dalla prefazione di Marco Albé
La poesia è un pesce quantistico
La poesia di Giorgia Meriggi, come qui si presenta, è una poesia dell’equilibrio, versi che nel flusso sovente caotico (e comunque perlomeno tumultuoso) del poetare contemporaneo si mantengono a mezz’acqua in aggraziato e limpido bilanciamento, appunto come un pesce sospeso grazie alla vescica natatoria. E il simbolo geometrico della vescica piscis, sintesi ternaria di un rapporto binario, è ideale rappresentazione di questo gioco di specchi tra aria, acqua e sguardo, tra fluire, galleggiare ed essere pescati, tra forma, discorso e atto poetico. Abbiamo il fascino di un impianto formale antico ancor prima che classico, un verso profetico e didascalico che immediatamente e affettuosamente richiama le caratteristiche della poesia sapienziale – la biblica, certo, ma essenzialmente la celtica, con la raffinatezza di linguaggio e di stile, le immagini altamente evocative, la precisione tecnica del vocabolario (con un ricco ricorso a citazioni e a rimandi), la densità concettuale; e parallelamente, l’ironia e la consapevolezza critica della scrittura contemporanea come gioco di paradossi, come svelamento della fondamentale irragionevolezza della società. Colpisce immediatamente il linguaggio poetico, costituito da termini nitidi, lucidi, che si presentano all’attenzione del lettore continuamente rifratti attraverso la perenne mutevolezza di un verso trasparente, ma ricco in densità e profondità subito sotto la superficie cristallina. Qui il linguaggio possiede un’immediata potenza evocativa, una vera mitopoietica del grande pesce del mondo, dove la forma si attaglia perfettamente, dialetticamente, al proprio contenuto: attraverso sprazzi di luce si svela quanto occorre perché si possa cogliere il designato che guizza al di sotto del – a meglio dentro il – verso; l’andamento del metro è fluido e propizio allo scorrere del senso e del significato, e laddove si manifesta un gorgo o uno scoglio esattamente dove la tensione del verso necessita che esso si franga. L’armonia del tutto permette che la poesia scorra come deve. l temi e il narrato scorrono e si trasformano con naturalezza e necessità eraclitee, mantenendosi coerenti pur nella chiara tripartizione di stile e linguaggio, e vengono portati attraverso il mutevole territorio della materia poetica da questo flusso cangiante, in una sorta di canone e fuga in forma fluviale. Dunque dalla sorgente mitica e sapienziale, dove il verso sgorga puro e designa nettamente, compiutamente, con essenzialità sacrale, si fluisce in un letto più placido e ordinari , dove pare esserci il tempo per meditare sul quotidiano – perenne anticamera del dolore – e forse per adagiarvisi. Ma la segreta corrente mi(s)tica scorre sempre, si avviva improvvisamente in rapide e scogli nascosti, si è di nuovo sbalzati al terribile cospetto del sacro. Infine il delta, e un mare vivo, ma recinto da innumeri labirinti e ingranaggi e catene e alberature, dove la lingua-fiume scruta, vaga, cerca, si mimetizza e si districa tra queste sovrastrutture alienanti. E sull’impeto dell’intima vena originaria finalmente sfocia e illumina con barbagli e zampilli zen i tristi pesci irreggimentati.
Meditazioni sul mondo sommerso
L’animale che io non sono mi guarda dalla stessa origine.
Quando ero un altro animale la luna era più vicina.
I
lo credo nello zero
bianco e tondo come un uovo
ma vuoto
non mi fido dell’uno
magro e nero
col profilo severo
di chi vuole primeggiare.
Per questo di notte guardo il fiume
all’alba sono una biglia d’oro
che rotola dal parapetto
e cade nella bocca
di una carpa.
Tutto ha sempre origine
da un diluvio
il salvataggio
a opera di un pesce.
Quindi torno nella mia forma
seduta sulla panchina
con le foglie sotto i piedi,
non lo considero un prodigio.
lo
è un matrimonio
combinato
fra un breve tratto verticale
e il nulla circondato
da un capello.
II
I pesci non riconoscono la luna
credono sia una di loro
un grande bianco sì,
specie quelli dei fiumi
e degli stagni d’acqua dolce.
I pesci non dicono io
o deriva,
sott’acqua
la notte non esiste
quasi mai
e non ha un nome.
I pesci sanno che la luna più grassa
ogni tanto
depone le uova nelle ninfee:
le radici sospese
dei fieri
che non vedranno mai
sono corde lanciate per non naufragare.
Fuori dall’acqua le chiamano figli.
III
Il mare contiene i pensieri dei pesci
il mare stesso è un grande pesce
che ricopre tre quarti del mondo
di squame.
Fuori dall’acqua
le chiamano onde.
Fuori dall’acqua
il gregge dei pensieri
brancola al pascolo
dissipando il verde.
Li tiene insieme un cane.
IV
I pesci amano il mistero
le notti senza luna,
lo sguardo privo di palpebre
grandangolare
conserva il rimpianto
per l’oceano universale.
nell’occhio rimodellato
per la visione in aria
perseverano a esplodere
inesistenti stelle.
Fuori dall’acqua
nessuno sa
cosa fa la luce all’occhio,
è un segreto fra particelle.
V
Sott’acqua
il tempo è più lento
la luce
si scioglie
prima di cadere sul fondo.
Nel mare di Dirac
nuotano pesci
col segno meno.
l numeri giurano
che è vero.
VIII
Di notte è facile fingere
è una lavagna nera
su cui puoi scrivere ogni cosa
sei un pesce come gli altri
e l’aria è l’acqua che respiri
dentro al fiume Po.
X
I pesci non hanno aspettative
non distinguono tra amo e verme
non stanno dall’altra parte del filo
dove lo strappo improvviso
premia l’inganno paziente
l’efficace confusione
dell’esca remissiva
sospesa nella corrente.
La logica dei sommersi, Marco Saya Edizioni, Milano 2021
versi bellissimi, di quelli che si ha voglia di rileggere
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