende i commensali “disposti nell’amore / per il loro // prossimo”.
Forchetta sul coltello, coltello
sul piatto, il piatto
sulla briciola. Li sorpresi tutti
disposti nell’amore per il loro
prossimo. L’amore
che a volte fa una gran paura
Nella poesia congiunzione, rivelatrice di come l’autore intenda la scrittura, alcuni versi recitano: “quando ancora /due elementi meritano / una congiunzione”. Tuttavia i due elementi meritatamente congiunti (che forse sono la fragola e lo scolo dalle serre) lo restano per poco, la congiunzione è instabile, tanto quanto “immangiabili” sono le primizie del discorso. In realtà Bellinvia gioca a lasciare volutamente irrelati molti elementi della sua poesia, e questo mi riporta a due dichiarazioni, una in prosa l’altra in versi, di Ilse Aichinger, la quale mi sembra mostri un’analoga volontà di demistificare le “segrete corrispondenze”. La prima dichiarazione d’insofferenza verso i nessi, quella in prosa, si trova nel saggio Parole Brutte: “Nessuno può pretendere che io stabilisca collegamenti finché si possono evitare”. La seconda è in versi:
Tra scala e parete nord,
visita nel pomeriggio e scarti di legno,
resti di mela e di neve
stabilire un nesso
che sia irrevocabile
A questa poesia di Aichinger si possono accostare i seguenti versi di Bellinvia, tratti dalla seconda sezione del libro Sillogismi dell’amore perso :
Sillogismo 8
a) chi non fa nulla è disoccupato
b) i tuoi sguardi sono gettoni per chiamare
c) i gettoni non funzionano più
d) le cabine avvolgono la gente
e) le cabine non esistono più
Simboli si usavano tra di noi, ma oggi
ci raggiungono meglio i collegamenti nudi,
netti. Risultato: tutto funziona di più,
ma niente avvolge la gente. Ecco
perché una come te
rimane ferita e disoccupata
come i gettoni, più delle cabine.
All’insegna dell’irrelatezza e della disfunzionalità sono i sillogismi inventati da Bellinvia; in essi si vede all’opera un’apparenza di logica, a suo modo stringente. Le poesie sono divise in due parti: fra la prima e la seconda vi sono relazioni e richiami, la seconda parte usa gli accenni impostati dalla prima, ma solo per deragliare; in realtà non hanno in comune nulla che possa configurarsi come premessa e conclusione. La cogenza del procedimento sillogistico, che è l’arte di trarre conclusioni da premesse valide e vere, è fatta esplodere con molta sapienza e molto gusto. Prendiamo a titolo di esempio due specie di dichiarazione d’amore, fatte in modo da non sembrare tali, nel sillogismo 5 e nel sillogismo 6:
Sillogismo 5
a) un vassoio d’argento è splendente
b) il mare è splendente
c) le liquirizie Amarelli sono nere
d) gli sguardi hanno il colore degli occhi
e) i tuoi occhi sono neri
f) i denti sono bianchi
g) certe pietre sono bianche
Un vassoio d’argento con liquirizie
Amarelli mi porse mia nonna,
quel giorno. Ed io, rigato di sale,
risposi di sì. Un vassoio d’argento
con liquirizie Amarelli era il mare
con i tuoi sguardi, nell’uscita
di denti maggiori e labbra minori,
carni e pietre tue preferite. Sorridevi
e venivano delle onde, in difesa
e dopo con degli attacchi spietati
di chiaro. Come se del mare tu fossi
ignara, placida mandante.
Sillogismo 6
a) la mia testa posa sulla prima riga per amore
b) il cuore pompa alla seconda riga per amore
c) il sesso si sente alla terza riga per amore
d) i piedi sono diventati passi, e i passi hanno numero di pagina
e) le formiche sono divise in tre parti
Cranio, cuore, sesso. Trasmetto l’amore
particolare attraverso il formicaio
lineato, ma senza più la tua notizia.
Per fortuna. Le operaie calano
negative. Portano i dati senza fili
al polo opposto, alla monarchia e all’odio.
Sia le liquirizie che le formiche costituiscono il motore (o il termine medio, si direbbe aristotelicamente) del sillogismo, ne sono la molla generatrice, ma questa generazione non accade per successivi e ordinati sviluppi logici, bensì per una sorta di autopartenogenesi intrinseca al linguaggio, in una forma che decostruisce le proprie ambivalenze attraverso un gioco di scatole cinesi. Il riferimento alla scatola è posto da Bellivia a esergo della terza parte e affidato alle parole di Kobo Abe. L’uomo-scatola è paralizzato da ambivalenze fortissime, tanto da aver l’impressione, pur non avendo ucciso nessuno, “sia di aver voluto fuggire sia di aver voluto inseguire”.
Mi sono a lungo chiesta come leggere Omissis di Carlo Bellinvia e come scriverne. Sono poesie che non si lasciano afferrare facilmente. Sono taciturne, non loquaci, e sono al contempo dense ma piene di vuoti e di spazio bianco. Non ho potuto né saputo addentrarmi in una lettura formale / strutturale: su come sono fatti i versi di Bellinvia si è espresso, con grande acutezza e precisione, Davide Castiglione nella prefazione al libro, nella quale ha interpretato le strategie compositive che rendono possibile questa poesia: il surrealismo con le sue antropomorfizzazioni (che apparenta l’autore, fra gli altri, a una grande autrice da poco scomparsa, Cristina Annino), il montaggio, la narratività ellittica.
Vorrei soltanto tornare alla “sacertà terribile / di ogni scrittura” a cui Bellivia si dichiara esposto. Ad essa lo scriba accetta di esporsi, così come l’homo sacer è esposto alla morte, al tempo stesso consacrato e dannato, “scoria e dono”, come scrive R. R. Corsi recensendo Omissis sul suo blog: “La sacertà, nell’antica Roma, era la punizione riservata a chi compiva delitti contro lo stato o la religione; consisteva nella condanna capitale e, sul piano esecutivo, nella scriminante erga omnes per chiunque decidesse di far giustizia sommaria del malcapitato […] Ricordo lo straniamento, durante le lezioni di storia del diritto romano, e la difficoltà di comprendere il concetto, di associare la parola sacer a una condanna a morte, a un linciaggio permanente istituzionalizzato. Questo perché non ci veniva spiegato che sacer è una vox media, cioè ancipite, che può assumere sfumature opposte, di sacro come di dannato’”.
Ma quali sono le ragioni che spingono chi scrive a esporsi? La risposta di Bellinvia è: “per evitare di apparire neutro al male”. La scrittura non è neutra, il suo significato va ben al di là di una funzione grammaticale e tecnica, scrivere è sempre prendere posizione sul mondo, interpretarlo, osservarlo da un particolare punto, prenderne le misure. Ricordo qui la figura di Giorgio Raimondo Cardona e la sua antropologia della scrittura. Cadorna mostra come la scrittura, che pure in origine si sviluppa in un contesto aritmetico ed economico, trovi le sue prime applicazioni compiute in ambito poetico-magico-musicale e mortuario. Per i sumeri, per esempio, era importante che i morti fossero accompagnati da diversi giorni di canti funebri. Nel momento in cui ebbero la scrittura, i sumeri cominciarono a seppellire i canti funebri insieme con i morti, che in questo modo erano accompagnati per l’eternità. La scrittura diventa così l’eternizzazione della parola nei contesti sacri. Altri esempi di Cardona riguardano tempi più recenti e l’Africa sahariana e sub-sahariana, dove vigono pratiche magico-sanatorie, seguendo le quali si scrive un testo sacro, per poi sciogliere con acqua l’inchiostro della scrittura e darlo da bere al malato. Il sofferente si beve quelle parole… Ecco come la scrittura diventa materializzazione di una parola che può essere sacra e risanante al punto che si può assimilare corporalmente, cioè bere. È evidente qui che, del linguaggio, di quel “corpo articolato” che è il linguaggio, il malato non si beve le regole grammaticali, ma la possibilità salvifica della parola, resa visibile e concreta grazie all’inchiostro. Una parola che ha le proprie radici nel corpo, come nella sua recensione a Omissis ha osservato anche Laura Liberale: “ed è nel corpo che forse si annida davvero la sacertà terribile di ogni scrittura, quella testimonianza incarnata che è sempre autorevole, sempre fededegna”.