Da poco abbiamo avuto occasione di parlare di Carlotta Cicci su queste pagine relativamente a zona|disforme, interessante progetto di cui è coautrice assieme a Stefano Massari; l’occasione per focalizzarsi nuovamente su di lei è fornita da Sul banco dei pesci, raccolta recentemente edita da L’Arcolaio, che fornisce una ulteriore prospettiva, diversa ma in qualche modo complementare a quella di zona|disforme, sulla produzione dell’autrice romana trapiantata a Bologna.
[…] Insomma, è un libro generoso e multiforme, questo di Carlotta Cicci, un esordio apparentabile alle Somiglianze che segnarono l’esordio, ormai quasi mezzo secolo fa (nel 1976), del lirico più grande della nostra tradizione contemporanea, fra verticalità e destino, il milanese Milo De Angelis. E certo si può rimanere sorpresi dalla convocazione a paradigma di un modello tanto alto, ma in realtà tale associazione è tutt’altro che incongrua, se si riflette sulla ricchezza a tratti quasi caleidoscopica di temi e movimenti, di toni e di emersioni progressive del senso suscitate dalla scioltezza di dettato (prosodico non meno che sintattico) di entrambi i libri di esordio: e insomma non si tratta affatto di poetiche apparentabili, ma di una spinta comune all’inclusività e alla multianimità delle prospettive di rappresentazione.
Dalla prefazione di Alberto Bertoni
***
A mia figlia
E Cristo viene
come un fiore
di gennaio
Patrick Kavanagh
Torna un qualunque mattino
batte il fegato del mondo
insopportabile
nessun presagio
sul palmo della mano
in un passaggio
di vortici e soglie
con l’anima capovolta
in un improvviso odore
di fieno e sale
nel delirio
lei nasce
il suo respiro
come una carezza
assoluta
un suono
piccolo
*
Benedico la sua sorte
mentre il fiume scorre
e sale luna nuova
Roma verticale e inamovibile
mi nomina Madre
un accento
è nata
non c’è altro da sapere
come un cigolio
mentre il sole feriva
gli uccelli tardivi
a me fraterni
fremente
dilaniata
felice
quanta umanità
ho messo al mondo
***
dalla sezione Tunnel
Non sperare
che l’aspro tuo cammino
che ciecamente si biforca in due
abbia fine
Jorge Luis Borges
Ho l’obbligo
di rimanere intera
tento di trovare un fondo
per dirmi che ciò che misuro
è provvisorio
ogni lato delle cose
è consumato
nessuna interezza
sono singolare
né grande
né piccola
mi insegue l’odore del niente
implacabile divento chilometri
perdo tutto
perdo tutti
*
I miei mostri sono più soli di me
il cielo cade nell’acqua
gli abissi non si prosciugano
crescete un amore che non raccolgo
tendete le mani sulle ceneri
e sentite freddo
vi rendo vulnerabili
smentisco le vostre idee protette
vi brucio le dita poi vi curo
ho solo la dolcezza
di un candore selvaggio
mi dormo dentro
in anni schietti
tra le vite sommerse
lasciatemi al lato di un silenzioso largo
il bianco sarà un pudore sfacciato
la morte sarà la mia ultima alleata
*
Nei silenzi vicinissimi
ho la bocca macchiata di reato
rigo muri col pollice
scortico tavoli e sedie
mi sposto di continuo
tocco fondi
riemergo
sola sono tutta mia
***