rubrica di Nino Iacovella
Qui sono io, Leopolda Maria Panero
figlio di padre ubriaco
e fratello di un suicida
perseguitato da uccelli e ricordi
che mi insidiano ogni matrina
nascosti in cespugli
gridando che finisca la memoria
e il ricordo divenga azzurro, e gema
pregando il niente perché muoia.
***
IL PAZZO
Sono stato tra i suburbi, simile
a una scimmia, sono stato nelle fogne
a trasportare feci,
due anni sono stato nel Paese delle Mosche
imparando a nutrirrni di ciò che secerno.
Fui una biscia che scivolava
sulla rovina dell’uomo, gridando
aforismi in piedi sui morti,
attraversando mari di carne sconosciuta
con i miei logaritmi.
E potei solo pensare che da piccolo
mi sequestrarono per un’allucinante battaglia
e che i miei genitori mi sedussero per
eseguire il sacrilegio tra anziani e morti.
Alle larve ho insegnato a muoversi
sui corpi e alle donne a sentire
come cantano gli alberi al crepuscolo, e piangono.
Uomini imbrattavano il mio viso di fango, parlando,
e dicevano con gli occhi «fuori dalla vita», ossia «non c’ è niente che possa
valere meno dell’anima tua», ossia «come ti chiami»
e «che oscuro è il tuo nome».
Ho vissuto i bianchi della vita,
i loro equivoci, i loro oblii, la loro
incessante imperizia e ricordo il loro
mistero brutale e il loro tentacolo
accarezzarmi il ventre e le natiche e i piedi
frenetici dalla fuga.
Ho vissuto la loro tentazione e ho vissuto il peccato
da cui pare nessuno mai ci assolva.
***
EPILOGO. A QUELLA DONNA CHE HO TANTO AMATO
Vedevi come giorno a giorno ti sfregavo
le cosce con l’incubo,
lo vedevi il terrore razzolare nei domini del sesso
e niente mi dicevi.
Vedevi nei miei occhi scene di altri tempi
sequenze di case bruciate e rumore di linciaggio
e toccavi con schifo le squame
e non dicevi niente.
E mi lavavi con lo straccio il culo:
tutto quel che restava
e dicevi che era il vento quando fuori gridavano
i cani un’altra volta la mia morte:
e mi parlavi del vento perché niente restava.
Fingevi d’ignorarmi quando, solo, chiedevo
la morte che mi era dovuta
e quando in istevo che era
la stanza una cappella ardente
per ardere i giorni come sigari o candele,
onore postumo a quel che c’era nel mio corpo:
dicevi che era il vento.
Baciavi con I’oro
dolce della tua pazienza la corona
grottesca della mia pazzia
e lasciavi che facesse giorno e poi
nottre nella finestra chiusa:
dicevi che era il tempo.
Dicevi che ero io quando spettri credevo
di vedere nella tua testa, e nel tuo
cuore la danza notturna
e quando ti picchiavo e ti insultavo
bestemmiando contro guanto di più tenero
e non sapevo che mi amavi.
E così vivere è solo mendicare alle tue porte
e aspettare ai tuoi piedi, e sognare il tuo sguardo nel limbo
crudele dei muri di questa stanza,
anche se in fondo potrei
dire che accetto la vita
per rispetto a te che hai pietà di lei
e non so se c’ è, e non vorrei
credere che ci sia stata un qualche strano giorno,
e non so e c’è.
E non so se c’è, e cos’è questa cosa che sboccia
simile al pus per i muri, cosa sono questi libri
vecchi come la mia vira, restimoni di segreti
assurdi e grotteschi che ormai a nessuno interessano,
ridicoli come la mia vita e ancora più comici
della mia figura.
E non so se c’è vita
o se ne resta alcuna, e
se tutto questo non è be tern mia, se viverlo non è peccare
se merita il suo essere questa solitudine di lebbra
e di maledizione che pronunciano solo
gli altri per la loro fuga, e con risa e orge
attorno a questo cadavere fragile, solo aria,
e celebrano la mia rovina e di notte urinano
su questa tomba immensamente umiliata.
lo non so come può essere tanto immensa la mia morte,
né qual è il mistero che fa passare i giorni
né ciò che tiene in piedi la marionetta che va
ormai torti i fili e senza sapere ormai niente
né perché ho scritto questo, né se c’è qualcosa di scritto
se le lettere non sono raschiate dal marciapiede,
da ogni cultura.
lo non so cos’è la luce
misteriosa e crudele che appare a quest’ora
eternamente immobile di un assurdo mattino
non lo so, ma so che c’è accanto a me una sorella
unica creatura che esiste anche dopo il niente:
E questa lingua che lecca
giorno dopo giorno le inutili piaghe
e il dolore senza dolore, come un’ombra vana,
come mal di denti a carie in un letto,
questa lingua instancabile che accarezza la lebbra
la stessa che ama i morti è forse, oggi che in fine niente
resta ormai scritto,
sopra un foglio fantasma l’unica poesia.
***
THE END
Ho fumato la mia vita e dell’incendio
sorprendente restano
nella mia memoria le ridicole cicche:
esseri che non mi videro, donne come vapore,
fumo nelle bocche e silenzio
ovunque, come un sudario
motivo per cui non volli essere, e fui
come vapore o stele sulle onde oziose, bambini alla marinara
che a scuola impararono l’Errore.
Non c’ era nessuno in quel pozzo, era
vuota la galera, penso a quando
aprendo alla fine la porta e riandando
in fine al catenaccio che mi univa
inutilmente alle aquile e mi faceva
amare le isole e adorare il niente, ri
riscopro
banale, lì a sorridermi, la luce.
***
AUTO DA FE
Dio il cane mi chiama l’aria brucia un uomo
orizzonte due corpi che ardono intensamente
quindi angeli vegliano dove stava la mia fronte
sono il nero, l’oscuro: brucia il mio nome.
Leroina mi cerca e pronuncia il mi nome
con l’ascia ruppero in due la mia fronte
lontano, nell’occaso, qualcuno dice qualcosa o mente
sono il nero, l’ oscuro: brucia il mio nome.
È la legge il silenzio e anche la bestemmia
è mostrare agli uomini una croce in bocca
dire loro che brucia, come moccolo
la mia anima nella penombra come una bestemmia
Dio il muto, scultura d’ ombra, fiorire di roccia
e i dadi di un cieco che chiudono la poesia.
***
REQUIEM PER UN POETA
(Deaths door. Suggerito da un disegno di Blake)
Cos’è la mia anima, chiedi
legato a un’immagine.
È un dio nell’ombra
che prega l’ ombra.
È forse uno schiavo
che lecca con la sua lingua i resti della vita.
Il capestro che al collo
portavamo legato è facile da sciogliere,
per quanto sia solo illusione, così come la vita,
il dolore e la morte e il sogno del denaro.
La vecchiaia, dicono, risponde solo a una domanda.
Una pelle rugosa e un uomo che si vergogna
guardandosi allo specchio seduto.
Un giorno morirò. Un giorno sarò solo,
cavalcando un alce per strada, e l’aria
sarà per i miei occhi il segnale di fuga.
Non saranno più mani, le mie mani,
né un solo buon ricordo
mi legherà alla vita già allora.
Vedrò passare un bambino sul marciapiedi dallo spavento
e gli chiederò il mio nome se domani rinasco.
testi tratti da “Peter pan non è che un nome”, Il Ponte del Sale, Rovigo 2011
‘Leopoldo Maria Panero è un grande della poesia contemporanea eppure se ne parla così poco. Grazie per aver qui pubblicato le sue poesie. Elogio a una donna che ho amato mi ha schiantato il cuore dal dolore e dalla bellezza dei suoi versi.
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