Ho sempre fatto molta fatica nell’affrontare la poesia che si occupa di poesia debordando nella metapoesia: il mio timore è quello di una sorta di riflessività autocompiacente, e devo dire che molto spesso è un timore che si concretizza. Ultimamente però due raccolte poetiche, diversissime tra loro, mi hanno dimostrato che scrivere poesia sullo scrivere poesia non solo è possibile, ma può portare a lavori di grande valore. Della prima ho già parlato qui; la seconda è Dispositivi di Stefano Guglielmin, pubblicata da Marco Saya Edizioni.
Mi pare di poter affermare che lo spessore di Stefano Guglielmin come critico, e più in generale come intellettuale, non abbia giovato purtroppo alla sua visibilità come poeta, ed è un peccato perché le sue raccolte si sono sempre rivelate dei distillati di scrittura di grande spessore, su cui già in passato è capitato di soffermarci. Dispositivi, in questo senso, non fa eccezione, e anzi appare forse ancora più compatta e coesa. Il libro si divide in due sezioni, Dispositivi del poetico e Dispositivi della salute, che confermano ancora una volta la solidità concettuale dello scrivere dell’autore scledense. Ma che cos’è un “dispositivo”? Mi sembra di poter dire – ma questa è la mia chiave di lettura, essa stessa “dispositivo” – che sia un qualsiasi strumento mentale, spirituale, emotivo, associativo ma anche tecnologico, linguistico, sociale che può permettere un ordinamento del reale, in modo tale da conferire a ciascuno di noi degli strumenti di decodifica, delle chiavi di lettura e al tempo stesso da influenzarci, determinare il nostro modo di posizionarci, di rapportarci ed esprimerci e quindi, in fondo, anche ciò che siamo.
In Dispositivi del poetico Guglielmin riflette, appunto, sul concetto stesso di scrittura poetica, e lo fa da un lato con quel minimo di distacco che gli permette di essere disincantato e talora sottilmente umoristico, dall’altro però con quella adesione totale alla scrittura stessa che non è solamente un’espressione artistica, non è tecnica, ma pare il gesto etico del tentativo di “amare quel buio infetto, rifondare”, perché “parlare rompe gli indugi e mette a repentaglio la vita”. In Dispositivi della salute, invece, l’autore rivolge il proprio sguardo ad un concetto di salute che mi sembra possa essere definito in senso molto ampio di corpo vivente che va dalla natività alla morte, che trasmette segnali di stimolo o difesa al proprio interno attraverso ormoni o mediatori (dispositivi?) chimici, insomma di corpo vivente che osserva gli altri dalla propria “posizione o disperazione”.
Insomma, quello che ancora una volta stupisce della poesia di Stefano Guglielmin è il suo peso specifico: è una scrittura di assoluta densità eppure al tempo stesso rimane poesia e non solo perché ne attualizza (con ammirevole padronanza) i canoni linguistici e stilistici, ma perché incarna una sorta di sacralità laica, perché “scrivere è questa neve sporca sui rami / il loro scuro deviare che gemma /quando vorrà”.
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Da usare con parsimonia
Parole come amore, se non
disturbato, acido, salso.
Parole fiore o firmamento
e un tu, se fa da recettore.
E frasi prese per vere come
io sento, io vedo, io penso.
È una questione di tatto, piuttosto:
mettere la mano nel verminaio
aprire i pori, dimenticare.
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Rifondare
Se scrivo una poesia al mese e muoiono
un milione di esseri al minuto, l’argine che la parola
mette, mente, non serve a niente.
Se scrivo un milione di poesie al minuto, meglio
smettere: è solo un moto compulsivo, una mia
malattia morale.
Se taccio, la terra lasciata incolta troverà
comunque contadino o cemento, braccio buono
o disastro su cui di nuovo investire / inveire.
Non si esce dal cerchio; si cresce nel suo seno
tra neri ratti e sangue nei forconi. La sfida
è amare quel buio infetto, rifondare.
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Scrivere poesia oggi
Infine la parola, questo bianco
d’uovo, che principia. Duemila
anni di cenere sulla testa, e tempesta.
Scrivere è questa neve sporca sui rami
il loro scuro deviare che gemma
quando vorrà. C’è attesa e disgelo
intanto, il crescere di bocca in bocca.
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Dopamina
Come l’animale, chiedi il premio: non è egoismo o maleducazione
ma dopamina che bacia il recettore; è naturale più del ragionare,
e comunque, vuoi per l’ingegno dell’organo alto, vuoi per il moto
a scasso dell’organo basso, siamo fra gli esseri che esigono compensi
per funzionare: la morale è un aminoacido sociale, un dispositivo
che mette in gabbia l’animale, come la poesia quando è fatta male.
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Camminare con Bernhard
Karrer, prima di impazzire, camminava con uno,
ma non il mercoledì perché uno camminava con Oehler;
io invece il mercoledì cammino da solo, se non scrivo,
e la domenica con mia moglie.
Quando leggo che Karrer, Oehler e l’amico camminano
più in fretta il lunedì del mercoledì eccetera, mi annoio
e chiudo il libro anche se ci crescono solitudine e ferocia
là in mezzo, se Camminare è un bel libro insomma,
io mi annoio lo stesso perché compio sessant’anni
e di passeggiare dentro quel gorgo non ne ho voglia.
Quei tre uomini invero non pensano come camminano,
il mercoledì verso est, il lunedì verso ovest, ma girano
in tondo, sprofondano, mentre io, intanto, parto dal basso
e salgo e da sopra poi scendo, andando, pensando.
Io amo Bernhard, ma non adesso: lo rileggerò a ottant’anni,
ascoltando Lolli. Mi vedrete il mercoledì camminare
con l’uno e il lunedì con l’altro; la domenica, invece,
salirò in montagna con mia moglie; parleremo sereni
del mondo, lasciando i nostri morti a casa.
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Interessante lettura. E quel parlare mi sembra poesia, di alta qualità.
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