perìgeion

un atto di poesia

Impermanenza, di Sebastiano Aglieco

Di Vincenzo Di Maro

 

 

AL CONFINE DI UN’ASSENZA

 

Su “Impermanenza” di Sebastiano Aglieco

 

Mi giunge da Sebastiano Aglieco un bel diario dal titolo “Impermanenza”: diario composito, pieno di viaggi – a Praga, nell’abisso di Dachau, ma anche per strada o, semplicemente, a bordo di un tram; di incontri –  con un bambino, con Caravaggio o Schumann, per un fantasmatico ascolto; di riflessioni e non solo.

Il diario di un poeta è costitutivamente disordinato.

Ma solo all’apparenza. Un poeta è in genere disordinato per onestà.

Parto perciò da alcune riflessioni che Gottfried Benn inserì a suo tempo in “Problemi della lirica”: “Nel produrre una poesia non si osserva solo la poesia, ma anche se stessi. La produzione della poesia è essa stessa un tema, non  l’unico tema, ma in certo modo si fa sentire ovunque. Particolarmente significativo in questo senso è Valéry (…) Egli dice: “Perché non si dovrebbe concepire la produzione di un’opera d’arte come opera d’arte a sua volta?”

Riflessioni di un Novecento alla sua quintessenza, come si vede. Riflessioni da cui si emerge a fatica: Benn riesce qui ancora vitale.

Come tanti altri nel secolo scorso, Vàlery ebbe in effetti lo scopo – chissà quanto illusorio – di cogliere analiticamente il processo del pensiero: redasse ogni giorno, per più di cinquant’anni, i suoi quaderni: sempre alle prime ore del mattino, sempre appena sveglio.

Nella modernità avviene spesso che l’autore provi a separarsi dalla propria contingenza individuale; chi osserva, confidando nell’esistenza di una sovrapersonale entità – il “pensiero umano” – diventa l’oggetto osservato: l’esperienza è presto tradotta in esperimento.

Altro esempio, altro poeta di inizio Novecento: quasi ignoto in Italia, il francese Joe Bousquet sceglie volontariamente per sé una singolare parabola di vita: dal tragico evento della sua infermità – subita sul fronte francese nel ’18, con una granata che gli spezza la spina dorsale –  abbraccia la volontaria clausura di una soffocante camera in penombra, in un appartamento a Carcassonne; la manterrà fino alla morte avvenuta più di trent’anni dopo.

Ma è esilio attivo: dal proprio letto dirige una rivista di letteratura, tesse alcune tra le trame decisive della Resistenza in Francia.

La domanda da porsi è, pertanto, a cosa serva il diario di un poeta a sé e ai suoi lettori.

A ben vedere, da Mallarmé in poi non più di una decina di autori – quasi tutti poeti, ciascuno titolare di una vita intensissima – articola il Ventesimo secolo letterario fino a costituirne l’ossatura: vite scandite da poesie,  saggi, articoli, lettere; soprattutto, da memorabili quaderni di viaggio intorno a se stessi.

Per tutti, la costante è la mente che si spia, la trama di un senso che si costruisce: diari e corrispondenze non fanno più da corollario all’attività poetica, ma diventano pietre angolari di un Opus disordinato e magmatico, una traccia per il fiuto di ulteriori autori.

Oggi che in poesia l’indagine sulla mente – l’ente osservatore per antonomasia – data ormai più di un secolo, Aglieco compone dunque il suo cahier.

Lo fa ponendo sin dal titolo l’accento su quell’”impermanenza” che ogni esperimento intorno al Sé necessariamente comporta.

E quale, lo strumento con cui Aglieco lotta contro l’impermanenza? Il più importante che un poeta possieda è la forma. La forma-scrittura lotta contro il tempo, la disgregazione che il tempo comporta. E’ una lotta impari, che ogni volta però miracolosamente riesce.

“Che cosa di me passa nel mondo se non la mia morte, il mio lento disgregarmi nella resistenza della forma?”

E ancora: “Innocenti nella forma, in una forma che non chiede, non si chiede”. (pag. 48)

come può la scrittura, concepita per la stessa durevolezza, rappresentare con autenticità e verità l’impermanenza?

“Se mi celo dietro la scrittura, chi mi ha scritto, chi mi ha guardato?” (ivi)

 

E’ che la scrittura si pone al confine di un’assenza, quella costitutiva dello scrivente: ne fa il suo  più ambiguo fondamento.

Tornando al diario di Aglieco, la sua stessa intenzionale frammentarietà invita a leggerlo tutt’altro che d’un fiato: chi ne sfoglia le pagine è anzi più volte indotto ad allontanarsene, per riflettere anche molto a lungo, tornando tra le pagine a concepire la sua stessa paradossale assenza.

 

1. perché scrivo?  perché la parola si ferma?  questa è la parola minore, che aspetta, che prepara . (…)    è comunque parola che non vuole niente. ancella tutta la vita  (dal Prologo, pag. 9)

Ed ecco forse un dato costitutivo dell’intero percorso poetico di Aglieco: che sembra spesso cogliere il pericolo dello scrivere, la sua menzogna –  diremmo meglio la sua estraneità, la sua controversa inospitalità –  e che quindi permette di smascherare la dialettica tra Io e mondo, talvolta osservandone l’ ambivalenza, talvolta addirittura sospettandone, dietro le apparenze, l’identità. Può la scrittura non appartenere completamente all’Io? Può configurarsi come un più veritiero “Tu”?

Ciascuno vuole sapere; e, tuttavia, a che vale sapere, considerato che un giorno perderemo tutto? Qui la poetica sfocia in una mistica.

Viene in mente il finale del Martin Eden di London: “E  quando seppe, smise di sapere”: perché in fondo ogni autore che si rispetti guarda sempre – in faccia, di sbieco- al suo stesso dissolvimento. E ciò malgrado, Sebastiano Aglieco coltiva in ciò che scrive una rara pietas, come una rosa nel deserto, mostra un occhio di riguardo alle cose e ai viventi. Perché, direbbe Holderlin, “dov’è il pericolo, cresce anche ciò che salva”.

“Impermanenza” è in questo senso un libro durevole, che a lungo cioè soggiorna nella mente del lettore.

                                                                                                                     Vincenzo Di Maro

 

 

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Un commento su “Impermanenza, di Sebastiano Aglieco

  1. Pingback: Vincenzo Di Maro su IMPERMANENZA – narcyso

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Questa voce è stata pubblicata il 15/09/2022 da in letteratura italiana, recensioni con tag , , , .
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